Solo dall'anomalia dell'autogestione può rinascere lo slancio perché la Capitale esca dalla crisi politico-economica generata da 20 anni di accentramento del potere

La risposta sociale alla Roma degli 800 sgomberi e dei due commissari

Intervista a Francesco Brancaccio, attivista di ESC Atelier, sulla grande risposta che la Rete per il Diritto alla Città sta dando all'attacco della governance neoliberista

30 / 1 / 2016

Tutte le esperienze di autogestione a Roma sono sotto sgombero: nelle ultime settimane il Comune ha spedito le richieste di restituzione degli spazi assegnati in concessione diretta, e stanno arrivando in questi giorni le richieste-ingiunzioni di risarcimento per due decenni di canoni di locazione non versati. Questa operazione è un tassello del piano di rientro di bilancio, e prelude chiaramente alla messa sul mercato di un patrimonio immobiliare immenso. Davanti a questo attacco senza precedenti sta emergendo una risposta a partire dalla Rete per il Diritto alla Città, che ha visto in una partecipatissima assemblea presso ESC Atelier un momento di rilancio della progettualità di autonomia sociale. Abbiamo chiesto a Francesco Brancaccio, storico attivista dello spazio di San Lorenzo, di spiegarci a fondo la situazione.

Lo scorso 30 dicembre il Comune di Roma ha disposto lo sgombero di Esc, all’interno di una serie di provvedimenti decisi dal Commissario Tronca riguardanti diversi spazi sociali cittadini. Ci riassumi la vicenda?

Abbiamo l’impressione, come accaduto in tempi e fasi differenti in altre città europee, che anche a Roma si vogliano chiudere i conti con l’anomalia dell’autogestione. D’altra parte, il problema non riguarda solo gli spazi sociali, ma anche le occupazioni abitative. Un’emergenza, quella degli sgomberi, che però sta finalmente riaprendo degli spazi interessanti, e non solo resistenziali, in città. L’assemblea convocata ad Esc lo scorso 26 gennaio, che ha visto la partecipazione di centinaia di persone, lo dimostra: era dai tanto tempo, forse dai tempi dell’Onda, che non si respirava a Roma un clima del genere in un’assemblea!

Per qualche mese c’erano state un po’ di difficoltà, e di attendismo. Dopo la destituzione di Marino si era creato in città un clima abbastanza surreale. L’esperienza di Marino è stata disastrosa, da ogni punto di vista, ma al momento della sua destituzione dall’alto, si era creato attorno a lui, alla sua figura, un piccolo moto di indignazione democratica, per la maniera in cui tutto ciò era accaduto. Un sindaco che viene sfiduciato di fronte ad un notaio, senza neanche una discussione in consiglio comunale, consegnava l’immagine di una politica interamente privatizzata. Ora, nel momento in cui il commissariamento presenta i suoi conti, si apre invece una nuova partita, e le responsabilità di Marino riemergono in primo piano. Anche chi si era ricompattato attorno a lui oggi è costretto a riconoscere i disastri prodotti da alcuni provvedimenti della sua Giunta, in primis la delibera 140 del 2014 sul patrimonio pubblico, che ha provocato questa situazione che mette in discussione circa ottocento realtà, sottoponendole a bando pubblico. Il bando pubblico, presentato come strumento di trasparenza e pari opportunità, è in realtà dispositivo volto all’esclusione di quelle realtà che rivendicano e praticano uso comune degli spazi pubblici.

Più in generale, è evidente che Roma nell’ultimo anno e mezzo è stata devastata da una serie di elementi che si sono intrecciati. Sulla città è in atto un enorme progetto speculativo e, soprattutto, una gestione neoliberale che assume in pieno caratteristiche “sud-europee”, in cui quella forza lavoro cognitiva su cui timidamente aveva provato ad investire la stagione del “veltronismo”, rischia di essere definitivamente esplusa. Una città dove viene sperimentato il modello Expo, quello dell’esercito di lavoratori “volontari”. Una città impoverita e portata al collasso dalla dismissione dei servizi essenziali. Una città dove la gestione neoliberale, nella variante “sud-europea”, lascia ampi spazi al “capitale-mafia” (l’inchiesta di “mafia-capitale”, ha toccato solo una piccola parte, in termini economici, di questo enorme mostro) e dove la governance si presenta attraverso poteri commissariali e si ridefinisce su livelli inediti ed ancora da indagare.

I “due prefetti” sembrano la caricatura della Chiesa dei “due papi”. Come viene vista questa situazione in città?

Molti, ironicamente, hanno fatto questo paragone. Nel caso dei “due papi” possiamo almeno distinguere con nettezza una figura che aveva insistito sulla conservazione e una che ha aperto al rinnovamento, alla misericordia, ai poveri (la Chiesa è sempre complexio oppositorum). Nel caso dei “due prefetti”, emerge, invece, una vera e propria scomposizione dei poteri, tanto indecifrabile quanto pericolosa.

Tronca, il prefetto chiamato da Milano, che, assieme ai suoi subcommissari, accellera l’esecuzione della delibera 140, delibera che, proprio attraverso l’introduzione del bando pubblico, ha fatto in pezzi la “delibera 26” (delibera approvata nel 1995 dalla giunta Rutelli che regolamenta l'utilizzo degli immobili di proprietà comunale per uso a scopo sociale, culturale e ricreativo ndr), laddove il prefetto Gabrielli aveva dato, nei mesi precedenti, segni di distensione. Questa delibera, ottenuta in seguito alla resistenza allo sgombero del centro sociale La Torre, era molto avanzata per l’epoca, proprio perché lasciava ampi margini di manovra alle realtà dell’autogestione. E’ chiaro che su oltre 800 spazi che hanno usufruito della delibera c’è anche chi l’ha sfruttata per logiche affaristiche, ma è innegabile che grazie a quella delibera si era aperta una stagione davvero importante a Roma, sul piano culturale, sociale e politico. La cosa più interessante della delibera consisteva nel definire una zona grigia che prevedeva il riconoscimento formale della realtà che avevano occupato e riqualificato lo spazio, senza imporre grandi vincoli. E’ chiaro che lo spirito della delibera era l’esito di un rapporto di forza tra movimenti ed istituzioni, completamente diverso rispetto ad oggi.

Di fatto abbiamo assistito ad un riconoscimento che va letto sia in termini politici che in termini di benefici per il patrimonio pubblico?

Addirittura questo riconoscimento si è spinto a tal punto che le amministrazioni del passato, in alcuni casi non avevano stipulato i contratti basati sul canone sociale. E ora, cambiati i tempi, se la prendono con quelle realtà, che hanno invece il merito di aver agito in quartieri lasciati all’abbandono, organizzando welfare dal basso.

La grande partecipazione dell’assemblea che c’è stata ad Esc è il segnale più visibile di un’eccedenza che si rimette in cammino?

A Roma esiste un tessuto mutualistico, associativo e solidale che è enorme. Un tessuto che si scopre sotto attacco e cerca di reagire.

Il processo di mobilitazione si articolerà in due fasi. Nell’immediato, ossia fin quando ci sarà un governo commissariale della città, si proverà ad ottenere una moratoria sugli sgomberi dicendo: “a queste lettere (di sgombero ndr) non si deve dare seguito perché si creerebbe un problema di ordine pubblico in città e di forte disagio per i cittadini. Una moratoria che riguardi gli spazi sociali come le occupazioni abitative. Oltre alla questione sgomberi c’è il problema delle presunte morosità. Su questo punto la campagna dirà: “siamo in credito, non in debito”.

In una fase di medio periodo, si sta discutendo sulla costruzione di un laboratorio di scrittura dal basso di una Carta che stabilisca i principi volti al riconoscimento dell’autonomia delle esperienze di autogestione, andando oltre la stessa delibera 26. Traendo ispirazione dalle lotte per i beni comuni di questi ultimi anni, vogliamo un riconoscimento politico e giuridico molto più avanzato. Ad esempio, la delibera napoletana riguardante l’ex Asilo Filangieri (approvata dalla giunta De Magistris negli ultimi giorni del 2015 ndr) riconosce che all’interno di quello spazio si è instaurato un uso civico. La delibera napoletana inoltre non si basa sulla definizione di un soggetto giuridico, ma definisce una soggettività in fieri, riconosce cioè i processi di partecipazione e di decisione comune che all’interno di quello spazio si danno. Lo sguardo deve essere rivolto ai processi, alle pratiche, agli usi, non ai soggetti.

Il laboratorio di scrittura dal basso nasce fin da subito definendo un percorso allargato?

L’idea e l’auspicio è che il processo si allarghi ancora di più, coinvolgendo, quartiere per quartiere, tutte le realtà interessate dalla delibera 26 e non solo, all’interno di un processo di consultazione che prevedrà anche momenti seminariali, dove ci si confronterà con economisti, giuristi ed urbanisti. Ma questo processo dovrà investire anche un’altra grande questione, quella del patrimonio pubblico nel suo complesso, e il rischio della sua alienazione. Per questo la campagna che sta circolando si intitola “Roma non si vende”.

Gli spazi sociali sono quindi la cartina di tornasole di una più ampia partita di saccheggio del patrimonio pubblico. Stiamo parlando di un patrimonio che è tra i più appetibili per il capitale finanziario in Europa, come testimoniato da un rapporto della Deutsche Bank di alcuni anni fa.

Il percorso di cui stai parlando ha già portato ad un confronto anche con pezzi della politica “istituzionale”?

All’assemblea di Esc c’erano esponenti del Movimento 5 Stelle e di Sinistra Italiana. Ai secondi è stato chiesto di dare segnali di forte discontinuità con la giunta Marino, partendo dalla cancellazione della delibera 140 e dal rifiuto del DUP (Documento Unico di Programmazione 2016-1018). Ai primi, è stato chiesto di andare oltre un discorso forse troppo astratto sulla legalità, di considerare sempre il rapporto tra la legittimità e la legalità. Ad entrambi sono state presentate delle concrete istanze. Il fatto che si sia creato questo spazio ibrido di confronto è secondo me positivo, ma verificheremo sui concreti elementi di vertenza gli impegni presi in sede assembleare.

Il governo di Roma è composto da due livelli, il Comune e le Municipalità. Quale è il loro ruolo in questa vicenda?

In questa fase il ruolo delle municipalità è molto interessante. Innanzi tutto va detto che i consigli e le giunte municipali sono ancora in funzione, a parte quello di Ostia già sciolto per infiltrazioni mafiose. Da tempo i municipi sono stati fortemente indeboliti, attraverso degli accorpamenti del tutto irrazionali e che hanno generato “quartieri” con trecentomila abitanti, del tutto ingovernabili. C'è una spinta, una richiesta di riorganizzare in senso autonomistico la città, dando un ruolo di primo piano alla gestione decentrata. Proprio per questo alcuni municipi sono stati occupati da parte degli attivisti delle realtà attive nel territorio, non solo i centri sociali. Il risultato è stato interessante: sono state strappate dichiarazioni molto radicali che invitano Tronca a non dare seguito alle minacce di sgombero.

Si discute poi di come riorganizzare l’assetto istituzionale della città. C'è da un lato l'esempio di Berlino, una città-stato che ha competenze normative, e ampi poteri autonomistici. L’assetto di Roma Capitale è andato invece nella direzione contraria, producendo una verticalizzazione dei poteri e un accentramento decisionale, che ha favorito l’esplosione del debito pubblico e il collasso delle aziende a cui sono affidati i servizi essenziali.

In sintesi, possiamo affermare che un “filo rosso” sociale sta garantendo la tenuta di una metropoli vasta e complessa, divorata dall'empasse tra politica ed interesse economico?

Esatto. Il percorso della Rete per il diritto alla città punta a condizionare pesantemente il dibattito della campagna elettorale. Crediamo che sia il momento di sperimentare forme innovative, e per questa ragione il percorso vuole esercitare una forma di controllo e nello stesso tempo inventare luoghi decisionali alternativi. E’ chiaro che la dinamica municipalista ritorna centrale, ma completamente reinventata rispetto al passato.

Quale relazione vedi tra il percorso avviato dalle realtà sociali e gli attori classici della politica istituzionale?

O ci si riappropria dal basso della politica, oppure la politica non c'è più. Le forze politiche a livello locale non decidono più niente, si presentano come meri esecutori. Il problema principale è come si mette in discussione quella dimensione burocratico-amministrativa che presenta ogni decisione in termini meramente esecutivi, e che utilizza gli elementi di compatibilità, imposti a livello europeo, per bloccare ogni possibilità di cambiamento nelle città. Il dualismo è semmai tra pratiche di autogoverno ed amministrazioni che si presentano nella veste del pilota automatico, e in forme sempre più chiuse, impersonali e immediatamente esecutive. La sfida è quella di riconquistare fette di autonomia, di immaginazione politica, e spazi di decisione democratica. Lottare per il diritto alla città oggi significa essenzialmente questo.