Lavoro Digitale

6 / 5 / 2010

Il lavoro nella Rete come un mondo a parte, con regole, norme e leggi dunque ben differenti da quelle vigenti fuori dallo schermo. Per anni, questo è stato il leit motiv che ha accompagnato analisi e narrazioni su come veniva scandita la produzione high-tech e su come l’innovazione organizzativa e di prodotto fosse l’esito obbligato di brainstorming segnati da una irriverente attitudine ludica, tanto radicata quanto indifferente alla stringente logica che preside sempre un processo lavorativo. Le figure dominanti di questa  fabula sulWorld Wide Web sono state e sono tuttora l’hacker, il geek, il cacciatore di tendenze. Anche le interpretazioni più avvertite della vita dentro lo schermo raramente hanno messo in discussione la rappresentazione paradisiaca di Internet che emergeva dalla successione di imprenditori di successo e di indomite scorribande dei cow-boy della consolle . Nel saggio dedicato alla Galassia Internet[1], Manuel Castells fornisce ad esempio anche una tassonomia delle stratificazioni che compongono la cultura della Rete, definendo l’equilibrio instabile, ma tuttavia virtuoso tra la sottocultura tecno-meritocratica, quella hacker, quella delle comunità virtuali e quella, infine, degli imprenditori insofferenti verso le rigidità dell’organizzazione scientifica del lavoro e della grande impresa. Sottoculture accomunate dalla fiducia nelle virtù prometeiche e salvifiche della tecnologia digitale e che individuavano nell’interattività e nella possibilità di potere accedere, per modificare i suoi componenti, nella scatola nera del computer l’essenza della rivoluzione al silicio che stava diffondendosi come un virus in tutto il pianeta. Al di là della ricostruzione favolistica offerta da Castells, va sottolineato come il suo saggio sia stato scritto a ridosso della prima crisi che ha investito Internet. All'inizio del millennio, dal giorno alla mattina, imprese dot.com nate per gioco, e talvolta lautamente foraggiate da venture capitalist in cerca della gallina digitale dalle uova d’oro, chiudevano i battenti, lasciando con un pungo di mosche in mani i loro fondatori e finanziatori.

Con questo saggio, Castells si proponeva di delineare un quadro analitico, meglio di fornire una mappa per chi vedeva in Internet una nuova frontiera per sviluppare attività produttive, senza però conoscerla. Un continente per lo più sconosciuto, nonostante il fatto che l’avvio della sua colonizzazione facesse ben sperare chi vedeva nella Rete una sorta di “Nuova Gerusalemme”. Non si conoscevano bene i suoi abitanti e spesso le regole tacite che governavano la vita nel Web venivano accompagnate da un esotismo che suscitava fascino, ma anche diffidenza. Manuel Castells si proponeva come un cartografo e un etnografo di quella galassia così poco nota, forte della fortuna editoriale che aveva accompagnato la pubblicazione della sua trilogia sull’Età dell’informazione[2], ritenuto, allora, una sorta di Bibbia sulla nascita di un nuovo modo di produrre incardinato sulle tecnologie informatiche.

Al di là della capacità euristica delle sue tesi, gli studi di Castells hanno avuto la capacità di legittimare proprio la retorica salvifica e apologetiche delle figure lavorative nella Rete. A ormai dieci anni dalla sua ricognizione della galassia Internet e dopo due anni di crisi che hanno scosso le fondamenta della produzione high-tech è giunto il tempo di una critica del corpus analitico incentrato su quelle figure lavorative. Non solo perché gli hacker, i geek, la “classe creativa” hanno conosciuto l’inferno della disciplina del lavoro, ma soprattutto per delineare un possibile percorso di critica e di conflitto dentro e contro l’organizzazione del lavoro postfordista che prenda congedo anche da quella lettura riduzionista che ha relegato la cooperazione sociale e produttiva dentro e fuori la Rete a variante postmoderna della teoria del dono sviluppata variamente dalla scuola antiutilitaristica francese, Marcel Mauss in testa, e poi “esportata” negli Stati Uniti, dove è stata assunta sia da libertari impenitenti come Yochai Benkler[3] che da navigati studiosi del capitale sociale come Robert Putnam[4]. In entrambi i casi, la cooperazione sociale deve essere sottoposta a un regime normativo che garantisca sia la sua libertà di innovare che la sua riconduzione alle regole auree del regime di accumulazione capitalista.

E’ in questo doppio movimento che l’hacker, il geek, la “classe creativa” sono figure egemoni della nuova composizione sociale del lavoro vivo e che, proprio per questa centralità, devono conoscere lo stigma di una governance d’impresa e istituzionale che alterna autonomia a rigido controllo in un processo di differenziazione nel mercato del lavoro secondo le linee del colore e geografica. Nella retorica che accompagna la storia di Silicon Valley si è infatti passati dal self made man bianco all’intraprendente indiano o cinese o malese o russo che grazie alla possibilità di avere frequentato università di prestigio riesce a coronare il suo sogno di successo.

Dal giovane wasp Bill Gates si è dunque passati al giovane di origine russa Sergej Brin, che non nasconde la militanza comunista di suo padre prima di trasferirsi negli Stati Uniti, a John Yang, taiwanese naturalizzato americano, ma arrivato agli onori della cronaca in quanto fondatore di Yahoo!. In ogni caso, sono giovani che rivendicano l’appartenenza all’attitudine hacker o di essere in realtà dei geek che hanno perseguito, certo con successo, il sogno di mettere il proprio nome nell’albo dorato dei virtuosi della computer science.

Come ogni rappresentazione della realtà, questa ennesima fabula sull’industria high-tech è la riproposizione di un plot narrativo nel quale un giovane uomo,  seppur indicato come un potenziale asociale, riesce ad aderire al vecchio stereotipo del self-made man che fonda imprese divenute leggenda come Microsoft, Google o Yahho!. La necessità di destrutturare questa narrazione è centrale nell’individuazione dei punti di fuga o di rottura dentro il regime del lavoro salariato dentro e fuori la rete. L’elemento da cui partire sono le ambivalenze che accompagno le figure dell’hacker, del geek e della classe creativa. Da questo punto di vista il discorso fatto dal cripto-marxista australiano Wark McKenzie sulla classe “classe hacker”, successivamente chiamata anche “classe vettoriale”, è il sintomo che quegli stessi comportamenti, attitudini, sottoculture così osannate dai cantori del capitalismo cognitivo possono diventare la leva affinché i lavoratori high-tech possono unirsi per rovesciare il sistema perché altro non hanno da perdere che non le loro catene al silicio, visto che senza di loro tutto l’edificio della produzione capitalistica crollerebbe come un castello di carta[5].

Al di là del dichiarato riferimento al manifesto del partito comunista di marxiana memoria, il pastiche teorico di McKenzie è rilevante perché individua criticamente nelle forme organizzative della Rete il modello ideale per un regime di accumulazione che fa leva sull’innovazione e su quelle relazioni informali che caratterizzano le forme di vita dentro e fuori la rete. Così, il virtuosismo dei geek nel ricercare sempre la one best way per risolvere un problema tecnologico, o per lo sviluppo di software complessi come un sistema operativo o un programma per la gestione di archivi di imponenti dimensioni, è associato a quella concezione ludica della condivisione delle informazioni che caratterizza gli hacker. In entrambi i casi l’organizzazione produttiva deve contemplare una gerarchia soft e una governance dell’impresa che veda negli hacker e nei geek i nodi fondamentali di una innovazione organizzativa finalizzata a una forma-impresa flessibile e che si adatti flessibilmente ai cambiamenti dell’habitat sociale e produttivo in cui è collocata. Una governance che contempli, ad esempio, una rigida divisione tra perms e temps, cioè tra chi ha un lavoro a tempo indeterminato e chi, svolgendo le stesse mansioni, è un precario che non accede alle stock option e ai programmi pensionistici e di assicurazione sanitaria. Come è stato ampiamente testimoniato da Paul Zachary, è stata questa la strada per vincolare una forza-lavoro tendenzialmente nomade e infedele all’impresa, ma anche per governare l’eccedenza rispetto il regime di accumulazione espressa dalla cooperazione produttiva[6].

La concezione del lavoro come gioco, il virtuosismo tecnologico, l’alterità alla gerarchia, la divisione dell’organizzazione del lavoro in team autogestiti mostrano così la loro ambivalenza. Da una parte, fattori fondamentali per garantire innovazione organizzativa e di prodotto; dall’altra elementi di un’autovalorizzazione della forza-lavoro sempre sul crinale di una esodo dalla regime del lavoro salariato. Un’ambivalenza, tuttavia, che deve rimanere tale per manifestare la sua potenza ordinatrice dei rapporti di lavoro dentro e fuori la Rete. E se la Microsoft sceglie risolutamente la strada della differenziazione del mercato del lavoro interno attraverso, appunto, l’accesso delle stock option e ai programmi pensionistici e di tutela sanitaria per garantire il governo della cooperazione produttiva, Google sceglie invece la forma organizzativa più congeniale alle figure del lavoro digitale. Piccoli gruppi di lavoro che rispondono a un coordinatore quasi sempre scelto dagli stessi componenti del team, enfasi sulla partecipazione alle liste di discussione che animano il variegato mondo dell’open source, organizzazione dell’impresa come un campus universitario. L’unica regola certa è però quella del venti per cento, in base alla quale l’orario di lavoro è ripartito tra per un ottanta per cento del tempo di lavoro in cui si svolgono le mansioni per cui si percepisce un salario, mentre nel restante venti per cento si possono sviluppare progetti autonomi senza dover darne conto a nessuno[7]. E non è certo un caso che poco è stato scritto sul fatto che gran parte dei progetti che hanno reso Google l’impresa di successo che ha retto meglio di altre alla crisi economica degli ultimi tre anni sono nati proprio in questo regime del lavoro. Non solo il servizio di posta elettronica gratuito, ma anche l’esperienza del sito informativo della società di Mountain View, che tanto fa dannare Rupert Murdoch, o Chrome, il nuovo browser, che si sta felicemente erodendo percentuali di mercato a Microsoft e a Firefox nella battaglia per i programmi di navigazione in rete, sono nati proprio durante quel venti per cento del tempo di lavoro in cui ogni singolo programmatore o ingegnere è “libero” di coltivare i propri interessi.

Oltre a ciò, l’elemento che accomuna tutte le imprese high-tech è l’attento monitoraggio delle mailing list o dei blog dove si discutono i manufatti digitali prodotti. Gli “utilizzatori finali” sono cioè considerati parte integrante della cooperazione produttiva, perché le relazioni sociali e le discussioni attorno a questo o quel programma informatico sono considerati elementi fondamentali per acquisire informazioni sui limiti e i “bachi” dei propri prodotti. Il consumo, cioè diviene fonte di innovazione, al punto che non sono pochi gli studiosi che indicano nel crowdsourcing, cioè nella delega alla folla indistinta dei consumatori l’innovazione di prodotto che la pur flessibile impresa a rete non riesce a garantire rispetto i tempi accelerati da una feroce competizione[8]. Il tempo di vita di un prodotto, così come la sua innovazione diventano così le ossessioni che scandiscono il regime di sfruttamento del lavoro on line. E anche in questo caso, così come per gli hacker, i geek e la “classe creativa”, le imprese non possono che attingere a esperienze, attitudini, contruculture presenti in Rete.

Sono molti i casi che potrebbero essere citati sul “potere della folla”, sia quando i consumatori diventano produttori di innovazione che quando la comunicazione diviene fattore immediatamente produttivo. Il più noto è quello di Wikipedia. L’elemento più interessante nella storia dell’enciclopedia digitale più usata del web non riguarda la sua affidabilità, bensì è il modo di produzione delle singole voci. Da una parte la centralizzazione del progetto, dall’altra la completa autonomia dei gruppi di lavoro, individuando nella vivace discussione attorno alla stesura di un lemma il modo migliore per garantire la qualità del lavoro svolto.

Lasciando agli “esperti” la petulante critica al dilettantismo dei wikipediani, è molto più rilevante l’analisi che è stata fatta del modo di produzione di questa enciclopedia. Così, da Parigi a Los Angeles, la teoria del dono è uscita dall’ambito minoritario in cui si muoveva la scuola antiutilitarista, facendo diventare le tesi di Marcel Mauss una sorta di vademecum delle forme di vita dentro la Rete.

Reciprocità, gratuità, alterità rispetto alla razionalità economica e condivisione sono diventati i quattro punti cardinali del Web, operando così quell’inversione di prospettiva con cui antropologi, etnografi, sociologi e filosofi hanno sempre guardato al rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita. Non sono solo le competenze tecnologiche a diventare fattore strategico in una impresa high-tech, bensì alcune delle caratteristica della natura umana a diventare centrali nel processo produttivi, relegando a residuo passivo tutte le forme di eterodirezione e di controllo sul lavoro vivo che hanno accompagnato il regime di accumulazione capitalista nella sua fase cosiddetta industriale. In wikipedia ciò che è rilevante nel processo lavorativo non è la presunta scientificità della sua organizzazione del lavoro, bensì il modello organizzativo scelto – lavoro di squadra incentrato su un continuo brainstorming – per favorire la manifestazione della naturale predisposizione dell’animale umano a vivere in società. La discussione continua finalizzata alla produzione delle voci enciclopediche rendono l’esperienza di wikipedia un punto di non ritorno nell’individuazione della potenza della cooperazione sociale la chiave per svelare l’arcano dei postmoderni atelier della produzione nel capitalismo cognitivo. Da una parte, perché da una parte vediamo una capacità di autogestire il processo lavorativo affinché la produttività aumenti di pari passo con gli obiettivi definiti, va da sé, centralmente, ma dall’altra riduce la figura dell’imprenditore a un parassita della cooperazione produttiva. Nella storia del pensiero critico radicale, il parassita ha una eco sinistra, perché rinvia a una dicotomia che vede da un lato della barricata l’economia reale, quella che vede l’operaio che contesta sì il capitalismo, ma anche imprenditori ligi alla missione weberiana di contribuire con il loro duro lavoro alla progresso della società. Dall’altro lato della barricata ci sono però i rentiers, cioè di coloro che speculano, ai fini del proprio arricchimento, su quanto il duro lavoro della comunità dei produttori ha costruito. Nella società in rete e nel capitalismo cognitivo, il parassita va invece declinato a partire da quell’intreccio tra finanza e produzione ampiamente analizzato da autori tra loro eterogenei. In altri termini, il parassita della cooperazione produttiva a cui fare riferimento è la funzione di coordinamento e di governo del lavoro vivo che muove le leve tanto della finanza che della governance nell’impresa a rete, attraverso gli strumenti giuridici dei contratti di committenza tra imprese diversee gestendo i diritti di proprietà intellettuale così dirimenti nel capitalismo contemporaneo. Un parassita, cioè, che mette al lavoro le potenzialità dell’individuo sociale[9].

Mai, infatti,  come nel capitalismo cognitivo la figura ossimorica dell’individuo sociale mostra tutta la sua capacità analitica per illustrare quindi il regime di sfruttamento. Ma il marxiano “individuo sociale” è figura troppo enigmatica e sfuggente per chi vuole solo salvaguardare rassicuranti spazi di autonomia nel tenue e  tuttavia soffocante regime di accumulazione capitalista. Sia ben chiaro: sono sempre più gli studiosi che fanno ricorso a questa figura, magari nominandola diversamente, arrivando al paradosso di individuare nell’individuo-massa l’elemento prometeico dell’impresa a e della società in rete[10].

Da qui l’uso riduzionista della teoria del dono. Le analisi sulla dualità e incompatibilità tra economia e società diventano così il viatico per delineare un panorama in cui la cooperazione sociale è lascita libera a se stessa, mentre il suo governo deve proprio manifestarsi in quel territorio chiamato del transindividuale, laddove Etienne Balibar quando eleva a metafisica della modernità il “comune” che caratterizza l’animale umano a dimensione tanto inafferabile, quanto politicamente rilevante per una critica del capitalismo contemporaneo. Ma se si sofferma lo sguardo nella produzione della ricchezza, la teoria del dono, così come il dualismo tra economia e società o una lettura demodé del comune fanno emergere dalle ceneri della società capitalistica industriale la figura che era stata travolta dallo sviluppo capitalistico, cioè quell’artigiano così tanto amato dall’ultimo Richard Sennett, uno studioso che sulla critica all’organizzazione scientifica del lavoro ha basato gran parte della sua produzione teorica. Per Sennett, infatti, l’erosione dell’etica del lavoro, un’organizzazione reticolare basata su piccoli team portano a nuova vita una figura che lo sviluppo industriale aveva condannato all’estinzione. L’artigiano, con la sua capacità riflessiva sulla qualità dei suoi prodotti e con la sua tendenza a socializzare in un rapporto gerarchico informale con i nuovi arrivati la conoscenza acquisita con l’esperienza, è la figura che sa perfettamente modulare, in una vischiosa e gerarchica relazione vis-à-vis,  l’adesione alle ferree leggi della produzione capitalistica[11].

Questo passaggio dalle figura dell’hacker, del geek all’artigiano non è certo una facile quadratura del cerchio. Sono molti gli elementi incongruenti che fanno fallire l’operazione normativa di Richard Sennett, a partire dal fatto che il novello maestro d’ascia, digitale va da sé, dello studioso statunitense è analizzato a partire dalla sua disconessione alla Rete. Sia chiaro, chi svolge un lavoro digitale è sempre on-line, sia quando svolge un compito per l’impresa o per il committente sia quando chatta con i suoi amici di Facebook che quando è raggiunto dal cinguettio metallico di Twitter. E’ questo suo inserimento nel flusso di informazioni e di “chiacchere” che lo contraddistingue e che rende fuorviante la lettura di Sennett sull’artigiano tencologico, figura dotata certo di riflessività sul proprio lavoro, ma monade separata  dalla cooperazione sociale, quasi che la sua riflessività sia garantita dal suo isolamento e non, invece, dalla sua collocazione all’interno di un flusso di informazioni, saperi, forme di vita: insomma, proprio perché individuo sociale come gli altri.

In una recente indagine del National Labour Committee statunitense dedicato al lavoro nell’industria high-tech cinese viene documentato come l’organizzazione spaziale del lavoro prevede una fabbrica dove un elevato numero di giovani che vanno dai sedici ai trent’anni vivono ventiquattrore al giorno con tanto di dormitori, da usare giusto il tempo per riprendere il fiato.[12]  Un’inchiesta condotta certo all’insegna di una odiosa doppia morale che stigmatizza le condizioni quasi schiavistiche del lavoro vivo in Cina, chiudendo gli occhi su quanto avviene nelle maquilladora in Arizona, New Mexico e Texas, ma che mette in evidenza il fatto che il lavoro on-line è caratterizzato dalla continua connessione alla Rete: connessione che assegna un altro ferale colpo al già esile confine tra tempo di lavoro e tempo di vita. La riflessività tanto cara a Sennett più che una prerogativa individuale è dunque l’esito di questa connessione, cioè di questa specifica forma di cooperazione sociale che ha nella rete la sua esemplificazione più congrua. E non è un caso che nei blog dei produttori di software o nelle denunce dei netslaves lo sfruttamento non è indicato nella fatica fisica, ma in uno stress psicofisico che rende la giornata un continuum indistinto dove si passa dal lavoro alle relazioni amicali, sentimentali, producendo una sorta di dissociazione psichica la cui gestione viene delegata a sostanze psicotrope, alimentando la dipendenza non solo da farmaci ma anche dalla rete. Al di là della retorica che accompagna le campagne contro le nuove dipendenze o la distorsione nella percezione della realtà a causa delle tante ore passate on-line, ciò che emerge è un sovraccarico emotivo che difficilmente può essere gestito a causa non solo dei tanti stimoli derivanti dalla vita dentro lo schermo, ma perché accanto a questo il flusso produttivo si presenta come un fiume in piena che tutto travolge, compresa la propria esistenza. Sentirsi in balia degli eventi è la condizione costitutiva del lavoro on-line. E visto che non ci sono gerarchiche codificate, né orologi da distruggere per riappropriarsi del proprio tempo, l’autolesionismo, la paranoia, la depressione sono le manifestazioni di uno sfruttamento intensivo che non ha responsabili, perché il flusso produttivo è alimentato proprio dalla cooperazione sociale.

In tempi neanche tanto lontani, alcuni studiosi e mediattivisti hanno espressamente parlato di una condizione servile del lavoro[13], dove la relazione tra servo e padrone è pensata come relazione di reciproca dipendenza che non lascia quasi nessuna libertà di espressione, di movimento, di autonomia. In fondo, quel principio di individuazione che mostra il suo ghigno feroce nelle diverse legislazioni che santificano la precarietà come norma dominante nei rapporti tra capitale e lavoro cognitivo altro non è che l’istituzionalizzazione dei rapporti servili all’interno di un’organizzazione produttiva flessibile e reticolare. Ma è proprio questa dimensione servile dei rapporti di dominio che mostra tutta la sua ambivalenza. Come infatti conciliare la necessaria libertà di movimento e autonomia del lavoro vivo e il controllo coercitivo sulla cooperazione produttiva? La risposta è ovviamente semplice, seppure sia quella semplicità difficile a farsi. Il conflitto e la lettura partigiana dalla prospettiva del lavoro vivo è sempre stata la stella polare per una analisi critica e puntuale del capitalismo. Questo è noto, ma non è certo la riproposizione di un metodo che garantisce il lavoro teso a sbrogliare la matassa del capitalismo cognitivo. Occorre dunque volgere lo sguardo su quelle esperienze che hanno portato allo sviluppo di sistemi operativi come Linux, dove la cooperazione produttiva ha fatto leva certo su tutte le dimensioni dell’attitudine hacker – condivisione, il lavoro come gioco, la critica immanente a qualsiasi codificazione di gerarchie e asimmetrie di potere – ma prendendo congedo dalla trasformazione del software prodotto in merce. La cosiddetta peer to peer production allude certo e contraddittoriamente a una economia non capitalista, ma individua anche possibili forme organizzative politiche per il lavoro vivo contemporaneo. La rete, dunque, è certo il comune di cui riappropriarsi, ma anche la forma organizzativa dove far convivere un modello alternativo a quello capitalista, valorizzando così il lavoro vivo, ma anche possibile organizzazione politica del lavoro vivo. Il commonwealth a cui tendere scioglie le ambivalenze, fa i conti, mettendola a dura critica, con la codificazione neoliberale dell’individuo sociale in quanto individuo proprietario, ma si apre anche al conflitto dentro e contro l’impresa a rete. E’ questa cioè la cruna dell’ago che si deve passare, non per accedere al regno dei cieli, ma per riappropriarci di ciò è nostro.


[1]              Castell Manuel, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano, 2001

[2]              Castella Manuel, The Information Age. Ecomomy, Society and Culture, Blackwell Publisher, Oxford, 1996. I tre volumi sono stati poi tradotti, nel 2002, dalla Università Bocconi Editore di Milano

[3]              Benkler Yochai, La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano, 2007

[4]              Putnam Robert, Capitale sociale e individualismo , Il Mulino, Bologna, 2004

[5]              McKenzie Wark, Un manifesto hacker, Feltrinelli, Milano, 2005

[6]              Zachary Paul, I Guerrieri del Software, Utet, Torino, 1998

[7]              Battelle John, Google e gli altri, Raffaello Cortina, Milano, 2006

[8]              Howe Jeff, Crowdsourcing, Crown Business, 2008

[9]              Sul parassita, vanno ricordati il denso lavoro teorico svolto recentemente da Matteo Pasquinelli nel saggio Animal Spirits. A Bestiary of Common (Rotterdam Nai Publishers, 2008) e il recente libro di Christian Marazzi Finanza bruciata, Casagrande edizioni, Bellinzona, 2009. Allo stesso tempo, seppur da una prospettiva diversa, anche il testo di Zygmunt Bauman nel Capitalismo parassitario, Laterza, 2009, offre spunti interessanti per una ridefinzione del rapporto tra rentier è processo produttivo.

[10]             Castells Manuel, Comunicazione e potere, Università Bocconi Editore, Milano, 2009

[11]             Sennett Richard, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008. Dello stesso autore, va segnalato anche L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano, 1999

[12]             High-Tech Misery In China. The Dehumanization Of Young Workers Producing Our Computer Keyboards. Inchiesta condotta dal National Labour Committee consultabile nel sito www.nclnet.org. Per una analisi critica del lavoro cognitivo in Cina, il rinvio è al recente libro collettivo La testa del drago, Ombre Corte Edizioni, Verona, 2010

[13]             Da questo punto di vista andrebbero rilette con attenzione alcune pagine del saggio di André Gorz su Le Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

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7/5/2010 > 8/5/2010