Leggi memoriali e paradigma vittimario - sinossi

7 / 2 / 2017

Per musei, scuole e istituzioni culturali le settimane tra la metà di Gennaio e quella di Febbraio sono spesso il momento di un'attività più intensa del solito. Si organizzano conferenze, escursioni, visite a musei e incontro con i testimoni. Si tratta del periodo compreso tra «Giorno della memoria» (27 gennaio) ed il «Giorno del Ricordo» (10 febbraio).

La prima è una ricorrenza internazionalmente riconosciuta nella quale si commemora l’abbattimento da parte dell’armata rossa dei cancelli di Auschwitz; formalmente riconosciuta dallo stato italiano con la legge n.211 del 20 luglio 2000, nella quale si afferma di voler

«ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».

La seconda è invece una ricorrenza puramente italiana, fissata nell'anniversario del 10 febbraio 1947, il giorno in cui il parlamento italiano ratificò i trattati di pace con i vincitori della Seconda guerra mondiale, trattati che comportavano l'annessione di Istria, Fiume e Dalmazia al territorio Jugoslavo. Secondo la legge n.30 del 2004 il fine del «Giorno del Ricordo» è quello di

«conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».

Queste due «leggi memoriali», approvate nel giro di soli quattro anni l'una dall'altra attraverso una larga convergenza tra le forze politiche, hanno un tratto in comune: essere ispirate a quello che Giovanni de Luna nel suo La Repubblica del Dolore ha chiamato «Il paradigma vittimario», vale a dire una narrazione del passato (ma anche del presente) basata sulla centralità dalle vittime. Questo paradigma, affermatosi negli ultime decenni in molti paesi europei, presenta alcuni tratti distintivi individuati da De Luna:

«Il familismo, innanzitutto, il prepotente riaffacciarsi delle famiglie e dei singoli individui in uno spazio pubblico colonizzato dal lutto e dal dolore. E poi una fortissima carica rivendicativa, un'inesausta richiesta di risarcimento e di riparazione. E poi ancora la soffocante presenza delle emozioni: odio, vendetta, perdono, pietà, compassione. E poi infine, mastodontica, la competizione tra le varie vittime, quasi che ognuna di loro, per poter vedere riconosciuto il proprio dolore, debba sopravanzare quello delle altre. Una competizione resa assordante dalla risonanza mediatica attribuita a quel dolore. Per emozionare, commuovere, suscitare consenso, le sofferenze vanno gridate; e più si grida forte più si sfondano le barriere dell'audience e dell'ascolto. Quasi che le emozioni siano merci e quasi che sia il mercato a imporre le sue regole, nel controllarne la domanda e l'offerta».

Questo «paradigma vittimario» si è infatti affermato in Italia e all'estero negli ultimi decenni attraverso un'interazione tra stato e mercato che propone o addirittura anticipa in ambito storico processi che vediamo quotidianamente dipanarsi su scala ben più ampia ed in ben altri ambiti. Lo stato, proprio mentre «si ritira» sempre più dai settori nevralgici della società e dell'economia, cerca di fissare attraverso l'intervento legislativo i caratteri di una «memoria ufficiale», come se volesse creare con l'ideologia un senso di appartenenza ad una comunità politica che è sempre meno una comunità reale capace di farsi carico dei bisogni e delle aspettative delle persone in carne ed ossa. Questa narrazione del passato incentrata sulla figura della vittima non è stata però elaborata dallo stato, bensì dal mercato. Si è affermata infatti negli anni '80 e '90 attraverso le televisioni commerciali

«Pubbliche o private, tutte le reti televisive si affollarono di programmi che vendevano emozioni per provocare emozioni e vendevano contemporaneamente, attraverso la merce-emozioni il proprio prodotto, mettendo in mostra indifferentemente gioia e dolore, felicità e lutto, amore e morte, in una macchina scenica tanto potente quanto sostanzialmente indifferente ai suoi contenuti».

Lo sviluppo delle televisioni commerciali si è accompagnato alla profonda trasformazione del ruolo dei musei. Sotto la pressione dei «meccanismi di mercato» si è infatti eclissato il museo-tempio, dove il cittadino si recava per essere edotto ad una narrazione storica volta alla trasmissione dei valori dello stato, e si è affermato al suo posto non l'utopia liberal-democratica del museo-forum (un preteso spazio di libera interazione e riflessione tra storie e memorie diverse) ma la prosaica realtà capitalistica del museo-merce, così descritto da Yannis Thenassekos, direttore della Fondation  Auschwitz di Bruxelles:

«Il museo storico postmoderno eclissa l'interpretazione ragionata della storia a vantaggio della sensazione, della simultaneità, dell'immediatezza e dell'impatto. Così anche il passato rientra nella cultura della messa in scena, dello spettacolare, dell'effimero»

La televisione delle emozioni-merci ha partorito una narrazione storica affidata a musei-merci e lo stato l'ha trasformata in ideologia fissata per legge. Davvero una spartizione dei compiti che può fungere da schema per leggere molte delle più inquietanti interazioni stato-mercato, o meglio mercato-stato.

Una narrazione storica incentrata sulla merce delle emozioni comporta la sostituzione della «storia» (insieme di fatti verificabili e criticamente analizzabili attraverso rapporti causa-effetto) con la «memoria» (insieme di ricordi, emozioni e narrazioni frutto di un punto di vista soggettivo o identitario). Questo significa uno svilimento della narrazione storica stessa, una sua semplificazione all'eccesso, quando non una vera e propria falsificazione attuata attraverso l’espediente del «vedere la storia dal buco della serratura». Di qui lo svilimento delle professionalità impegnate nella didattica della storia. Se tanto devo in fondo limitarmi a raccontare una storiella strappalacrime posso sostituire personale debitamente formato o pagato con collaboratori precari assunti per il tempo di un «evento culturale», con chi svolge il servizio civile o meglio ancora con i volontari di qualche associazione disposti a lavorare gratis o per pochi euro, magari perché convinti di contribuire a  «tenere in vita la memoria», quando in realtà stanno aiutando la produzione culturale a cancellare la storia.

Naturalmente non intendo certo denigrare i volontari che si occupano di divulgazione storica (che spesso, penso a quelli dell’ANPI in molte realtà, suppliscono con grande impegno l'assenza di scuole e istituzioni), né lanciarmi in una difesa corporativa del ruolo di chi si occupa per mestiere di divulgazione storica. Solo vorrei che si riflettesse seriamente sul lavoro gratuito e precario in ambito culturale. Penso che il lavoro dei volontari e dell'associazionismo nella divulgazione storica potrebbe essere meglio valorizzato se lo si collegasse, attraverso momenti di formazione e progettazione comuni, a quello dei professionisti e lo si inserisse all'interno di una progettualità condivisa con le istituzioni storiche, magari cercando di fornire a queste ultime risorse fisse e definite, in modo da tutelarne minimamente l'indipendenza dal potere politico. Spesso invece studiosi e ricercatori si chiudono nella loro torre d'avorio e l'associazionismo occupa un ruolo che non gli compete. Inoltre capita che iniziative e attività vengono definite all'interno di un rapporto tra associazionismo e amministratori che può prestarsi ad una dispersione per motivi clientelari delle già scarse risorse destinate alla cultura.

(continua...)