Leggi memoriali e paradigma vittimario pt. 3 - Né ridere, né piangere ma capire

17 / 2 / 2017

Anni fa mi capitò per lavoro di assistere ad una specie di cerimonia pubblica in cui gli studenti tornati da un viaggio ad Auschwitz raccontavano la propria esperienza. Non si chiedeva loro di raccontare cosa avessero visto o appreso; no, si chiedeva loro di dar voce alle proprie emozioni e stati d'animo. I fatti, le cifre, le cause, le conseguenze, tutto quello che di solito forma le coordinate di una narrazione storica dotata di senso era assente; al suo posto vi erano le foto scattate dagli studenti, le canzoni, i loro pensieri. Il culmine venne raggiunto quando una ragazza che aveva steso un componimento che ambiva ad essere poetico, dopo averlo letto scoppiò a piangere abbracciando le amiche lì vicine. Un collega al mio fianco mi fece quasi soffocare nel tentativo di trattenere una risata quando mi disse all'orecchio: «avevo già visto scene del genere, ma erano dall'altra parte di uno schermo televisivo e si chiamava “finale di Miss Italia”». In realtà c'era da ridere per non infuriarsi, davvero non posso immaginare peggiore offesa per le vittime della Shoah che ridurre la loro tragedia a qualcosa che viene narrato nelle cerimonie pubbliche attraverso gli scontati componimenti di un gruppo di commosse adolescenti dalla lacrima facile, che colgono l'occasione di esprimere i loro delicati sentimenti tra gli applausi di vescovo e politici.

Nei miei due altri interventi (qui e qui) ho cercato di articolare una critica al paradigma vittimario (il racconto del passato basato sulla centralità della vittima), egemone nella narrazione pubblica della storia europea del XX secolo, sia alle sue declinazioni nazionaliste tra cui in particolare quella italiana, istituzionalizzata nel «Giorno del ricordo». Credo a questo punto di dover indicare quale possa essere l'alternativa alle modalità di narrazione storica che ho sin qui stigmatizzato e quali possano essere gli strumenti da cui partire. Solo attraverso una visione unitaria della storia europea, dalla rivoluzione francese in poi, è possibile collocare nel giusto contesto le tragedie che insanguinarono il continente nel corso del XX secolo.

Io sono assolutamente convinto dell'unicità della Shoah, che, però, va inquadrata non come metafisico male assoluto, bensì come concreto fatto storico frutto di un determinato sviluppo della civiltà europea. Uno sviluppo dipanatosi attraverso la meccanizzazione della morte introdotta dall'invenzione della ghigliottina in poi: attraverso il razzismo e le pratiche di sterminio e oppressione applicate sulla pelle dei popoli delle colonie (imperialismo e colonialismo di stima fecero circa 50 milioni di morti tra 1850 e 1914), attraverso i sistematici tentativi di liquidare la lotta di classe distruggendo il movimento dei lavoratori, attraverso lo sviluppo del sistema industriale le cui modalità di organizzazione costituiscono la premessa dell'effettiva realizzazione delle pratiche di sterminio nazista. Vale qui la pena di ripetere le parole di Enzo Traverso, pubblicate nella sua introduzione al volume «Insegnare Auschwitz» (Torino: Bollati e Boringhieri, 1995)

«storicizzare il genocidio ebraico non vuol dire normalizzare il passato, ma al contrario, denormalizzare il presente. Riconoscendo che viviamo nello stesso modo e nello stesso mondo che ha generato Auschwitz poniamo il problema della nostra responsabilità storica nei confronti del passato e del nostro agire nel presente».

Lo stesso Traverso è autore di un volume breve e scorrevole del quale consiglio assolutamente la lettura «La violenza nazista, una genealogia» (Bologna: Il Mulino, 2002). Nel testo si affrontano i temi già elencati e si illustrano i diversi passaggi tramite cui i nazisti realizzarono la Shoah, contestualizzandola all'interno delle politiche di discriminazione, deportazione e sterminio messe in atto contro disabili, omosessuali, sinti e rom, prigionieri di guerra e resistenti, politiche che si articolano a partire dalla «guerra assoluta» praticata dei nazisti sul fronte orientale.

Particolare attenzione merita di essere rivolta al funzionamento e alle finalità della macchina di sterminio nazista, in particolare alle sue finalità economiche. Il nazismo basò infatti le sue fortune politiche sulla promessa e sulla realizzazione di uno stato sociale su basi razziali. Attraverso lo sterminio o la riduzione in schiavitù delle popolazioni ritenute «inferiori» si voleva creare il benessere di una «comunità di popolo» ariana non più turbata dalla lotta di classe. Questi temi sono stati affrontati in un grande classico del 1942: «Bemoth», di Franz Neumann (ri-edito in Italia da Mondadori del 2007), e più di recente da Gotz Aly nel volume «Lo stato sociale di Hitler» (Torino: Einaudi, 2007). Aly espone i risultati delle sue ricerche senza peli sulla lingua: «Chi non vuol parlare del vantaggio che ne trassero milioni di tedeschi farebbe meglio a tacere sul nazionalsocialismo e sull'olocausto». Il testo consente non solo di sfatare le storielle neonaziste su Hitler «che ha risanato l'economia tedesca liberandosi dal signoraggio bancario di ebrei e rettiliani 1!11!!», ma in generale aiuta a capire come il nazismo non sia stato un momento di impazzimento collettivo, ma la realizzazione pratica di uno slogan che anche la piccola borghesia di oggi trova assai allettante: «Prima i nostri!».

Ma al di là dei consigli di lettura, ciò su cui vorrei invitare a riflettere è come il  «paradigma vittimario» sia uno strumento dell'egemonia culturale delle classi dominanti. Una narrazione storica che mette al centro la vittima lascia in ombra il carnefice, ci impedisce di conoscere le sue modalità d'azione, i suoi complici e di riconoscerlo se dovesse nuovamente ripresentatasi. Il «paradigma vittimario» è sorto per sostituire il sentimento alla conoscenza, la commozione alla consapevolezza, la mitologia alla storia. Provoca un abuso dell'intelligenza emotiva inibendo lo sviluppo dell'intelligenza analitica, fondamentale per la stesura o la comprensione di un programma politico che non sia un semplice elenco di lamentazioni passivo-aggressive. Per di più è sotto gli occhi di tutti come 16 anni di «Giorno della Memoria» non abbiano affatto estinto il razzismo, anzi, hanno forse addestrato i razzisti ad usare anch'essi il «paradigma vittimario» (vedi i manifesti della Lega in cui si paventa un'immigrazione selvaggia che faccia subire agli italiani la sorte dei nativi americani).

Occorre sapere prima che credere o provare sentimenti, occorre studiare (studiare davvero, facendo fatica) prima che emozionarsi, occorre liberarsi da una visione della storia e del mondo forgiata unicamente dall'intelligenza emotiva. I fascisti non possono chiedere di meglio che di avere come avversari i giovani liberal che nelle università statunitensi corrono a rifugiarsi negli «spazi sicuri» (stanze con musiche e video rilassanti, peluche, libri colorati ecc.) non appena qualcosa li turba o li offende. Sarebbe bene invece imparare due ritornelli che compaiono in «Teste rotonde e teste a punta», il testo teatrale in cui Bertold Brecht esponeva come l'antisemitismo fosse funzionale agli interessi delle classi dominanti tedesche. Il primo lo fa cantare ad una giovane prostituta :

 «Dove sono le lacrime di ieri?

Dov' è la neve dell'anno scorso?

Tutto passa in fretta, anche l'amore e persino il dolore».

Il secondo è invece il canto dei lavoratori in rivolta:

 «Forza compagno su! Prendi un fucile anche tu!

E non chiedere il permesso, che tanto si crepa lo stesso».