L'Europa tra storia di frontiera e rinazionalizzazione delle masse

Intervista a Piero Purich e Jože Pirjevec

23 / 3 / 2017

In occasione dell’incontro Dalla casa comune al Filo spinatoStoria dei popoli del confine orientale nella prima metà del Novecento, che si è svolto a Trento lo scorso 15 marzo (organizzato dalla Rete Trentina contro i fascismi), Tommaso Baldo ha intervistato per Globalproject i relatori dell’iniziativa, Piero Purich e Jože Pirjevec. Il primo è uno storico che ha conseguito il dottorato presso l’Università di Klagenfurt ed è autore di studi inerenti gli spostamenti di popolazione sul confine orientale. La sua opera più importante è Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Fiume e in Istria. 1914-1975. Il secondo è invece uno studioso di lingua slovena autore di alcuni dei più importanti testi sulla storia della Jugoslavia e del confine orientale, tra i quali ricordiamo:Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992: storia di una tragedia, Le guerre Jugoslave 1991-1999, Foibe una storia d’Italia. È stato inoltre docente di storia presso le università di Trieste, Pisa, Padova, ed ora all’Università del Litorale di Koper/Capodistria.

Credete che oggi sia in corso in Europa un fenomeno che possiamo definire “rinazionalizzazione delle masse”?  E questa rinazionalizzazione delle masse quali elementi ha in comune e quali invece sono diversi  rispetto al precedente nazionalismo che abbiamo conosciuto nel diciannovesimo e ventesimo secolo? E poi, questa dinamica di rinazionalizzazione delle masse, se c’è, come interagisce con i conflitti sociali oggi in Europa e con il processo di integrazione europeo?

Pirjevec: Io direi che intanto siamo nel bel mezzo di una rivoluzione, che è una rivoluzione tecnologica ed è una rivoluzione anche sociale. L’Europa, che è un oasi in un mondo di miseria, attrae ovviamente masse di gente che vogliono partecipare ovviamente al nostro “benessere”. È un fenomeno che è a mio avviso inarrestabile, però questa doppia rivoluzione, legata alla globalizzazione e a queste pressioni esterne, suscita paura. La gente è spaventata e tende a chiudersi nel proprio guscio e reagisce così, essendo disposta a seguire il primo pifferaio che passa e che parla un linguaggio populista di facile comprensione.

Così ci troviamo in una situazione veramente pericolosa, perché vediamo che dappertutto questi nazionalismi e populismi attecchiscono senza proporre soluzioni razionali. Sono basati sui sentimenti e appunto sulle paure e  per questo sono preoccupato e ho paura di quello che succederà, ad esempio, adesso in Francia. Ma anche in Paesi di struttura più solida, come la Germania, si assiste allo stesso fenomeno, per non parlare dell’Europa centrale. Ebbene, quello che succede in Polonia, in Ungheria, in Slovacchia, nella Cechia, anche da noi in Slovenia, ed in tutti i Paesi Balcanici, è veramente preoccupante.

Come reagire? Noi che viviamo a Trieste e conosciamo sulla nostra pelle il pericolo dei nazionalismi, sappiamo per esperienza che questi si possono combattere solo attraverso la conoscenza. Se questa manca non c’è possibilità di dialogo, ma la conoscenza non può nascere da sola, o meglio, può formarsi anche da sola nei gruppi che sono consapevoli dei problemi,  ma è necessaria un’impostazione generale e dei punti di riferimento complessivi. 

Dal punto di vista politico l’unica soluzione a mio avviso è che in qualche maniera in Europa si rafforzino delle forze di sinistra, che siano in grado di affrontare questo discorso. Naturalmente quando parlo di sinistra vorrei sottolineare che oggi questi termini sono molto labili; dobbiamo inventare una sinistra diversa, non possiamo andare avanti con slogan dell’Ottocento e del Novecento. Dobbiamo impostare una politica di grande apertura, coraggio e capacità di innovazione; cosa ovviamente non facile, ma è l’unica possibilità di salvarci da quel trend che osserviamo, ad esempio, oggi in America, ma anche altrove. La stessa Brexit è un sintomo piuttosto significativo di questa situazione.

Siamo, in un certo qual modo, tutti in pericolo, tutti in qualche maniera siamo infettati da questa situazione che, però lascia anche notevoli spazi aperti. Io credo che la società contemporanea, la società del neo-liberalismo e neo-capitalismo non può reggere a lungo ed è assolutamente necessario trovare risposte diverse da quelle che si stanno dando “a destra”. Tuttavia quali siano queste risposte e come fare a trovarle è un punto interrogativo.

Purich: Io sono convinto che il processo di “ri-nazionalismo” sia ben avviato e credo parta da molto lontano, poiché sono state le stesse élites neo-liberali a favorirlo. Chi che ha preso controllo produttivo e politico dell’Europa ha innanzitutto voluto distruggere l’idea economica egualitaria che stava dietro al pensiero marxista. Distruggendo questa idea economica sono stati liquidati completamente anche gli altri aspetti legati alla sinistra marxista e al comunismo, in primis l’internazionalismo.

Per cui secondo me c’è stato quell’atteggiamento da apprendisti stregoni, che per eliminare il nemico hanno creato qualcosa di “ancora più pericoloso” per la comunità intera.

La differenza che vedo rispetto al nazionalismo novecentesco, purtroppo la vedo in negativo. Stiamo vivendo una situazione molto simile a quella che c'era prima della Prima guerra mondiale, con una fortissima insoddisfazione da parte di ceti più deboli, che non riescono più a coalizzarsi perché manca una sinistra che sia in grado di tradurre questo malcontento. A differenza del movimento socialista della prima guerra mondiale, che fece degli errori spaventosi (come votare i crediti di guerra), ma comunque esisteva come movimento reale, in questo momento non c'è nulla del genere.

Sono convinto che dobbiamo ritrovare delle nuove idee di sinistra, ma sono altrettanto convinto che le parole d'ordine dei due secoli precedenti non abbiano più senso. Secondo me quello che si potrebbe recuperare sono le parole d'ordine del ‘700: la bandiera della sinistra dovrebbe fondarsi ora sulle tre parole cruciali, “liberté” “égalité” e “fraternité”. Soprattutto il concetto di fraternité, che in termini contemporanei andrebbe tradotto in “solidarietà” è stato completamente dimenticato dalle masse e dalla politica. Poi abbiamo avuto delle sinistre in tutta Europa che hanno inseguito in tutti i modi le lucciole del neoliberismo abdicando completamente a quella che era la funzione storica, sia economica che sociale, della sinistra.

Io vedo una situazione gravissima, anche perché questa abdicazione sul ruolo della sinistra ha portato ad una completa mancanza, non solo di ideali, ma di punti di riferimento. Adesso, il punto di riferimento è il social network, che è una cosa assolutamente labile perché non credo si possano fare rivoluzioni su internet, non credo che internet abbia la forza di creare strutture sociali capaci di contrapporsi a dei moloc del potere che sono soprattutto economici. Un’ulteriore dimostrazione della gravità della situazione è rappresentata dalla mancanza di risposte che la sinistra, a livello europeo, sta dando sull'unico fenomeno storico che non è possibile in nessun modo arginare, ossia le emigrazioni di massa.

Si può dire che parlare oggi di socialismo è anche riflettere su come confederare la complessità del reale e le diverse istanze politiche e sociali che inneggiano alla libertà ed all’uguaglianza?

Pirjevec:  Sicuramente. Un mio collega sloveno, purtroppo ormai defunto, diceva che la nuova società deve creare una specie di micelio, cioè quella rete sotterranea che producono i funghi, che sono in qualche maniera interconnessi attraverso una serie di filamenti: noi dobbiamo pensare in questi termini. Esiste una complessità di interazioni che, solo in un secondo momento, divengono struttura. Io penso che solo in questo modo sia possibile parlare alle nuove generazioni in modo originale; anche perché noi viviamo in un tempo reticolare, dal punto di vista delle relazioni sociali e produttive. Internet, ad esempio, può diventare uno strumento positivo, in termini di organizzazione ed emancipazione sociale, a patto che si riconosca l’ambivalenza di qualsiasi trasformazione nata da rivoluzioni della tecnica, al pari di quanto è accaduto con l’invenzione della stampa a caratteri mobili nel XV secolo.

Che raccomandazioni vi sentite di fare a chi vuole narrare o semplicemente conoscere la storia delle zone di frontiera?

Pirjevec:  La storia del mondo è storia di frontiera, perché ovunque ci sono stati e ci sono incroci ed incontri tra popolazioni e comunità diverse. Imparare la storia del mondo, in questo senso, e di conseguenza farla diventare strumento di analisi e dibattito, è l’unico strumento che abbiamo per evitare la deriva.

Purich: Io penso che bisognerebbe abbandonare definitivamente una visione nazione-centrica. Ricordo che quando ho fatto l’esame di abilitazione (all’insegnamento in storia ndr) avevo scritto che lo studio di una storia nazione-centrica era assolutamente lontano dalla realtà di intere regioni, a livello europeo e mondiale. Per questo è necessario approcciarsi alla storia in termini “macro”, segnalando il fatto che le dinamiche economiche e sociali hanno sempre coinvolto l’intero spazio globale. Ad esempio, se non si capisce il vero senso della colonizzazione difficilmente riusciremmo a capire le dinamiche della società che stiamo vivendo, perché gran parte dei processi partono da lì.

Inoltre un altro grande tema, sempre relativo allo studio della storia di frontiera, è quello di avere conoscenze linguistiche plurali. Uno dei grandi limiti della storiografia italiana del confine orientale è stato il fatto che gli storici italiani non conoscessero per nulla la lingua slava. Come non si può analizzare storicamente l’Alsazia-Lorena senza conoscere il francese ed il tedesco, allo stesso modo non si può studiare la storia del Trentino o della Venezia-Giulia senza conoscere, rispettivamente, il tedesco o lo slavo. Questo, oltre ad essere segno di grande provincialismo, ha segnato la storiografia italiana dandogli quel connotato nazione-centrico che, invece, andrebbe superato.