L'Italia delle diseguaglianze

Un commento sul Rapporto annuale dell’ISTAT

19 / 5 / 2017

Società diseguale e stagnazione economica sono i due principali elementi che emergono dal Rapporto annuale dell’ISTAT, la cui elaborazione dei dati si riferisce al 2016. Non ci sono grandi novità rispetto agli anni precedenti, se non una maggiore consapevolezza, da parte dello stesso istituto, di un quadro economico-sociale che ha di fatto cristallizzato gli effetti nefasti di un decennio di crisi.

L’indice relativo al “rischio di povertà ed esclusione sociale” rimane invariato rispetto all’anno precedente, attestandosi al 28,7%, mentre aumenta nelle famiglie che hanno almeno un cittadino straniero al loro interno, a testimonianza di un peso sempre più marcato che il dato etnico sta assumendo all’interno del panorama delle diseguaglianza. Un dato, questo, che smonta in maniera oggettiva quella campagna nazional-populista, che da tempo si nutre della retorica del “privilegio” degli stranieri nei confronti degli autoctoni. Si rende evidente, invece, come la subalternità economica investa pesantemente anche gli stranieri con regolare permesso di soggiorno e con un contratto di lavoro.

Tornando all’analisi del rapporto si constata l’aumento, passando in un anno dal 11,5% ad 11,9%, dell’indice di “grave deprivazione”,  legato a nuclei familiari che vivono in maniera costante almeno 4 dei 9 sintomi cosiddetti di disagio[1].

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A fronte di questo aumenta in maniera inesorabile la concentrazione della ricchezza verso le élite (denominate nel rapporto “classi dirigenti”), che si traduce, ad esempio, in una differenza di oltre 2.400 euro nella capacità di spesa mensile tra le famiglie della fascia di reddito più alta e quelle meno abbienti[2]. Per avere un quadro d’insieme che prenda in esame una scala temporale più ampia, possiamo incrociare i dati ISTAT con quelli, relativi all’Italia, dell’ultimo rapporto Oxfam, pubblicati nel dicembre 2016. Lo scorso anno la capacità patrimoniale dell’1% più ricco della popolazione italiana (che possiede un quarto della ricchezza nazionale netta) è stata oltre 30 volte superiore a quella del 30% più povero ed addirittura 415 volte del 20% più indigente. Per quanto riguarda il reddito, tra il 1988 ed il 2011 il 10% più ricco della popolazione ha avuto un incremento superiore a quello della metà più povera degli italiani.

Tutto questo si inserisce in un contesto che, in un’ottica economica globale, molti analisti definiscono di “stagnazione secolare”. La flessione dell’economia statunitense e la frenata, ormai conclamata, della crescita nel BRICS, in particolare della Cina, fanno segnare il più basso incremento del prodotto interno lordo mondiale dal 2010. L’Italia in particolare si rivela come il Paese più in difficoltà tra quelli ad ”economia avanzata”, facendo segnare uno scarso 0.9% di tasso di crescita.

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Distribuzione della ricchezza e guerra orizzontale

Questi dati rischiano di diventare pura retorica algebrica, ed assumono un effetto addirittura stucchevole, se non diventano oggetto reale di disamina pubblica e politica. Ma, come è ormai prassi in questi ultimi anni, il dibattito mainstream che riguarda le condizioni materiali degli italiani ha assunto anch’esso un carattere sensazionalistico, che si traduce in alcuni titoli ad effetto delle principali testate e tanto materiale per un opinionismo spicciolo e di facciata. Qualsiasi dato economico-sociale non è, per sua natura, neutro perché è sempre il prodotto di precise scelte politiche fatte a monte dalla governance finanziaria e riprese dai governi nazionali. Se negli anni Ottanta è terminata la fase di espansione dei diritti sociali, dovuta, in particolare nel nostro Paese, a tre decenni di lotta di classe che hanno mobilitato tutti i comparti della società, il superamento definitivo di quel sistema di garanzie si è compiuto proprio nella fase più acuta della crisi. È in questi anni che si è assistito ad una vera e propria inversione di tendenza della lotta di classe, che ha consentito al capitale non solo di distribuire la ricchezza verso l’alto, ma anche di introiettare all’interno di una massa impoverita sempre più frammentata in termini di classe la logica della scarsità.

Il Rapporto ISTAT, per la prima volta, prende ampiamente in esame il tema della scomposizione di classe rilevando in particolare una percezione soggettiva molto evidente del fenomeno. Non lo scopriamo certo adesso, ma non è irrilevante il fatto che le trasformazioni che hanno riguardato il rapporto tra capitale e lavoro negli ultimi 30 anni rendano ora evidente l’assenza di legami sociali connessi alle condizioni materiali di vita. Entrando più nei dettagli, ci troviamo di fronte ad una duplice spinta all’interno della società italiana. Se da un lato la classe operaia novecentesca, che da tempo mantiene una posizione di rendita rispetto ad alcuni diritti e tutele acquisiti nei decenni passati, è sulla via dell’esaurimento demografico, dall’altro si assiste ad una sempre più marcata “proletarizzazione” del vecchio e nuovo “ceto medio”. I pensionati provenienti dal ceto impiegatizio (in particolare chi è rimasto senza coniuge), che stanno assumendo una rilevanza statistica notevole per via dell’invecchiamento della popolazione, i lavoratori del terziario, il variegato mondo dei lavoratori della conoscenza, le partite IVA, il precariato giovanile: sono queste le figure più soggette a processi di impoverimento. La loro “proletarizzazione” si afferma, però, in maniera differente da quella che ha caratterizzato il mondo agricolo ed artigianale agli albori del capitalismo industriale, perché è connessa a fenomeni di atomizzazione sociale e non di omogenizzazione. Non è un caso che spesso sono proprio questi soggetti, non solamente nel contesto italiano, ad infatuarsi più facilmente delle retoriche populiste, proprio come risposta al crollo delle aspettative individuali.

Sono proprio i due elementi che si evidenziavano sopra, l’interiorizzazione della scarsità, di ricchezza e diritti, con la conseguente competizione per accaparrarsi queste risorse limitate, e la fine di qualsiasi forma di legame di classe, che compongono l’humus all’interno del quale si alimenta la guerra orizzontale tra soggetti poveri ed impoveriti. Una guerra in cui il razzismo e  il sessismo assumono connotati politici sempre più precisi e diventano parte integrante di una strategia del comando che tende a fare delle discriminazioni il fondamento di un disciplinamento biopolitico immanente al corpo sociale stesso.

Da tempo ci stiamo interrogando su come indirizzare la guerra del basso contro il basso in una lotta generalizzata del basso contro l’alto. È palese che ragionare solamente in termini di nuova ricomposizione in astratto, senza considerazione della disposizione dei soggetti di classe, rischia di diventare un’operazione asettica, buona per intellettualismi più o meno naïf  o per battaglie che non vanno oltre il puro spirito evocativo. Per tentare di rompere quella competizione orizzontale che si fa sempre più “guerra” probabilmente bisognerebbe partire dagli effetti biopolitici che questa comporta. Razzismo e sessismo sono gli elementi più invasivi su cui si edifica la riproduzione capitalistica contemporanea e per questa ragione, nel combatterli, è essenziale esprimere ed organizzare un attacco al capitalismo stesso. Non si tratta di un passaggio che accade in automatico, ma è compito dei movimenti sociali stimolarlo e sviscerarlo in ogni momento e di assumere l’intersezionalità come elemento basilare della propria prassi e strategia.


[1] Secondo un format statistico europeo i 9 sintomi di “disagio” sono: 1. non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione; 2. non poter sostenere una spesa imprevista (il cui importo, in un dato anno, è pari a 1/12 del valore della soglia di povertà rilevata nei due anni precedenti); 3. non potersi permettere un pasto proteico (carne, pesce o equivalente vegetariano) almeno una volta ogni due giorni; 4. non potersi permettere una settimana di ferie all’anno lontano da casa; 5. non potersi permettere un televisore a colori; 6. non potersi permettere una lavatrice; 7. non potersi permettere un’automobile; 8. non potersi permettere un telefono; 9. essere in arretrato nel pagamento di bollette, affitto, mutuo o altro tipo di prestito.

[2] ISTAT, Rapporto annuale 2017, p. 96