Lo Scalpo dei lavoratori – Nuovi percorsi di lotta per fondare reali diritti di cittadinanza.

23 / 9 / 2014

Recessione.

La governance degli organismi internazionali [FMI] ed europei [BCE], attraverso le bocche di Cristine Lagarde e Mario Draghi, si sta manifestando attorno al Jobs Act e ripropone nuovi tagli alla spesa pubblica su sanità e pensioni, come se quelli già effettuati fossero irrisori e di poco conto. E’ la loro ricetta iperliberista contro la crisi economica globale, che si è incistata in Europa, diventando endemica, e che nessun provvedimento è riuscito a eliminare, tanto vero che oggi si riverbera anche sui paesi considerati forti quali la Francia e la stessa Germania: una cattiva medicina che ha peggiorato la malattia. Solo un cambio radicale di paradigma potrebbe modificare la distribuzione del reddito disponibile che sempre più è concentrato in una stretta minoranza sociale, ma questi sono i nudi dati che ci ricordano sia l’OCSE che il FMI.

L’economia italiana si contrarrà anche nel 2014, con il pil che calerà quest’anno dello 0,1%. Il pil tornerà a crescere nel 2015 (+1,1%), per poi accelerare nel 2016 a +1,3%. Il -0,1% dell’economia nel 2014 segue il -1,9% del 2013 e il -2,4% del 2012. Il debito italiano salirà, toccando il picco, al 136,4% del pil nel 2014, per poi scendere progressivamente. Lo afferma il Fmi nell’Article IV sull’Italia, sottolineando che il debito pubblico si manterrà sopra il 130% fino al 2017 (135,4% nel 2015, 132,9% nel 2016 e 130,2 nel 2017), per poi scendere al 127,6% nel 2018 e al 124,7% nel 2019. Il rapporto deficit-pil italiano si attesterà nel 2014 al 3,0%, per poi scendere al 2,1% nel 2015. Lo afferma il Fmi nell’Article IV sull’Italia, sottolineando che il deficit 2016 sarà all’1,1% e continuerà a calare fino allo 0,4% del 2019. Il tasso di disoccupazione in Italia salirà quest’anno ai massimi dal dopo-guerra, al 12,6% dal 12,2% del 2013. Lo afferma il Fmi, sottolineando che la disoccupazione resterà a due cifre fino al 2017 (12,0% nel 2015, 11,3% nel 2016, 10,5% nel 2017). Un quadro di recessione economica che, aldilà, dei conti pubblici, riguarda tutti i paesi europei.

 

Governo.

Renzi ha fatto, pubblicamente, il Gianburrasca proponendo lo sforamento concordato dei parametri prestabiliti, ha tessuto in Europa fili per nuove convergenze, ma la crisi economica e il credo neoliberista per il suo contenimento lo inchioda al banco di lavoro per fare i compiti che gli sono dettati: deve, se vuole durare, ottenere risultati concreti, presto anzi subito.

L’art 18 dello Statuto dei lavoratori, ripescato dal ministro Alfano in agosto, dopo qualche rimpallo, viene, dunque, offerto dal Governo Renzi quale simbolico agnello sacrificale all’Europa in cambio di qualche sforamento di bilancio che, solo così, potrebbe permettere al governo l’introduzione di qualche misura di flexsecurity in ambito sociale allargato. L’autonomia politica dei governi europei rimane nella carta, nella sostanza, chi determina le decisioni sono gli organismi di comando economico-finanziario internazionali, sia che al governo ci sia Berlusconi, Monti o Renzi. Vale per il Job Act come per le sbandierate Linee guida del governo per la "Buona Scuola".

Le urla isteriche dei sindacati, della Camusso e dello stesso Landini sono la reazione di chi è messo all’angolo nella decisionalità politica, di chi difende la propria poltrona sindacale, di chi, dopo aver perso il proprio ruolo sociale, sta perdendo pure quello, riconosciuto istituzionalmente, della rappresentanza del mondo del lavoro. Nulla hanno a che fare con gli interessi dei lavoratori.

Ma vediamo nel concreto cosa si prospetta nei prossimi decreti attuativi, dopo che nella Commissione Lavoro del Parlamento è stato votato l’emendamento proposto dal governo.

L’art. 4 del ddl presentato dal ministro del lavoro Poletti – mutuando molto di quanto vige nella logistica e nel commercio dove le sue Coop la fanno da padrone – è stato riscritto con l’ambizione di “valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale”, per disegnare “eventuali interventi di semplificazione delle tipologie contrattuali”. Il governo si dà infatti sei mesi di tempo per elaborare un “testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”, che farà da riferimento per “l’abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato”.

In pratica, una riscrittura completa, organica, semplificata e univocamente determinata, di tutta la disciplina del lavoro.

 

Art. 18/L. 300.

Dunque non è in gioco solo quello che resta dell’art.18 con la possibilità di reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato ma anche una revisione del divieto delle tecniche di controllo a distanza (sorveglianza e telelavoro), e la possibilità del demansionamento del lavoratore in caso di necessità dell’azienda, così da ottenere una flessibilità di reinserimento lavorativo a seguito di ristrutturazioni, riconversioni, cessione di ramo d’azienda etc.

Infatti sappiamo che “grazie” al pacchetto Treu e alla legge 30/12 esistono – oltre all’ormai rarissimo contratto a tempo indeterminato – ben 46 tipologie contrattuali caratterizzate univocamente dalla precarietà assoluta. Può esser questo l’obiettivo della “semplificazione”?

Certamente sì, perché anche le aziende hanno difficoltà nel gestire rapporti interni ricadenti sotto normative differenti, cosa che mette in difficoltà gli uffici amministrativi. Quindi “meno diversità” contrattuali è un obiettivo logico, di efficienza minima. Ma anche certamente no, perché – come vedremo – l'”equità” che il governo persegue è quella di rendere tutti egualmente precari, eliminando le residue tutele anche per quanti erano riusciti fin qui a difenderle.

In realtà, come si è già visto con i primi interventi legislativi in materia di apprendistato e contratti a termine, le “tutele” vengono eliminate del tutto; e solo ad una certa – lunghissima – anzianità di carriera cominceranno ad essere reintrodotte. Ma, sia chiaro, in misura assai più limitata di oggi. Al massimo, verranno “monetizzate” alcune eventuali “discriminazioni” da parte dell’azienda nei confronti del singolo lavoratore. Il meccanismo delle “tutele crescenti” prevede dunque in partenza zero tutele per i neo assunti. E’ l’abolizione nella pratica di quello che resta dell’art.18, tanto più che il primo contratto a tempo indeterminato può arrivare dopo alcuni anni di “apprendistato” e magari qualche altro di “contratto a termine”, portando così intorno ai dieci anni il periodo di vita lavorativa assolutamente privo di tutele.

Di fronte ad una crisi endemica non c’è più lo spazio politico per mantenere anche solo la formale tutela dei diritti in un rapporto di lavoro dove il lavoratore, il soggetto debole del rapporto, non deve essere garantito in quanto cittadino  ma ridotto a suddito, e in quanto tale alla mercé del "padrone" e del mercato.

Una trasformazione resasi possibile, oltre che dall’incalzare della crisi, da un salto epocale nel modo di produrre che si è sedimentato nel corso degli ultimi 20 anni, con lo smantellamento dell’operaio come figura sociale di riferimento, con la destrutturazione di una determinata composizione tecnica e politica dei lavoratori. L’ultima fiammata politica e sociale di quell’epoca è stata la grande manifestazione di 3 milioni di persone conclusasi al circo Massimo a Roma nel 2002, ma già allora aveva un sapore residuale e conservativo che non quagliava con la trasformazione sociale che era in atto: quella manifestazione è stata il canto del cigno.

Una tutela, quella dell’art.18, che è sempre stata appannaggio solo di limitate aristocrazie operaie e sindacali, anche se  teoricamente circa 6 milioni di lavoratori ne potevano e possono ancora beneficiare, circa un quarto della forza lavoro occupata, ma che, in verità, è una garanzia applicata solo dove era ed è radicata la presenza sindacale, tanto che per il 2013 si parla di circa 7.000 cause di lavoro con questa voce [art.18/L.300], conclusesi con i due terzi dei lavo­ra­tori hanno optato per un inden­nizzo, rinun­ciando alla reintegrazione nel posto di lavoro. Un sistema di garanzie in vigore dal 1970 e che nelle fasi espansive delle lotte dei lavoratori non si è riusciti ad allargare a tutto lavoro dipendente, e che ora pensare di poterlo fare o agitare – aldilà del principio ideologico – è un puro delirio politico. Non si tratta più di arroccarsi a difesa di diritti acquisiti, di farne un bastione o l’argine da cui ripartire per un allargamento universale né di svendere l’art. 18 per la promessa di un piatto di lenticchie, ma di rilanciare ora, con forza e potenza costituente, una campagna generalizzata per il reddito e i diritti di cittadinanza per tutti.

 

Sciopero sociale.

Quella composizione di classe, quella figura di operaio, di lavoratore è alla frutta, è stata demolita politicamente e sindacalmente, esiste, è presente, protesta con orgoglio ma chiedendo lavoro a testa bassa, è tornata ad essere, principalmente solo forza lavoro. Il conflitto è sociale, è carsico, sta altrove e le sparate dei sindacati confederali sono un bluff autoreferenziale e per di più a carte scoperte: per tutti è già chiaro e socialmente acquisito che tutte le condizioni lavorative sono precarie, la vita stessa è precaria.

In questo contesto sociale, dentro questa crisi, assumono nuova valenza politica i percorsi di lotta che pongono al centro del conflitto nel mondo dei lavori quel plafond di elementi che vanno a formare la concreta soglia basica del riconoscimento di reddito, di diritti e dignità di cittadinanza.

Percorsi e obiettivi sostanziali e di base che possiamo ritrovare nella piattaforma rivendicativa dei lavoratori della logistica in Italia, in quella dei lavoratori intermittenti in Francia, negli scioperi dei lavoratori americani per una paga oraria minima per tutti; in questo senso lo sciopero sociale europeo del 14 novembre può diventare una grande scommessa per un futuro di lotta e di trasformazione sociale.