La bozza di risoluzione che andrà sul tavolo del Consiglio europeo che si riunisce a Bruxelless il 26 e 27 giugno lo conferma: i confini sono un nodo strategico per questa Europa. Ma la “gestione dell’immigrazione non ha alcuna strategia pienamente condivisa, poca omogeneità di vedute. E così, ancora una volta, l’Europa riesce ad esprimersi in maniera condivisa solo sul terreno dei controlli alle frontiere. Il testo licenziato nella sessione anticipatoria parla di libertà di circolazione interna solo in relazione alla necessità di rafforzare i confini esterni e con essi di potenziare l’agenzia Frontex, mentre sullo specifico nodo del diritto d’asilo si prefigura un nuovo slancio per le politiche di esternalizzazione dei confini, con la costruzione di campi profughi nei paesi di partenza, per cercare di spostare più in là, lontano dai nostri occhi, la questione che più di altre sta mettendo a dura prova le politiche sull’immigrazione comunitarie, piegate in questi mesi dalla pressione di migliaia di persone in fuga da conflitti. Quanto queste proposte possano diventare concrete è difficile dirlo. Di certo sulle decisioni del Consiglio europeo pesano almeno due fattori: l’insuperabile scoglio degli egoismi degli stati membri e la pressione dei partiti che proprio sui temi dell’identità e della sovranità nazionale hanno ottenuto grandi risultati alle recenti elezioni europee. Ogni tentativo di “condivisione delle responsabilità”, è stato insomma riassorbito nella riproposizione di vecchie ricette di cui questa Europa sembra proprio non poter fare a meno.
Ma c’è un altra voce che fuori dai palazzi di Bruxelles
tenterà di fare breccia a partire proprio dal pomeriggio di oggi. E’
quella dei migranti impegnati nella March for freedom. Chiedono libertà di movimento e diritti e guardano all’Europa come immediato terreno di rivendicazione. Non è poco.
La tappa italiana di questa marcia è andata in scena proprio sabato
scorso, quando centinaia di persone sono partite dalla Stazione Centrale
di Milano per raggiungere la Svizzera e la sua frontiera, quel confine
ibrido, insieme esterno ed interno, che in questi mesi è diventato il
simbolo delle restrizioni alla libertà di circolazione.
“Sono scappato da una guerra, la conosco bene. E vi assicuro che al confine con la Svizzera c’è una guerra vera e propria”- diceva Hassan poco prima della partenza. E le sue parole bastano da sole a spiegare quanto la breccia aperta dal No Borders Train valga molto di più di tanti timori. Sui giornali del Canton Ticino, dopo sabato 21, non si parla d’altro. L’enorme dispositivo messo in campo dalle autorità elvetiche, che hanno dispiegato elicotteri e uomini lungo tutto il confine, si è dovuto piegare ai manifestanti. La “frontiera - come titola il più importante giornale locale - è stata forzata” aprendo un dibattito sulle responsabilità della Svizzera nei confronti di chi fugge dalla guerra. Un duro colpo per uno Stato che respinge illegittimamente almeno otto migranti su dieci alla frontiera di Chiasso e che si appresta ad applicare i risultati di un referendum che a breve introdurrà limitazioni anche per l’ingresso dei cittadini europei. Per trovare conferme sulla portata della conquista del No Borders Train basta farsi un giro tra via Aldini e i giardini di Porta Venezia a Milano. I racconti raccolti tra i “profughi”, continuamente impegnati nella ricerca della miglior strategia per lasciare l’Italia, restituiscono un’immagine della Svizzera come territorio dalle mura invalicabili. Alle loro storie si aggiungono decine di rapporti di altrettante organizzazioni internazionali che spiegano come proprio dalla frontiera elvetica arrivino gran parte dei dubliners rispediti in Italia.
Eppure sabato scorso la macchina del confine si è inceppata
e quella frontiera si è trasformata in poche ore in un dispositivo
molle, compiacente, piegato alle rivendicazioni dei manifestanti.
Dalla Stazione Centrale sono partiti in più di trecento, almeno un terzo
erano richiedenti asilo. Arrivati in carovane grandi e piccole da molte
regioni, hanno superato i blocchi dei reparti anti-sommossa schierati
al binario 5 e poi sono arrivati sulla banchina della stazione di
Chiasso dove un comitato di accoglienza fatto di centinaia di agenti
della Polizia di Frontiera elvetica ha circondato il treno. Fuori dalla
stazione decine di giornalisti e attivisti svizzeri tenuti lontano.
Dentro una vera e propria acampada. Due ore di estenuanti
trattative, di contatti con l’Ufficio Immigrazione, di pressione su un
confine saltato sotto i colpi di un treno che viaggiava consapevole di
stare dalla parte giusta.
A fine giornata la Polizia svizzera ha dovuto cedere su tutto: ha raccolto le domande d’asilo presentate dai “profughi” e ha concesso ai manifestanti l’uscita dalla stazione. Così il No borders train si è trasformato in un corteo ed è uscito dallo scalo ferroviario senza il controllo dei documenti permettendo ad altri migranti di scomparire per le vie di Chiasso verso la Germania e la Svezia.
In quegli attimi, di fronte a quella pratica collettiva e pubblica, il diritto d’asilo europeo e la libertà di movimento sono sembrati molto più concreti di quanto mai potranno essere sul tavolo di Bruxelless.
Quel
fiume in piena che sabato ha trasformato in polvere la granitica
frontiera svizzera, insieme alla marcia che sfilerà per le vie della
capitale belga, sono insomma un messaggio sfacciato ai governi in
procinto di riunirsi, ed insieme una speranza per i movimenti. Di fronte
a noi c’è una occasione imperdibile. Il semestre di presidenza italiana
dell’UE può diventare l’occasione per costruire convergenze oltre i
confini nazionali, la possibilità di dare concretezza ad un’altra mappa
dell’Europa, più viva e mobile di quella proposta dai governi, mettendo
al centro dell’agenda dei movimenti anche la battaglia contro i confini.
Perché i confini uccidono, respingono, si possono subire pagando a caro
prezzo ogni tappa del loro attraversamento, oppure, osando, possono
diventare un eccezionale terreno politico di conquista, un nodo
strategico su cui cercare di costruire le nuove geometrie di un’Europa
che ormai sembra stare stretta a tutti, migranti e non.
Ma per farlo c’è bisogno di tanti “no borders brains”, di
cervelli e corpi capaci di pensare e muoversi oltre i confini, per
raccogliere questa entusiasmante sfida del nostro presente: make Europe not borders, fare l’Europa non i confini.