Ministro Poletti – l’indegno spettacolo delle élites

Commento sulle ultime dichiarazioni del ministro del Lavoro Giuliano Poletti

28 / 11 / 2015

Non siamo soliti commentare la cronaca politica, soprattutto quando questa ha come oggetto le esternazioni dei ministri e di altri esponenti del mondo politico italiano. Ma la doppietta inanellata dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che ha prima messo nel mirino i giovani “che si laureano a 28 anni con 110 e lode” e poi “il contratto basato sull’orario di lavoro”,  merita di essere commentata. Questo non solo per l’atteggiamento sbruffone e saccente che spesso caratterizza gli uomini di potere di casa nostra, ma perché dietro queste dichiarazioni si nasconde una visione ben precisa di questo governo, e di gran parte dell’alveo politico nazionale, in materia di istruzione e lavoro.

Ci viene piuttosto semplice trovare i nessi tra le due dichiarazioni, proprio perché tempi di vita, tempi di studio e tempi di lavoro si intrecciano sempre di più all’interno di un mondo universitario completamente trasformato da un decennio di contro-riforme. La dimensione studentesca odierna, per via dei ripetuti tagli al Welfare universitario e per l’introduzione dell’obbligatorietà di stage e tirocini all’interno dei cicli formativi (si pensi ad esempio alla cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, fortemente voluta dal ministro Giannini nella riforma della “Buona Scuola”), non è più solamente l’anticamera della precarietà lavorativa e di vita, ma ne contiene ogni sua forma. Una precarietà che non permette di liberare tempo per interessi, desideri e passioni personali, ma che è allo stesso tempo un vincolo che impedisce (nella maggioranza dei casi) di terminare il percorso universitario nei tempi “dovuti”.

Se stage e tirocini rappresentano il nuovo paradigma del lavoro giovanile (e non solo), questo ci introduce direttamente alla seconda questione. Il superamento dell’ora-lavoro come unico paramento di retribuzione, più che un’aspirazione del ministro Poletti, descrive una situazione che già si è data nella realtà delle relazioni produttive contemporanee. Da ormai diverso tempo all’interno di esse è infatti venuto meno il rapporto valore-lavoro come strumento principale di misura di un’attività sociale. Lo sdoganamento su larga scala del lavoro gratuito (previsto all’interno del Piano Garanzia Giovani e del Jobs-Act non più come mera applicazione della cosiddetta “economia della promessa”, ma come dispositivo che tende a superare le forme di rapporto lavorativo basate sul salario) è un evidente segnale di questa situazione.

Sicuramente il contesto nel quale il ministro si è espresso, un convegno organizzato alla Luiss che aveva come tema le riforme del lavoro, ha senz’altro agevolato l’uso politico del “palcoscenico”. Questa ed altre forme di spettacolarizzazione del dibattito sono diventate un tratto distintivo della politica italiana e non solo, determinando una spoliazione sempre più marcata degli spazi che dovrebbero essere deputati alla discussione sui temi di interesse generale. Non siamo di certo nostalgici di un dibattito che si esprima negli ambiti parlamentari o negli altri istituti della democrazia liberale, ma non possiamo e non vogliamo essere tifosi di una politica fatta ad uso e consumo dei talk show, delle assemblee di Confindustria o di convegni organizzati alla Luiss oppure alla Bocconi.

Le dichiarazioni di Poletti sono state seguite dall’ormai consueto coro di proteste da parte dei sindacati che, quasi all’unanimità, hanno tacciato il ministro di scarso rispetto nei confronti del lavoro. E se da un lato questa cosa è ampiamente vera, dall’altro nessuno dei commentatori si è posto il problema che in questo momento non occorre barricarsi dietro una difesa “ideologica” del lavoro, ma è necessario lottare per un salario minimo europeo, per un reddito di cittadinanza e per altre misure che sottraggano realmente milioni di persone al ricatto delle nuove forme di sfruttamento. Citando lo stesso Poletti, che a più riprese ha parlato di “innovazione” nel mondo del lavoro ed in generale nelle relazioni sociali ad esso legate, non possiamo fermarci a dichiarazioni “di controparte”, se abbiamo l’ambizione di contrastare su un piano reale la continua sottrazione di diritti e garanzie che colpiscono lavoratori contrattualizzati, precari, partite Iva, working poors, disoccupati.

La linea politica del governo Renzi, basata sulla demolizione costante di quel tessuto di diritti e garanzie frutto delle lotte sociali avvenute nel secolo scorso, è stata chiara fin dall’inizio ed esce corroborata dall’ultima legge di stabilità. Come scrivevamo in un precedente editoriale, nel nostro Paese l’impoverimento di massa sta diventando un problema reale, che fa da contraltare materiale ad un’improbabile crescita dell’indice economico di ottimismo. Per questa ragione è necessario, oggi come non mai, affiancare alle vertenze specifiche (aziendali e/o di categoria) mobilitazioni generalizzate che abbiano come oggetto la redistribuzione massiva della ricchezza.

Con queste considerazioni non vogliamo esimere il ministro Poletti dalla gravità delle sue affermazioni. Siamo purtroppo ben consci che spesso le “uscite” dei nostri ministri (una delle più tristemente note in questo senso rimane quella di Fornero rispetto alla “generazione choosy”) non possono essere ascritte al semplice rango di boutades, ma descrivono una vera e propria cultura economica e politica delle élites. Una cultura che ha pienamente interiorizzato ed esteriorizzato lo squilibrio sociale permanete come condizione essenziale per la sopravvivenza ed il rafforzamento del capitalismo nella contemporaneità. E’ questo il meccanismo che va rotto, se vogliamo spodestare queste élites da un ruolo che è per sua costituzione illegittimo e che diventa, giorno per giorno, sempre più ingombrante.