Movimento di mondi

Valutazioni sulla marcia #Overthefortress

5 / 4 / 2016

Una valutazione complessiva dell'esperienza #OverTheFortress è cosa ardua da fare, vuoi per l'impatto soggettivo con la situazione nel campo, vuoi per la sorprendente ed entusiasmante fusione in unico corpo collettivo cooperante dei 300 partecipanti alla marcia. Il tempo trascorso ancora non è sufficiente all'elaborazione della duplice esperienza: l'andare in così tanti, diversi e forse eterogenei e ritrovarsi immediatamente ad operare ad unum, muovendosi tra la dignità e la disperazione dei nostri nuovi concittadini bloccati ai bordi della Grecia.

La carovana #OverTheFortress è nata da un'intuizione ed un azzardo doppio. La conoscenza diretta della situazione lungo la rotta balcanica, accumulata dalle staffette iniziate ad agosto, ha fornito gli elementi di lettura necessari per comprendere immediatamente le ripercussioni materiali della chiusura dei confini dalla Grecia all'Austria; su questa base di analisi si è innestata la proposta di integrare le staffette di osservatori con un dispositivo di massa anche operativo. L'appello lanciato dal Progetto Melting Pot Europa e subito raccolto e rilanciato fa diverse realtà sociali di base ha mobilitato migliaia di persone, palesando un'eccedenza sociale disponibile ed immediatamente, pronta a supportare concretamente la trasformazione sociale più grande dal dopoguerra ad oggi. Questo punto va chiarito a fondo: il viaggio a Idomeni non riguarda solo le trecento persone che hanno distribuito aiuti materiali e conforto umano nel campo. C'era una sorta di mandato espresso da quasi altrettanti che non hanno potuto prendere parte al viaggio e dalle migliaia di cittadini che da Bolzano a Catania hanno risposto alla chiamata sommergendo letteralmente i centri di raccolta degli aiuti umanitari.

Una scommessa azzardata, dunque, fin dalla sua genesi. La prima proposta diviene pubblica nell'ambito assembleare che risponde ad una chiamata dal nome inequivocabile, "Agire nella Crisi". Possiamo senza dubbio affermare, con gli occhi ancora pieni della realtà dei campi-accampamento, che lo stato di crisi esiste in quanto deliberatamente imposto ai popoli da parte dei cosiddetti gangli della governance globale. Dentro un panorama artificialmente dipinto col grigiore della crisi, l'intreccio dei mille colori delle interazioni sociali si manifesta attraverso l'azione, che necessariamente richiede un processo di condivisione ed organizzazione: ecco il secondo e più grande livello di azzardo, la trasformazione di una miscela di gruppi e singolarità in unica collettività cooperante.

Dialogo continuo, scambio, comunicazione incessante: i tempi lunghi dei trasferimenti in nave ed in autobus accolgono un pieno di riflessioni messe in comune, derivate dalle esperienze di ciascuno. Vicende che appartengono a luoghi, territori e tempi così distati tra loro, ma univocamente riassumibili nella volontà comune di trasformare lo stato di cose esistente migliorando le condizioni materiali di vita dei nuovi europei. Ecco come il primo momento, quasi di routine da viaggio di massa, diviene vero momento assembleare: subito assimilate le informazioni logistiche, il ponte della motonave si fa luogo di costruzione di un "noi", identità collettiva e condivisa che compartecipa delle microstorie di organizzazione di ciascuno. L' unicum che si viene a creare percepisce sé stesso per ciò che è: entità corporea, potente perché numerosa, mutevole nelle forme di rappresentazione del sé, con una missione chiara: diffondere nella tendopoli il messaggio di benvenuto ed il materiale umanitario, raccogliendo al contempo desideri e passioni della moltitudine migrante forzatamente stanzializzata in condizioni indegne.

Appare chiara, da subito, la necessità di assumere compiti precisi, il più urgente e delicato quello della mediazione linguistica cui spetta il compito di indirizzare la presenza nel campo. Il gruppo di lavoro si fa laboratorio di antropologia e sociologia, riflette e socializza le esperienze di relazione con culture e tradizioni diverse. Il dialogo diretto, lo scambio non mediato sono i terreni che più di tutti mettono a dura prova l'individuo-mediatore, parlarsi e capirsi nella stessa lingua genera uno shock empatico che malamente traspare dalla luce sinistra che abita gli occhi dei traduttori bilingui, quando con poco più di un sibilo o una smorfia si trovano costretti a smontare le illusioni di chi spera nella presenza della marcia per proseguire oltre il confine.

Nessuna preparazione, nessuna conoscenza - magari frutto di un precedente viaggio conoscitivo - sono sufficienti a preparare l'arrivo al campo. Semplicemente, le condizioni di Idomeni non sono pensabili, concepibili, comprensibili. Idomeni esiste, in spregio ad ogni razionalità: un colpo basso, ingiustificabile ma ineluttabile figlio dell'incapacità istituzionale di governare i flussi migratori. Diecimila, dodicimila persone, poco importa il numero esatto che nessuno conosce: il dato di fatto è l'esistenza di una riserva di umanità nelle condizioni più inumane oggi immaginabili, almeno nella nostra vecchia Europa. Settanta anni dopo la fine dei lager nazisti qualcosa di simile sta ricomparendo, laddove la politica nega la vita automaticamente imponendo la morte. Ma c'è una dimensione eccedente nel campo, data paradossalmente proprio dall'assurdità della sua esistenza. Formatosi come bivacco notturno a ridosso del valico di frontiera, attraversato come tappa per più di un anno, da qualche mese si è fatto luogo di stanzialità, ha sviluppato una sua quotidianità, definito relazioni sociali, una sorta di economia, creato toponimi. I fuochi stentati e dalle esalazioni asfissianti che compaiono al tramonto segnano una geografia di reti sociali, aggregando nuclei familiari allargati attorno alla poca luce prodotta da fiamme incerte ed al cibo che cerca di cuocere chi vuole mantenere un livello di autonomia. Forse il desco serale, luogo di racconti e canti strazianti dei curdi che rinnovano così la loro cultura, costituisce l'unico momento in cui la miriade di bambini e ragazzi può ricevere una sorta di istruzione.

Proprio loro, giovani e giovanissimi, sono l'anima viva del campo, energici oltre ogni aspettativa, curiosi verso ogni volto sconosciuto, sempre pronti allo scherzo e in cerca di affetto. Sono loro a vivere più di tutti l'ambivalenza della situazione: una potenziale città in fieri , il vivere quotidiano regolato dalle piccole consuetudini che si vanno consolidando, in uno spazio-tempo determinato dal domino delle frontiere bloccate, in attesa di una decisione. Decidere di andare via, cedendo alle pressioni dell'UNHCR che vorrebbe svuotare il campo in un mese, o decidere di tentare un'altra strada per arrivare in Germania. L'altra decisione, quella auspicata dei governi che aprono i confini, resta utopia. Nel frattempo, la chiusura degli spazi di libertà per il movimento, apre la dimensione dell'auto-organizzazione: il cibo, il fuoco, i panni stesi ad asciugare. In una parola, la conservazione della dignità. L'ambivalenza di Idomeni è questa: nel fallimento di ogni politica di isolamento, divisione, segregazione, l'apertura di uno spazio di produzione e cooperazione sociale.

Già, la cooperazione sociale, antica osteggiatrice della solitudine imposta dal capitale, non manca mai di essere avversata, additata come nemica, repressa. La marcia entra nel campo destando da subito interesse e preoccupazione, sui trecento europei in arrivo sono proiettati in forma iperbolica i desideri di ciascuno, nasce il mito dell'armata della libertà che sbloccherà le vite di tutti. Ciò che accade è il blocco della polizia che la mattina successiva sbarra il passo alla colonna dei mezzi diretti al campo. Un nuovo confine, di fatto, istituito dichiaratamente allo scopo di separare due comunità co-operanti, #OverTheFortress ed il campo. Il potere costituito teme questa presenza che non controlla, non ha ragioni per impedire l'accesso al campo se non la situazione di tumulto (quasi routinario) che si sta dando "ai binari", luogo simbolo dove un mezzo della polizia sbarra il passo verso il reticolato che segna la frontiera. Così, bloccata tre ore da due file di polizia antisommossa, l'esperienza della marcia si arricchisce di un frangente tutto politico, mettendo a verifica il percorso di coesione iniziato appena due giorni prima ma che si dimostra già saldo ed irreversibile. Cementati da un'esperienza del tutto imprevedibile, arricchiti nella nuova conoscenza reciproca, quando finalmente il passo si libera la carovana ritorna al campo ancora più determinanta e carica nel voler portare un contributo non solo umanitario. Ormai è chiaro a tutti il livello eccezionale, e tutto politico, di #OverTheFortress: la forma auto-organizzata e pubblica, la capacità comunicativa, la visibilità di ciascuno, l'essere un corpo unico con la capacità di muoversi in forma sciolta non possono che impressionare ed allarmare chi ambisce a gestire i campi profughi dall'alto e nel segno del silenzio tacendo la realtà di organizzazione autonoma che invece è viva e forte.

Interagire con questa seconda Idomeni è stata la sopresa più inaspettata, resa possibile dalla scelta di un approccio diffuso, molecolare, "tenda per tenda". Solo così si entra (letteralmente) nelle vite della moltitudine che non riflette ancora a sufficienza su sè stessa, sulla composizione etnica o anagrafica. Solo cercando il contatto diretto ci si imbatte nel parto appena avvenuto, in solitudine, ignoto anche ai medici che sono presenti quotidianamente da mesi, o in un'altra tenda si ritrovano la donna ed il figliolo nato quindici giorni prima. Tutto il campo è permeato dall'attesa di riprendere la strada: le scarpe per chi cammina sono chiaramente il primo pensiero ed il genere più richiesto. Le più ambite quelle da trekking, tutti cercano di ottenere un paio migliore di quelle che hanno, i pochi veramente scalzi sono i ragazzini. Così, cercando di mantenere un ordine nella fila, si imparano nomi e provenienze, il cordone fatto per riservare l'area di lavoro agli altri volontari diventa momento di colloquio, sebbene a tratti conflittuale.

Le esperienze collettive si accumulano, ogni momento viene vissuto in una realtà aumentata dalla percezione della forza collettiva, l'urgenza di un momento di elaborazione comune si fa palpabile. Le narrazioni ed impressioni di ciascuno sono a tutti necessarie sì per ricostruire un quadro della giornata, ma forse più per ricostruire un quadro del sé e del divenire comune che va oltre il vissuto soggettivo.

L'ultima tappa della carovana è l'espressione del rifiuto materiale degli accordi di Bruxelles del 18 marzo tra Unione Europea e Turchia. Il presidio sotto al palazzo del governo regionale della Macedonia, a Salonicco, diviene luogo di nuovo intreccio di cooperazione e cospirazione con i collettivi e le organizzazioni locali. Mentre il corpo della carovana sfila per le strade di Salonicco salutato dalla gente, i gruppi tecnici portano a termine i loro compiti: una ricognizione dal punto di vista giuridico dello status dei migranti, l'allestimento di una struttura coperta per ospitare un punto di connessione internet stabile, via obbligata per la presentazione della domanda d'asilo politico.

Il ritorno segna in realtà l'inizio di un percorso inedito, nuovo, tutto da esplorare. L'assemblea sulla nave quasi non tocca la narrazione, la verifica collegiale del viaggio si fa direttamente momento costituente, sancendo l'esistenza di un corpo collettivo cooperante.

#OverTheFortress lascia, nascosto dalla stanchezza, un segno inequivocabile. Le torsioni del mondo globalizzato sono da inseguire ed inchiestare laddove si danno, le lenti per leggerle sono il prodotto della messa in comune di visioni ed esperienze, o non sono. Ciò che la marcia ha incontrato, e forse più ancora prodotto al suo interno, ha i tratti di quel movimento di mondo che rimodella totalmente ed irreversibilmente la realtà attorno a ciascuno, singolo od organizzazione che sia. Nuovi spazi di aggregazione, di azione e di senso si stanno aprendo nel segno della cooperazione sociale: spetta all'intelligenza ed alla creatività politica farli vivere.