Napoli si ribella al debito

Note sul presidio del 21 febbraio a Montecitorio

20 / 2 / 2018

Pubblichiamo il comunicato del Laboratorio Insurgencia sul presidio che si terrà domani di fronte a Montecitorio contro il pignoramento della cassa del comune, per il debito maturato nella gestione commissariale della ricostruzione post-sisma del 1980.

Il debito oggi è la principale parola del potere. A partire dal debito si tracciano oggi i confini delle democrazie, dei rapporti tra stati e tra individui: non esiste aspetto della vita politica passibile di non essere configurato a partire dalla relazione tra creditori e debitori.

La prova tangibile di questa funzione strutturante del debito all'interno della società è restituita dall'iscrizione della sua inderogabilità nel cuore stesso della carta costituzionale.

La legge costituzionale 1/2012 non rappresenta infatti un semplice aggiornamento dei principi costituzionali, ma li ridefinisce integralmente, sancendo la preminenza del pareggio di bilancio su ogni altra valutazione possa riguardare il lavoro di pianificazione delle politiche economiche del paese.

Quando si dice (modifica dell'articolo 81) che 'lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese', si dice che ogni ogni intervento dello Stato è subordinato a questo vincolo di non indebitamento.

Il diritto al lavoro, all'istruzione gratuita, all'assistenza sanitaria – sanciti dai primi articoli della Costituzione – valgono fintantoché non entrano in contraddizione con questo assunto.

Se questi diritti non sono economicamente sostenibili, è ormai possibile procedere costituzionalmente con licenziamenti di massa, chiusure di scuole e ospedali, lasciando spazio all'intrusione sistematica dei capitali privati che ricostruiscono nuove recinzioni a partire dalle macerie del pubblico.

Questo è vero particolarmente anche per gli enti locali, soprattutto in Italia che – caso quasi unico in Europa – ha esteso esplicitamente in costituzione gli stessi vincoli di bilancio anche ad essi. La premessa riscritta dell'articolo 97 è inequivocabile: 'le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico'.

Questo vuol dire che gli enti locali non sono autorizzati a garantire praticamente alcuna forma di politica sociale se questa stessa è insostenibile dal punto di visto dell'ottusa ragioneria contabile.

La giornata di domani si inserisce in questo quadro e, in questo quadro, rappresenta un punto di svolta. È la prima volta, infatti, che un'intera città – a partire in effetti dall'appello del suo primo cittadino – decide di mettersi in marcia per chiedere conto del proprio destino al governo centrale.

Le contingenze del caso – nella fattispecie, l'ultimo pignoramento di 24 milioni di euro prelevati dalle casse del comune per pagare al consorzio CR8 parte dei debiti dell'emergenza terremoto – assumono un significato politico generale all'interno di questo quadro. Ciò che l'amministrazione (anzi: la città) oggi deve pagare sono infatti debiti risalenti ad una stagione passata, funestata da clientele e da un uso sconsiderato dell'erario pubblico, all'interno di una fase politica in cui ogni margine di negoziazione risulta polverizzato dalla nuova razionalità economica della crisi e del debito.

In questo senso il caso di Napoli – se è particolarmente eclatante perché si abbatte sulla terza città d'Italia – è lungi da essere unico: i Comuni in crisi finanziaria sono più o meno 250.

Questi dati parlano ancora meglio se si guarda alla geografia politica che essi rintracciano: il 60,7% dei comuni in crisi sono localizzati infatti nel meridione d'Italia, con picchi in Calabria e Campania.

Il debito si innerva ed amplifica la spaccatura che dividie l'Italia, cronicizzando i ritardi e i disservizi del Sud in nome di vincoli di spesa che sottraggono di fatto agli enti locali la possibilità di rispondere in modo efficace alle esigenze che insistono sui propri territori. Quando lo scorso dicembre si è chiusa la lunga battaglia istituzionale fortemente voluta dal comune di Napoli, che ha consentito di dilazionare il rientro di spesa, spalmandolo su più anni, la direzione, andava in questa direzione. Il decreto approvato è il decreto salva-Napoli solo per i media che hanno deciso di accogliere una narrazione funzionale agli interessi del Partito Democratico, che ha fatto passare quella norma come una generosa concessione del partito di governo a vantaggio di una città in cui quel partito è all'opposizione: quel decreto ha invece concesso a tantissime realtà meridionali di tornare a respirare e di non precipitare nel baratro dei commissariamenti, con tutto il pacchetto di macelleria sociale che questi ultimi portano con sé.

La giornata di domani prova a dire questo: che la vita delle persone è più importante dei diktat finanziari. Che un debito gonfiato dagli interessi bancari e dal cancro dei titoli tissoci (i famosi derivati) non può venire prima della possibilità di pagare i lavoratori delle partecipate, garantire assistenza ai segmenti sociali più fragili, provvedere all'edilizia scolastica, riqualificare i territori vittime di devastazione ambientale.

Su quest'ultimo punto va fatta una precisazione: tra i debiti che gravano sul comune di Napoli ci sono ancora milioni di euro derivanti dal commissariato straordinario per l'emergenza rifiuti. Non serve certo spiegare il paradosso di una città costretta a pagare debiti per un enorme disastro ambientale che non è mai stato risolto: tra Napoli e Caserta – dove insistono molti dei comuni in pre-dissesto – molti territori stuprati dalla gestione scellerata dello smaltimento dei rifiuti aspettano ancora seri piani di bonifica e risanamento. L'assurdità di questa questione è che ora si chiede agli stessi cittadini vessati dall'inquinamento di pagare i debiti di chi quel problema doveva affrontarlo e lo ha utilizzato unicamente come occasione per intascare quattrini in deroga alla legislazione ordinaria (e dunque senza alcun parametro di trasparenza sia sulle spese che sugli interventi posti in essere).

Rispetto a questo quadro domani si fa un primo passo importante, pretendendo che lo Stato si faccia carico dei debiti derivanti da crisi passate che non possono gravare sulla presente amministrazione e, soprattutto, per decenni su generazioni di napoletani che dovrebbero pagare per disastri di cui hanno fatto in tempo a conoscere solo le nefaste conseguenze.

La prospettiva di medio termine è sviluppare progettualità politica con tutti gli enti locali e tutte le popolazioni che pagano sulla propria pelle le folli pretese che derivano dall'economia del debito: una confederazione ribelle che sappia mettere in piedi meccanismi che sfidano il comando transnazionale – a trazione dei grandi istituti della finanza europea – ricostruendo forme di governo autonomo e nuova democrazia. Fare questo a partire prima di tutto dai territori che la nuova geografia del potere condanna all'eterna subalternità, riconoscendo che il sud è un concetto eminentemente politico e che è a partire dai sud dell'Europa che oggi si può ricostruire un'opzione politica alternativa alla barbarie. Fare questo, aggiungiamo, per sfidare sul terreno giusto le derive reazionarie che le politiche di governo a mezzo della crisi producono.

Il nazionalismo, infatti, e l'affermazione sempre più concreta di nuovi fascismi francamente maggioritari (il cerbero Trump – Lepen – Salvini) trovano terreno fertile proprio a partire dalla nuova razionalità economica che attraversa l'Occidente, puntando il dito verso il cuore del problema e proponendo soluzioni criminali, nonchè sbagliate. L'impoverimento, la marginalità, la paura di cui parlano le destre eversive esistono materialmente e percorrono il ventre della società: la soluzione che viene indicata è la guerra orizzontale tra poveri, la costruzione di frontiere, il ritorno alle economie nazionali che restituiscano la sovranità alle popolazioni indebitate.

Sul terreno del debito si sfidano oggi i nuovi fascismi e i nuovi esperimenti di democrazia: non riconoscere la centralità di questa questione rischia di far fraintendere completamente il piano della sfida che oggi abbiamo di fronte.

Per questa ragione oggi riteniamo sia fondamentale ripartire dai territori che, più di altri, pagano la crisi per immaginare laboratori di autonomia post-statuale e in grado di essere schiettamente europeisti. Per questa ragione riteniamo che oggi la sfida delle metropoli, delle città ribelli, sia prioritaria alla 'presa dello Stato'. Non è una questione di scala ma di fase politica: tra l'alto della governance transnazionale (gli enti bancari, le agenzie di rating, le holding finanziarie) e il basso delle comunità indebitate, lo stato si colloca in mezzo unicamente come valvola di traduzione del comando biopolitico della cittadinanza indebitata.

Per questa ragione domani saremo a Roma, in tante e tanti, convinti che ogni sforzo sia necessario per incarnare in pratiche politiche concrete la Partenope Ribelle da cui immaginiamo possa ripartire un reale processo di trasformazione dell'esistente.

Laboratorio Insurgencia