Non più umiliati e offesi

Bisogna imparare a discernere le possibilità non realizzate che sonnecchiano nelle pieghe del presente (A. Gorz)

22 / 1 / 2015

What potion have I drunk of Siren tears [..]

Applying fears to hopes, and hopes to fears,

Still losing when I saw myself to win!

What wretched errors hath my heart committed, [..]

Now I find true

That better is by evil still made better

W. Shakespeare

Bisogna imparare a discernere le possibilità non realizzate che sonnecchiano nelle pieghe del presente

A. Gorz

È questo un presente in cui la nostra vita è aggredita con brutalità dalle “peggiori forme di dominio, di asservimento, di sfruttamento, costringendo tutti a combattere contro tutti”. In cui anche – diciamolo senza chiaroscuri – ci scontriamo con l'impotenza soggettiva e collettiva di rimediare, se non di ribellarci, a questa aggressione.Quella brutalità e questa impotenza ci rendono umiliati e offesi: il rovesciamento di questo presente è una necessità urgente e reale, e porsene la questione richiede parresia sia verso sé stessi sia verso l'esterno.

Urge deragliare da binari mentali inefficaci quanto dare forza agli strumenti migliori, di pratica e di pensiero, che una storia lunga ci offre.

Tra questi ultimi, ripartire sempre dal basso, camminare domandando, affondare le radici nei territori e nell'umano dove i nostri corpi e le nostre vite stanno, sono le attitudini che rimangono fondanti dei nostri percorsi.Così come la tensione ad andare oltre, a non chiuderci in orizzonti piccoli ma cercare pensieri grandi.Ci serve una nuova visione del mondo, collettiva, moltitudinaria e multipolare per attraversare il deserto di Nessuna Alternativa.

Né i granelli di sabbia né i singoli percorsi di lotta hanno mostrato di riuscire ad aprire brecce, mentre la potenza del controllo sulla vita individuale e collettiva ha raggiunto intensità inedite.

Altrettanto, la sovranità delle istituzioni della democrazia sullo stato delle cose è stata svuotata da un meccanismo cumulativo di “smateralizzazione” del potere costituente e normativo che risiede oggi in “nonluoghi” che sono esplicitamente altrove rispetto a quella stessa democrazia (nonluoghi che sono, per esemplificare con un po' di semplificazione, le “leggi” dei mercati finanziari – “there is no alternative” – e le istituzioni che se ne fanno garanti, come le banche centrali o la Commissione Europea).Cio è avvenuto perché al logòs dell'ordoliberismo è riconosciuto un carattere necessario ed ineludibile, senza alcuno spazio di crescita, libertà e sperimentazione a nessuna alternativa né sistemica né, in primis, locale e comunitaria.

Per questo, come è stato giustamente ricordato, l'accesso al potere istituente è oggi in sé, e ancor più per sé, del tutto insufficiente.

Tuttavia è anche vero che, lo sappiamo bene, tutto ciò non è niente altro che una “narrazione” e non vi è nulla di necessario né di ineludibile nell'ordoliberismo.

Anzi: nella sua materialità esso esiste – è istituito – per legge.

Il capitalismo, come processo storico incrementale di commodification e relazioni di mercato, esiste per legge. È per legge che subiamo dominio, asservimento e sfruttamento (..ad esempio attraverso il JobsAct), così come è per legge che i beni comuni non sono tali nella loro costituzione materiale. Eccetera.

Qui sta il motivo fondamentale, per quanto ovvio, della potenza perturbativa di Syriza, provata dall'inquietudine dei mercati finanziari.

Il fatto che per legge il lògos della trama sociale ed il suo nòmos (cioè la sua ecologia e la sua economia) possono davvero non essere quelli che vogliamo rovesciare:per legge si può non pagare il debito, si può non essere dominati, asserviti, sfruttati, si possono ri-costituire i beni comuni nel loro essere pratica di égalitè, libertè, fraternitè. Eccetera.

E quindi, va da sé, è ormai necessario e inevitabile porsi il problema di dire con potenza normativa che non accettiamo più di essere umiliati e offesi.Per questo, è necessario che chi lo afferma abbia il potere di governo e di istituzione, ovvero vinca le elezioni, ovvero: che una coalizione sociale vinca le elezioni ed eserciti il potere necessario.

Tuttavia l'istituzionalità in sé non è sufficiente ad aprire spazi politici di conflitto per scardinare la “presa” dell'ordoliberismo senza frangersi sugli scogli della costituzione materiale del presente, ovvero della capacità di ricatto, ad esempio della troika, con cui governi e parlamenti sono costretti a obbedire o perire.

Il prodromo necessario è il dispiegarsi nel corpo sociale di una potenza radicalmente (ri)costituente, capace non solo di praticare di fatto e per diritto sociale l'esodo dal presente ma, prima ancora, di immaginarlo, di costituirlo come processo collettivo le cui radici stanno nei conflitti, nelle comunità e nei territori. Oseremmo dire: nell'umano.

Perché, siamo d'accordo, non c'è un paradiso verso cui andare ma è l'andare, per le relazioni e le condizioni stesse che produce, ciò che è esodo e diritto e su cui possiamo e dobbiamo esercitare sovranità.

Vediamo quindi anche noi tre caveat.

Il primo: che la natura complessiva e globale del capitalismo finanziario richiede (almeno) una qualche sincronia a livello Europeo.

Il secondo: che, come è stato detto, questo percorso è interessante e solamente possibile non come “evento miracoloso [..] ma come esito di un processo di durata più lunga, che trae solidità, capacità di sedimentare, nei percorsi di resistenza che da anni le donne e gli uomini [..] hanno saputo costruire”.

Il primo caveat ci rimanda immediatamente al secondo. Da una parte perché non ci interessano le sincronie separate e aliene di partiti, che peraltro hanno ampiamente dimostrato inadeguatezza da ogni punto di vista.Dall'altra perché siamo convinti che solo la potenza (ri)costituente dei corpi sociali, dei movimenti moltitudinari, possa innescare e sostenere un meccanismo virtuoso di esodo.

Anzi, e questo è il terzo caveat, che quella potenza in pratica, impaziente, mai istituita, motore di autonomia, sia l'esodo. Che il necessario ”esercizio del potere” sia il liberare lo spazio per una potenza sociale libera di istituire la ricchezza del possibile e non sia ordinare un altro spazio sopra a quella potenza. In sostanza: prendere e usare il potere istituente per liberare il potere costituente.

È bene riconoscerlo con franchezza: si tratta di un terreno di contraddizioni, di tensioni il cui vettore risultante non è determinato sin da ora per un calcolo che possiamo scrivere fra noi ma dai percorsi che sapremo agire pragmaticamente. A partire, certamente, dai conflitti e dalle lotte esistenti ma pronti con semplicità e umiltà ad attraversare e ibridarci con i percorsi che milioni di diversi da noi intraprenderanno, “come parte delle comunità che pagano la crisi e che però resistono”.

È necessario prendere atto con franchezza che i percorsi esistenti, alla verifica materiale di ciò che ottengono, sono spesso inadeguati, deboli e frammentati. E che le pratiche che dispieghiamo, spesso come coazioni a ripetere e riflessi quasi pavloviani, dimostrano complessivamente da troppo tempo impotenza.Lo diciamo con grandissima umiltà e contemporaneamente con il grandissimo orgoglio di continuare a spingere ogni giorno con migliaia di fratelli e sorelle ovunque, di aver preso parte, e di continuare a farlo, sino in fondo ai conflitti degli ultimi anni, alcuni dei quali hanno ottenuto vittorie significative e non solo simboliche.

Tuttavia, c'è una pericolosa discrasia tra l'enfasi con cui comunichiamo e la realtà di ciò che otteniamo o che semplicemente possiamo osare, con la sua fatica e il rischio di restare confinati in riserve indiane decimate dalla repressione sia poliziesca sia giudiziaria che subiamo.

Tutto ciò contribuisce a una mancanza di “presa” sui corpi sociali con cui interagiamo.

E, aggiungiamo, forse anche a una incapacità di rigenerarsi e ricostituirsi motori di potenza all'altezza delle sfide (ad esempio le linee di composizione intorno al tema del biocidio così come si dà nel Sud ci sembrano segnare una discontinuità notevole e alla quale guardiamo con ammirazione e interesse).

Se nel 2002 il NYT poteva chiamare il movimento no-global contro la guerra in Iraq “la seconda potenza mondiale”, oggi dobbiamo riconoscere l'ovvio: che in questa partita non c'è un podio e nemmeno il premio di consolazione.

Vince solo il primo, e vince tutto.

La potenza di quella seconda potenza mondiale non ha potuto impedire, e nemmeno vagamente ostacolare, il sorgere di una guerra continua come principale strumento ordinativo delle geometrie globali che, oramai, per dispiegarsi non ha nemmeno bisogno di costruire artatamente le prove di smoking gun.Né è riuscito ad opporsi al ripiegarsi di quella stessa guerra in securitarismo interno attraverso dispositivi polizieschi di carattere militare, sino allo scherno di Obama che, nell'annunciare la morte del feticcio Bin Laden, diceva “ora siamo più sicuri e quindi ancora più in pericolo poiché i cattivi si vorranno vendicare per questo”.

Il prezzo di ciò è che subiamo un controllo di spaventosa potenza sulle nostre vite ma anche sull'intensità delle pratiche di conflitto, che hanno subito un rinculo che non avremmo mai ritenuto possibile.

È su questa linea di ultima difesa, quella del corpo soggetto all'umiliazione dell'arbitraria brutalità poliziesca, che leggiamo quelle parole di Frantz Fanon, “quando ci rivoltiamo è perché per molteplici ragioni non possiamo semplicemente più respirare” che hanno ispirato il recente ciclo di piazza negli USA: #wecantbreathe.

Non possiamo respirare, come Aldrovandi, Cucchi, Rasman, troppi altri nelle carceri e nelle strade di tutto il mondo.

Furono scritte in francese, la lingua di chi, Parigino a Parigi, umiliato e offeso doppiamente dalla condizione di vita e dalla memoria coloniale ereditata sulla pelle, ha sentito il richiamo folle di un'idea di “purezza” che gli offre una révanche personale molto prima che politica.

Quattordici anni dopo Genova, questa non è una linea avanzata.Dobbiamo dircelo con brutale franchezza, perché solo partendo da dove si è si può andare oltre con una determinazione seconda solo all'umiltà.E “oltre” non possiamo, né vogliamo, andarci da soli.

Abbiamo bisogno di respirare, di nutrirci di pensieri grandi ma non illusori, di camminare sulla terra ma volando alto. 

Diciamolo chiaro. Syriza e Podemos hanno, insieme alle inevitabili contraddizioni dei processi reali, i tratti positivi, e anche entusiasmanti, che sono stati già descritti da altri interventi; è ancora da dimostrare che quei tratti si traducano immediatamente in una spirale ascendente; è contemporaneamente impossibile sedersi e stare a guardare, soprattutto quando ci pensiamo consapevoli della necessità di una sincronia sulla dimensione Europea, aspettando magari di veder passare i cadaveri per ricavarne la miserabile soddisfazione di perire per secondi.

È come per la fisica quantistica: l'osservazione asettica è comunque impossibile, esiste solo l'interazione.

Da una parte, lo ammettiamo, ci è difficile individuare qui ed ora dei soggetti che anche abbiano solo le caratteristiche, le potenzialità o la dignità di Syriza e Podemos.

Dall'altra, ammettiamo pure questo, ci è difficile pensare che questi soggetti nascano per generazione spontanea e casuale come la vita da un brodino primordiale, così come non è stato in Grecia e in Spagna.

Lo diciamo a partire dalla nostra vocazione e posizione di movimenti sociali, nei percorsi materiali e nei conflitti, nelle relazioni che intrecciamo sui territori o sul piano Europeo, ma con la volontà di non voler far di questo una gabbia bensì una ricchezza, di generare insieme ad altri “nuove eresie, di uscire da quei ruoli predeterminati”.

In tutta Europa, e tanto più in Italia, fascismi e razzismi dalle diverse sfumature di un unico colore osceno rialzano la testa e prendono voce cercando di trovare una coralità, diventando sempre più pericolosi non solo per la distopia che provocano nel discorso pubblico ma anche su un piano più immediatamente fisico.

Intanto, però tutti noi incontriamo ogni giorni migliaia di altri che sono un caleidoscopio di pentole a pressione, laghi di benzina, fuochi di artificio, voglia di spingere e cuori feriti e rattoppati di mille passioni: spesso non siamo né gli unici né i migliori, quasi mai le due cose insieme.

La nostra urgenza è di tramare con migliaia e migliaia di altri e di costruire con-senso: che non significa difendere la propria piccola ragione ma un nuovo senso comune del mondo, significa creare insieme nuove visioni per avanzare anziché arroccarsi sull'ultima linea rimasta prima del deserto, perché abbiamo bisogno di fuoco per l'anima quanto di pragmatica concretezza delle pratiche.

Vogliamo respirare forte, non più, faticosamente, da umiliati e offesi.

Casa delle Culture Occupata, Trieste