Di Cop21 abbia già scritto in tante occasioni. Così come in tante occasioni abbiamo sottolineato l’ipocrisia di un premier come il nostro Matteo Renzi che dinanzi alla platea parigina si spertica in lodi sui progressi fatti dal nostro Paese verso una politica energetica basata sulle rinnovabili, salvo poi tornare a Roma per inserire nello Sblocca Italia tutti gli emendamenti volti a favorire gli amici petrolieri ed atti a consentire alle compagnie di trar profitto, inquinando, sin dentro ai parchi naturali, come quello del Pollino. Eppure, che il petrolio e le energie fossili non abbiano un futuro, è stato ampiamente ribadito alla conferenza sui cambiamenti climatici. Che l’economia debba abbandonare lo sfruttamento di risorse inquinanti e, per di più, in via di esaurimento è un impegno che tutti i Governi mondiali, sia pure con vari distinguo, si sono assunti. Compreso quello italiano che ora ci racconta che non serve andare a votare al referendum sulle trivelle e che il nostro futuro energetico è ancora basato sul petrolio.
Il problema sta tutto nel fatto che l’oro nero non inquina solo
l’ambiente ma la stessa democrazia. E’ appena il caso di ricordare come
proprio il petrolio sia stato, ed è tutt’ora, un formidabile veicolo di
corruzione in tutta la terra. Non ultimi, i Paesi del sud del mondo dove
le briciole di bilancio di una qualsiasi compagnia petrolifera sono
sufficienti per comperarsi l’intero Governo, con apparato burocratico in
gentile omaggio.
Global Witness, una bene informata associazione internazionale che
monitora i legami tra povertà, corruzione, violazione dei diritti umani e
sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi meno industrializzati, ha
identificato nel petrolio e, in generale, nelle risorse minerarie il
settore di maggior rischio di corruzione. Su 427 casi “ufficiali”
monitorati nel 2014, il 20% di questi è imputabile al settore
estrattivo.
Un effetto dovuto alla sproporzione tra la debolezza economica del
tessuto sociale del Paese sfruttato e i profitti miliardari delle
compagnie, certo. Ma il petrolio è anche causa di questa sproporzione
perché alimenta regimi corrotti e totalitari, fomenta sanguinose guerre e
trova nella diseguaglianza e nelle ingiustizie sociali un fertile
concime sul quale prosperare.
Pensiamo solo alla Nigeria dove il settore petrolifero rappresenta il
14,4 % del pil. Il recente scandalo che ha coinvolto l’Eni e alcune sue
associate come la Saipen ha portato al sequestro di oltre 200 milioni di
dollari in conti svizzeri di presunta corruzione per le concessioni di
sfruttamento dei giacimenti marini.
Nell’interessante dossier di Legambiente “Sporco petrolio”, la situazione viene egregiamente riassunta con questa parole. “La corruzione è un micidiale strumento per aggirare leggi e processi democratici, per spostare ingenti risorse economiche in capo a pochi soggetti in grado di organizzare e gestire reti di corruttele e malaffare, per drenare a costi irrisori risorse pubbliche alle comunità locali, lasciando sul posto solo una lunga scia di problemi ambientali”.
E questo non vale solo per la Nigeria e per gli altri bacini del sud
dove si estrae l’oro nero, come l’Amazzonia, ma anche per Paesi
industrializzati come la nostra povera Italia. Anche solo considerando
gli scandali petrolifici degli ultimi due anni, tra manager, funzionari
pubblici e “amici di amici” sono stati indagati e, in alcuni casi, già
condannati, ben 189 persone per reati che spaziano dall’inquinamento
alla corruzione, dalle frodi fiscali alle truffe.
Il caso della Tempa Rossa è solo l’ultimo di un lungo elenco che, facciamo una facile previsione, è tutt’altro che concluso.
Il petrolio, in altre parole, potrebbe ben essere annoverato
nell’elenco delle tante Grandi Opere che ammorbano il nostro Paese, pur
se con una valenza più internazionale. Ogni tanto, la magistratura mette
le manette a qualche alto dirigente e tutti a gridare allo scandalo
della “male marcia” infiltrata – chissà come? – in un sistema produttivo
che si continua a definire immacolato. Poi tutto continua come prima
sino al prossimo scandalo.
Il punto della questione invece, sta nel fatto che il sistema petrolio
continua a funzionare ed a macinare profitto privato solo se assieme
all’oro nero produce anche corruzione, devastazione ambientale,
disuguaglianza sociale, criminalità organizzata e impoverimento della
democrazia. Senza queste situazioni a contorno, il gioco non vale la
candela.
Solo in termini di emissioni di C02 – e senza considerare sversamenti eccezionali o anche i “normali” danni all’ambiente che sono impliciti nell’attività estrattiva e che i petrolieri non pagano mai -, un barile di petrolio ha un costo di circa 100 dollari. Se consideriamo che, pur tra altalenanti fluttuazioni, il prezzo del petrolio si aggira sui 30 dollari a barile, è chiaro che questa differenza o la paga lo Stato, oppure l’investitore gioca in perdita.
Una corruzione diffusa a tutti i livelli ed un controllo totalitario
sull’opinione pubblica sono elementi senza i quali il sistema petrolio
non potrebbe funzionare. A questo punto viene solo da chiedersi coma mai
qualcuno si stupisca ancora che l’economia fossile è andata in crisi
nera.
Quel che le trivelle estraggono dai giacimenti in fondo al mare, in
altre parole, non devasta solo l’ambiente ma anche la nostra democrazia.
*** Riccardo Bottazzo, giornalista professionista di Venezia. Si occupa principalmente di tematiche ambientali e sociali. Ha lavorato per i quotidiani del Gruppo Espresso, il settimanale Carta e il quotidiano Terra. Per questi editori, ha scritto alcuni libri tra i quali ”Caccia sporca“, “Il parco che verrà”, “Liberalaparola”, “Il porto dei destini sospesi”, “Cemento Arricchito”. Collabora a varie testate giornalistiche come Manifesto, Query, FrontiereNews, e con la campagna LasciateCiEntrare. Cura la rubrica “Voci dal sud” sul sito Meeting Pot ed è direttore di EcoMagazine.