Non c’e molto da obiettare al fatto che
il capitalismo, ovunque ha dispiegato megalomanie produttive, ha sempre
lasciato dietro di se’ l’odore acre della morte e della devastazione
ambientale. Questo semplice dato quasi statistico potrebbe bastare da
solo a dimostrare l’insostenibilita’ del suo funzionamento per tutti
quegli uomini e quelle donne del pianeta, che non giovano dei profitti
illimitati derivanti dal cinismo predatorio, e che ne subiscono
quotidianamente l’ingiustizia e la disumanità. Tutti i mantra del
capitale vengono quotidianamente messi a nudo dal cancro, dai suicidi
degli indebitati, dal dispiegamento inarrestabile di una società che se
non si autorganizza non esiste, semplicemente non esiste. Produzione e
crescita, le due facce complementari e indivisibili dei discorsi
pubblici dei volti incarnati del potere delle governance, assumono i
tratti della mistica, rassicurazione irrazionale in una sorta di
terrena resurrezione attesa fideisticamente, la cui realtà dipende solo
dal rinnovo costante di questo atto di fede.
Ma gli atti di fede resistono poco
quando il re, ormai nudo, si imbriglia nella sua contraddizione piu’
grande: quando appare troppo evidente quella complicita’ indissolubile
tra produrre e morire, e quando questo morire assume il carattere di una
strage, di un enorme reato si produzione che ha dalla sua
migliaia di cartelle cliniche e di decessi “inspiegabilmente” prossimi
ai luoghi di quella megalomania assassina. Taranto
racconta questo smascheramento troppo bene, motivo per cui la sua
vicenda cosi drammatica e paradigmatica non puo’ essere lasciata in
pasto alla vocazione semplificazionista della nostro discorso
main stream, oppure del solo conflitto tra magistratura, padronato e
stato. E’ ovvio che la questione tarantina e’ questione di cittadinanza,
ed e’ soprattutto questione post-coloniale. Fuor di retorica,
l’irruzione dell’ape car con al seguito quei cittadini e quelle
cittadine ” libere e pensanti” nella piazza sindacale del luglio scorso e
l’interruzione del comizio della FIOM ( una Fiom miope e lavorista per
autistica vocazione autoconservativa) e’ un gesto di una forza politica
incredibile, un gesto che segna l’inizio di un processo di inversione
inarrestabile dei soggetti protagonisti del conflitto. Qualcuno, come la
solita Repubblica, ha provato a descrivere quel comitato, da subito
partecipatissimo ed eterogeneo, come una sorta di club di supporters
della Todisco. Non ha retto, e immediatamente quella straordinaria
esperienza ha espresso contenuti e rivendicazioni eccedenti
l’applicazione stessa dei codici giuridici della magistratura. La
questione e’ diventata immediatamente un’altra, molto piu’ seria: la
piccola citta’ stretta nella morsa di un’acciaieria che la supera di due
volte e mezzo, non vuole piu’ sottostare al ricatto terribile tra
cancro e lavoro, lavoro peraltro disumano, sottopagato e pericoloso. La
piccola città, circondata da tutti gli stabilimenti più inquinanti che
questo modello di produzione si e’ inventato, si indaga e scopre
innanzitutto di essere molto di piu’ di un esercito si reclutamento di
corpi da infilare nella filiera produttiva dell’acciaieria più grande
d’Europa. E’ una nuova carta dei diritti che i cittadini liberi e pensanti scrivono
per loro stessi. E’ una nuova pratica di cittadinanza , che trasforma
la citta’ in cui si e’ esercitato per sessant’anni il peggior
decisionismo politico,la città dei record della mala-politica, in un’
assemblea democratica costituente a cielo aperto, che si impone come
interlocutore in azione permanente a quella tavola imbandita a cui sono
da sempre seduti Riva,lo Stato, i sindacati, la politica locale. In
pochi mesi il comitato e’ stato in grado di organizzare un corteo come
quello di sabato scorso, un corteo in cui il gioco dei numeri lascia
solo il posto alla straordinaria composizione: studenti e studentesse
tanti e determinati, capaci di sfidare e sottrarsi alla loro fetta di
esercizio autoritario ( quella di professori e presidi che hanno provato
a impedire con ogni mezzo la partecipazione alla giornata a suon di
provvedimenti disciplinari e compiti in classe d’occasione), comitati di
tutto l’altro sud massacrato da fabbriche, discariche, inceneritori,
abitanti dei quartieri che affacciano quasi dentro la fabbrica (
quartieri in cui senza vergogna c’e’ per i bambini il divieto di
giocare all’aperto a causa dell’ altissimo tasso di diossine), i tifosi,
i lavoratori e le lavoratrici, straordinariamente pure dell’Ilva. Il
corteo passa per Tamburi, la gente si affaccia, i negozi abbassano le
serrande in solidarietà a chi sta lottando per tutti, per la prima volta
senza difendere la parzialita’ di un interesse. L’ape car apre la
strada e dietro si grida e si canta per quelle strade che hanno
conosciuto solo la poverta’, lo squallore, il ricatto senza alternativa e
troppi drammi e lutti colpevolmente individuali, cancellati da dati
truccati per nascondere gli incrementi esponenziali delle malattie
tumorali. Dalla cassa parlano in tanti e sanno bene cosa chiedere, come
non farsi cogliere in contropiede sull’annosa questione
‘disoccupazione’. Appellano lo stato con i nomi che più merita,
colpevole di una strage ‘senza reato’, e pretendono che oggi si assuma
straordinariamente la continuità di reddito per chi lavora nella
fabbrica della morte. E’ un risarcimento minimo al cospetto di quello
che dovrebbe a quella città. Taranto e’ di fatti oggi una bellissima
storia post-coloniale, che sta provando a trasformare la subalternità
studiata con meticolosità da poteri del nord, in una spinta
incontenibile al protagonismo. Non e’ una battaglia da poco, e’ in gioco
molto di più della sua stessa storia, e’ in gioco un modello di rivolta
che ri-individua il nemico stanandone la parzialità compromessa,anche
quando questo nemico e stato ‘ l’avanzatissima Fiom di Landini, che oggi
torna sui suoi passi e rivede le ottuse posizioni estive. E’ in gioco
il portato ideologico della sinistra di questo paese, il campo delle sue
battaglie di facciata e delle sue sconfitte storiche: il modello di
sviluppo di tanti territori meridionali è certamente una di queste. E’
una battaglia che ha gia’ deflagrato le pareti della societa’ civile e
della retorica del nesso di casualità tra istruzione e partecipazione. A
Taranto non c’e'l’ università, e come in tutto il sud, l’educazione
vive delle contraddizioni che comporta la povertà e l’ assenza di
reddito, eppure questo non ha impedito ai cittadini e alle cittadine di
riprendersi la sovranità decisionale sottrattagli negli anni. A Taranto
oggi l’ape car e’ il nuovo vero veicolo di cittadinanza, non formale ma
viva e attiva. L’esperienza che il suo passaggio lento veicola scrive
una nuova storia dei subalterni, finalmente spoglia di quei caratteri
elegiaci della povertà e del ruralismo.