«Perchè voteremo no e scenderemo in piazza» pt. 3 - Autoritarismo e Titolo V

7 / 11 / 2016

Prima di entrare nel merito delle modifiche al Titolo V implicate dalla revisione costituzionale, è urgente fare una premessa a seguito degli ultimi avvenimenti politici. Se qualcuno aveva bisogno di ulteriori conferme rispetto al concetto di democrazia che hanno in mente Renzi e l’apparato del PD, la manifestazione di sabato a Firenze non lascia alcun dubbio in proposito, anzi: rappresenta in tutto e per tutto uno spoiler della stretta degli spazi di democrazia prevista dalla riforma costituzionale. Ciò che si è visto in piazza San Marco e per le vie del centro fiorentino è stata la violenza delle legalità e dell’autorità, tra di loro intimamente connesse. Basta citare il sindaco PD Nardella sugli scontri di sabato per capirlo: “fatto inaccettabile e vergognoso, si può manifestare liberamente e dire la propria e dire no […] ma non si può ricorrere alla violenza”. Nell’intraprendere il perverso gioco per cui la violenza non appartiene mai alle forze di polizia che hanno caricato, lanciato sassi e aggredito ripetutamente il corteo, Nardella si dimentica che a Firenze non è stato possibile manifestare liberamente. Il corteo era stato vietato 24 ore prima dalla Questura con la scusa che alla Leopolda ci fossero troppi esponenti di spicco della politica nazionale schierati per il Sì. Tradotto: il Sì non si contesta, non può essere toccato dal dissenso. La città, quando ospita il quartier generale del renzismo, diventa proprietà privata del governo. E si manifesta solo se il quartier generale stesso ritiene che si possa farlo, altrimenti manifesti illegalmente e illegittimamente. Era dal 1977 che non veniva vietata una manifestazione, e sappiamo benissimo quale fosse il clima imposto dallo Stato durante quegli anni per contrastare la forza dei movimenti sociali.

Firenze è stata tenuta in scacco dall’ortodossia renziana e dalla ragion di Stato, dando delle avvisaglie su cosa si intenda per confronto democratico: quello in cui una o più parti in causa possono essere silenziate e messe ai margini dalla grande disponibilità di mezzi, strumenti e potere che ha la forza maggiore. In piazza si manganella e si vietano le manifestazioni, nel Parlamento del Sì l’asse esecutivo-legislativo egemonizzerà senza problemi la decisione per la stesura delle nuove leggi e per la trasformazione dei decreti in legge. Un’egemonia parlamentare ed una continua dimostrazione di potere che potranno intervenire non solo nelle questioni competenti dello Stato.

Nell’ultima parte della proposta di riforma l’obiettivo è la soppressione delle competenze concorrenti tra Stato ed enti locali, le Regioni ed i Comuni. Il testo abolisce definitivamente le Province e toglie la dicitura dalla Carta, prevista dall’articolo 117, in cui si parla di competenze concorrenti tra le istituzioni pubbliche, sostituendola con la “competenza esclusiva”. Ora, se questa modifica potrebbe indurre a pensare che il baricentro decisionale si sposti molto di più verso le istituzioni di prossimità, in realtà avviene proprio il contrario: nella riforma sono elencate le varie competenze esclusive che saranno sotto la giurisdizione statale e da cui gli enti locali sono esclusi. Quali sono queste competenze? Anche solo elencandole non è difficile scorgere la continuità tra riforma costituzionale ed i principali provvedimenti presi da questo governo, come ad esempio lo Sblocca-Italia. Come, del resto, tutti hanno notato il legame tra riforma e l’Italicum.

Ad entrare sotto l’esclusiva decisionalità dello Stato saranno le politiche occupazionali, la promozione della concorrenza economica e l’installazione delle infrastrutture strategiche, le quali comprendono i trasporti, la tutela ambientale e la produzione energetica. Ovvero, tutte quelle grandi opere che vengono applicate sorpassando la volontà dei cittadini, organizzati nei comitati e in alcuni casi dei Comuni e delle Regioni. Con la scusa dell’ “interesse strategico” lo Stato è arrivato a far procedere manu militari la costruzione dei cantieri, come dimostra lo scempio valsusino del Tav, da anni completamente militarizzato. All’interno del medesimo interesse dovrebbero ricadere quelle opere discusse e osteggiate che prevedono le trivellazioni in mare per estrarre idrocarburi, inceneritori diffusi nel territorio, mezzi che dovrebbero incentivare l’economia di un territorio (ad esempio, le grandi navi, che godono di una legislazione precisa). Non possiamo di certo dimenticare che su queste opere, grazie allo Sblocca-Italia, sono già stati stanziati più di 3.851 milioni di euro. Chi dissente sul metodo dell’applicazione di tali opere e sul merito, in caso di vittoria del Sì, può lasciare a casa la sua opposizione perché comunque sarà lo Stato a decidere, sorvolando sulle questioni climatico-ambientali, nonché sul problema degli espropri e dell’impatto economico-sociale che le costruzioni avranno nei territori.

La modifica del Titolo V, infatti, prevede la cosiddetta clausola di supremazia: lo Stato può intervenire anche in ambiti non direttamente competenti, se ritiene che si stia discutendo di un suo interesse specifico. Inoltre, può molto più facilmente commissariare ed esautorare gli enti locali, nel caso rilevi un “dissesto” economico e/o politico. Certo, la riforma prevede anche che un’istituzione locale possa richiedere autonomia e delega su materie specifiche; ma per accedere a questa richiesta deve dimostrare di avere tutti gli indicatori della spesa di bilancio equilibrati. Svolgendo il ragionamento, gli enti locali devono dimostrare di sottostare al patto di stabilità e di trasmettere sul territorio i diktat europei del pareggio di bilancio, per essere meritevoli di autonomia. Quindi devono provvedere a priori all’esternalizzazione dei servizi e alla riduzione del welfare cittadino per poi, nel caso, domandare possibilità di intervento autonomo.

L’ideologia che muove la riforma del rapporto tra tutte le istituzioni di cui si compone la Repubblica promuove una centralizzazione della decisione niente affatto inedita. Lo spettro del ritorno della sovranità statale, che si esprime con un rafforzamento degli esecutivi o delle presidenze di Stato, non è mai del tutto scomparso anche all’interno dei complessi meccanismi e interrelazioni della governance, soprattutto in Europa. La stessa ragion di Stato è compatibile e complementare all’esecuzione di un comando politico che trova la sua determinazione in altre dimensioni e su altri livelli che non siano quello della sovranità latu sensu. E’ indubbio che alcune competenze e giurisdizioni, come le politiche migratorie e il controllo della forza pubblica, siano sempre rimaste nelle mani degli Stati-nazione. Questo ha prodotto non pochi cortocircuiti, sia sul piano giuridico-istituzionale che politico, tra la sovranità statuale e la governance neoliberale rispetto, ad esempio, alla circolazione della forza-lavoro migrante in Europa. Eppure, proprio perché la prassi governamentale è un vettore tra diverse forze in campo, ognuna con un peso specifico diverso, il divenire dello Stato si afferma nel compito di denotare con l’autorità le decisioni, che non hanno più bisogno del tradizionale “consenso democratico” per essere sostenute. Un’autorità legale che si determina per esclusione, definendo illegittime tutte le spinte centrifughe dalla sua decisione, come in misura diversa possono rappresentare i movimenti, le realtà sociali, e gli enti di prossimità. E le sanziona, le limita e le comprime per ridare un senso di unità.

Lo spostamento del baricentro verso lo Stato è il culmine della parabola renziana e delle trasformazioni del suo partito. Come ricordava il lucidissimo Luciano Ferrari Bravo nel suo testo Costituzione e movimenti sociali[1], redatto nel contesto del dibattito sul Mattarellum, ogni intervento istituzionale sulla forma delle democrazia rappresentativa non può fare i conti soltanto con le tipologie (democrazia parlamentare, presidenziale) o con il principio di elezione (maggioritario, del consenso, ecc), ma anche con i mutamenti interni delle forze politiche che lo propongono. La revisione renziana della Costituzione riflette le trasformazioni reazionarie della forma-partito; una trasformazione organizzativa che si è distaccata completamente dal radicamento territoriale e dal rapporto con la massa. In questo senso, come dicevamo, va letta la riforma unita alla legge elettorale, per la quale viene elargito un lauto premio di maggioranza alla prima forza politica, che ha bisogno di avere abbastanza autorità e potere nonostante non goda della maggioranza relativa del consenso. La centralizzazione del potere implementa questa tendenza perché permette al partito di mantenere l’unità e l’autorità della decisione nei confronti dei dissidi interni, quali potrebbero esserci in alcune istituzioni guidata da altre frange dello stesso partito, e dell’opposizione politica. Dunque, la centralizzazione e lo spostamento del baricentro politico sull’esecutivo agiscono simultaneamente sui governati, superando il nodo problematico tra partito e massa, e sugli altri partiti, garantendo la stabilità e l’esercizio del comando. Parallelamente ai due dispositivi rimane il movente legato all’istinto di sopravvivenza dei partiti tradizionali, che vogliono garantirsi l’alternanza al governo perimetrando la democrazia unicamente in questa dinamica.

Del resto, il Sì al referendum raffigura e traduce formalmente tutto il carattere neo-cesarista renziano. Riprendendo le parole di Gramsci, possiamo vedere nell’ascesa di Renzi quella personalità forte che genera unità a fronte di una frammentazione (tra centro-destra e centro-sinistra, all’interno del partito), con l’intento di ristabilire i nessi tra potere politico e popolo su altre basi rispetto a quelle tradizionali. Il novello Cesare fiorentino ha rotto con la dialettica democratica che porta a mediare, a negoziare con le istanze che sorgono dal basso oppure nelle dimensioni istituzionali e/o della società civile. La ricerca del consenso si compie sulla “passivizzazione della massa” e non sull’attività di questa che deve esprimere liberamente il proprio attaccamento al programma politico del partito.

Insomma, la contro-rivoluzione del Partito Democratico rispecchia le tendenze e le dinamiche materiali che investono la forma-partito ed il meccanismo del processo di decision making contemporaneo. Non ci sarà da stupirsi se l’eliminazione delle competenze concorrenti dalla Carta del ’48 siano a favore dell’intervento statale, completamente concordante con ciò che viene stabilito dai mercati finanziari, dalle oligarchie europee e dalle istituzioni globali. L’ “interesse strategico” dello Stato si rivela per quel che è: l’interesse particolare per una parzialità, minoritaria, della società, per una classe che vuole mantenere la propria egemonia e la consequenzialità tra i suoi bisogni e le decisioni politiche. Non è quello che rappresentano, meglio di qualsiasi altra cosa, le grandi opere?

Ciononostante, lascio a qualcun altro la nostalgia ideologica per lo svuotamento degli enti locali, perché sappiamo benissimo come siano molto spesso abitati da soggetti altrettanto asserviti alle logiche della rendita capitalistica a scapito del lavoro vivo e della cooperazione; basta rivolgere il pensiero ai governatori di alcune Regioni come Zaia, De Luca, Maroni, ecc… I nodi salienti della questione sono due. Da una parte, c’è la comprensione del perché ci sia uno svuotamento di potere per gli enti locali a favore delle élites di partito, dei suoi quadri e della sua dirigenza, nonché dei potentati finanziari e delle grandi aziende. Dall’altra parte, non possiamo tralasciare il potenziale dei movimenti sociali e la loro capacità di conflitto quando si rivolgono agli enti locali. In alcuni casi, infatti, la dialettica tra le lotte e l’ampliamento dei diritti trova terreno più fertile nello scontro con le amministrazioni locali, sebbene il loro ruolo e il loro potere sia stato molto ridimensionato con il Patto di stabilità (in questo senso, dicevo, che la riforma costituzionale formalizza un processo già in atto da anni). Dall’altro lato, bisogna contare alcune delle esperienze che, sulla spinta dei movimenti e sulla soggettivazione della cittadinanza, stanno sperimentando nuove modalità della decisione utilizzando a proprio vantaggio le aperture e gli spazi opportuni aperti dalle amministrazioni, nella fattispecie a Napoli. L’attacco all’autonomia degli enti locali è una stoccata che Renzi muove per timore che altre grandi città possano intrattenere uno scontro frontale con il governo in virtù di una maggiore autonomia e spinta democratica.

C’è quindi un grande parallelismo tra l’azione repressiva del dissenso e il progetto di centralizzazione istituzionale della decisione. Renzi ne ha fatto le prove generali in alcune città, in cui gli spazi di agibilità politica dal basso sono estremamente ristretti come a Bologna e a Roma, e le ha ripetute a ridosso del voto sabato a Firenze. Contrastare una tale tendenza con determinazione, restituendo alla parola democrazia la pratica del dissenso e del conflitto che le pertiene, non si può disgiungere dal votare NO il 4 dicembre. Un filo rosso lega l’affermazione dal basso della democrazia e del dissenso di Firenze al 27 novembre romano.

Perché questa tendenza è già in atto senza aspettare la riforma costituzionale, perché la democrazia è uno spazio di continua conquista dei molti che non si può mai del tutto fissare in un testo. In poche parole: l’esatto contrario di chi continua ad associarla all’autorità, all’unità, all’omogeneità della decisione.

PS Durante le cariche della polizia al corteo che contestava la Leopolda del Sì, Francesco è stato fermato e tradotto in Questura per aver partecipato alla manifestazione. Di fronte all’ennesima repressione del dissenso e al tentativo di intimidazione, c’è soltanto una soluzione accettabile: la libertà immediata per Francesco.



[1] L. Ferrari Bravo, Costituzione e movimenti sociali, Global edizioni, 2010