Prefazione a Spazio e politica. Il diritto alla città II di Henri Lefebvre

27 / 2 / 2018

In questa nuova uscita della rubrica pubblichiamo volentieri la prefazione, scritta dall'assegnista di ricerca presso l'Istituto Italiano per Studi Filosofici di Napoli Francesco Biagi, al secondo volume de Il diritto alla città di Henri Lefebvre, edito per Ombrecorte (2018) ed uscito in libreria a inizio febbraio. Il pensiero di Lefebvre e la contestualizzazione che ne fa Biagi costituiscono degli sguardi imprescindibili per capire molti dei meccanismi di valorizzazione che subiscono gli spazi urbani, con le conseguenti esclusioni, inclusioni differenziali e distribuzioni della popolazione su linee di classe ed etniche, sempre di più allontanate dalla centralità della città. Nell'epoca del securitarismo e delle città-brand del turismo, conoscere il diritto alla città diviene essenziale per una rivendicazione di spazi (urbani, simbolici e politici) funzionale alla trasformazione delle comunità politiche nel segno di una democrazia radicale e inclusiva. 

Per il libro: Ombrecorte

Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’“haut-lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli “altri”; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi degli attacchi […]. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.

Furio Jesi, Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, in Il tempo della festa

1. Henri Lefebvre (Hagetmau 1901 - Navarrenx 1991) è stato un filosofo e sociologo dell’urbano che ha attraversato intensamente l’intero “secolo breve”: compie sedici anni allo scoppio della Rivoluzione russa e muore, all’età di novant’anni, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino e qualche mese prima dell’implosione dell’Unione Sovietica. La sua lunga vita ha coperto quasi tutto l'arco del Novecento e non è un caso che egli ne abbia attraversato i momenti e le questioni più decisive.

Il dibattito italiano riscontra ancora diversi limiti ermeneutici e la ricezione dellasua opera appare del tutto insufficiente: molti dei suoi lavori non sono stati ancora tradotte, mentre dei pochi di cui disponiamo la traduzione risale a trenta o quarant’anni fa. Si registra inoltre una profonda lacuna nella sua collocazione in bibliografia secondaria: la letteratura italiana, infatti, sembra aver recepito il pensiero di Lefebvre quasi esclusivamente attraverso la traduzione di alcune opere di David Harvey [1]. D’altro canto, occorre osservare come l’attuale Lefebvre renaissance, nello scenario europeo e internazionale, lo sottoponga a una sorta di distorsione che lo riduce, di volta in volta, a un sociologo, a un urbanista, ecc. Al contrario, Lefebvre inaugura un nuovo tipo di filosofia, sulle orme di Marx ed Engels, capace di dispiegarsi simultaneamente sul piano teorico e sul piano pratico. È possibile individuare la cifra fondamentale della sua filosofia nell’interpretazione dei due filosofi tedeschi, che si caratterizza per l’incessante appello a unire la “teoria” filosofica alla “prassi” politica. Tale prospettiva è innanzitutto quella che permette all’autore di comprendere le trasformazioni della società fordista, dalla questione spaziale, passando per la vita quotidiana fino a una teoria generale della politica capace di abbracciare l’intera analisi della modernità capitalista.

Credo che Lefebvre concepisca la “critica filosofica” come uno strumento di trasformazione del presente. Non è errato, infatti, pensare che il passaggio agli studi afferenti alla sfera delle scienze sociali (compiuto fin dagli anni Quaranta) sia il frutto di una scelta politica di cui la filosofia necessitava: di fronte alle problematiche poste dalla società novecentesca e dai sistemi a capitalismo avanzato, Lefebvre ha ritenuto necessario imboccare una direzione inedita anche rispetto al suo lavoro precedente. Egli ha sempre creduto che la filosofia di Marx e Engels fosse una critica della vita quotidiana [2].Sottoporre a critica il capitalismo significa quindi mettere a fuoco la dimensione del quotidiano prodotto dalla modernità capitalista: la città e lo spazio urbano diventano il “laboratorio sociale” privilegiato per osservare le evoluzioni del capitalismo fordista e dare nuovo slancio alla tradizione marxista. Se, da un lato, contro l’idea althusseriana di fondare una “scienza teorica” marxista, Lefebvre ha contribuito a rivitalizzare gli strumenti di ricerca propri della critica marxiana, dall’altro, la vastità dei suoi interessi non ha permesso un giusto riconoscimento del suo originale contributo. Inoltre, l’aspro conflitto con il Partito comunista francese confina l’autore ai margini: nel 1958 viene espulso perché non intende piegare le proprie posizioni filosofiche ai dettami della normalizzazione staliniana. Tale esclusione avviene nonostante avesse partecipato alla lotta partigiana e fosse stato uno dei primi filosofi a tradurre alcune opere dei due pensatori tedeschi al fine di contribuire, fin dagli anni Trenta, a una solida formazione politica dei militanti del partito [3].

Nell’ultimo decennio la sua eredità è riemersa parzialmente, a macchia di leopardo, soprattutto grazie alla ripresa di alcuni concetti-chiave (come il “diritto alla città”, la “vita quotidiana” e la “produzione dello spazio”) nel campo degli studi urbani e degli studi culturali, ma la ricerca intorno al suo lascito teorico rimane ancora poco approfondita (spesso oggetto di una nefasta settorializzazione in discipline accademiche precostituite).

2. Spazio e politica, ovvero il secondo volume che completa le riflessioni contenute ne Il diritto alla città, è una raccolta di diversi articoli pubblicati congiuntamente nel 1972. Le droit à la ville (1968) è preceduto, nel 1965, dal volume sulla Comune di Parigi; in seguito, nel 1970, viene pubblicato La révolution urbaine, due anni dopo compare La pensée marxiste et la ville e infine, nel 1974, è dato alle stampe La production de l'espace. Spazio e politica si colloca quindi in un decennio molto fecondo per la riflessione urbana di Lefebvre, che confluirà nei due ampi volumi sulla Produzione dello spazio.

Spazio e politica è, innanzitutto, utile perché chiarisce con lucidità il significato della celebre formula del «diritto alla città». Quattro anni dopo Le droit à la ville, Lefebvre precisa meglio i temi che aveva iniziato a trattare fin dagli anni Sessanta, dichiarando anche esplicitamente a chi era rivolta l'opera:

Questa espansione della città si accompagna a una degradazione dell’architettura e del quadro urbanistico. La gente è costretta alla dispersione, soprattutto i lavoratori, allontanati dai centri urbani. Ciò che ha dominato il processo di espansione delle città, è la segregazione economica, sociale, culturale. […] L’urbanizzazione della società si accompagna a un deterioramento della vita urbana […] È pensando a questi abitanti delle periferie, è pensando alla loro segregazione, al loro isolamento, che parlo in un libro di «diritto alla città [4].

È possibile quindi notare come il “diritto alla città” si ponga in continuità con l’eredità marxiana. Lefebvre rimane coerente all’obiettivo di mettere alla prova dell’analisi urbana le categorie di Marx, al fine di rinnovare e attualizzare il marxismo stesso. L’originale intuizione dell’autore risiede nel problematizzare il soggetto sociale del «proletariato» marxiano (chiaramente legato alla situazione della classe operaia ottocentesca), guardando a tutti quei lavoratori e abitanti delle periferie che vivono concretamente la segregazione sociale dei grandi edifici progettati a partire dal modello funzionalista nella riorganizzazione della banlieue fordista. Pertanto, riflettendo sul “diritto alla città” in un contesto urbane prodotto dalle politiche spaziali del capitalismo fordista, giunge a includere, nella teoria dell’emancipazione racchiusa ne Le droit à la ville, tutti quei soggetti sociali che vivono una condizione precaria ai margini del mercato e del consumo: in modo particolare, alla luce di ciò che accadeva nell'allora periferia parigina di Nanterre congestionata dall’abitare precario dei lavoratori immigrati giunti dalle colonie francesi [5]. Lefebvre codifica tale significato di fronte agli esiti nefasti di una urbanizzazione che, se da un lato si costituisce sul modello abitativo funzionalista teorizzato da Le Corbusier, dall’altro produce forme di marginalizzazione sociale e sacche di povertà urbana con l’abbandono nelle bindoville di tanti operai immigrati francofoni. È in questo senso che si spinge a parlare di un “neocolonialismo interno” [6]alimentato dalla separazione urbana fra zone ipersviluppate e zone abbandonate alla miseria del sottosviluppo, anticipando in qualche modo l’ampia letteratura sulla forma-campo e il dibattito sulle forme del contenimento e della concentrazione urbana di particolari gruppi sociali, fino al recente fenomeno della “bindovillizzazione” dei luoghi abitati dai migranti [7].

In secondo luogo, è cruciale porre l’accento sul significato di “diritto”. Come scrive Lefebvre: “Non si tratta di un diritto nel senso giuridico del termine […] questi diritti non sono mai letteralmente realizzati, ma vi si fa continuamente riferimento per definire la situazione della società” [8]. Egli non intende aggiungere un nuovo diritto alla lunga lista di nuovi “diritti umani”, ma indicare un percorso di lotta, di conflitto sociale, concreto e performativo. Il “diritto alla città” infatti “si annuncia come appello, come esigenza”[9] sociale e politica; senza una critica radicale del sistema capitalista non c'è spazio per una sua autentica realizzazione. Non siamo, dunque, di fronte a una questione giuridica, ma filosofico-politica. Con il concetto di “diritto alla città” Lefebvre immagina una teoria politica dell’emancipazione nel contesto spaziale, la cui forza propulsiva si scontra tuttavia con la volontà predatrice delle logiche economico-politiche del capitalismo. Dunque, la città è interpretata come lo scenario entro cui si esprimono i conflitti sociali e, a tale proposito, Lefebvre riprende la teoria del conflitto di Niccolò Machiavelli [10]. Com’è noto, il “popolo minuto” e il “popolo grasso” che si contendono le sorti politiche della polis richiamano la filosofia politica machiavelliana, quel Machiavelli repubblicano e libertario – riscoperto da Claude Lefort – il quale fingeva di dare lezioni ai monarchi, per darle invece ai popoli oppressi [11]. Lo spazio della città è la posta in gioco di una contesa fra chi può essere visibile e avere voce e chi invece deve rimanere invisibile e senza possibilità di proferire parola. L'identità, il riconoscimento socio-politico si determina nella democratizzazione ed emancipazione dello spazio vissuto dai gruppi subalterni. Lo statuto del politico, nella sua dimensione spaziale, è necessariamente attraversato dalla disunione, dal disaccordo fra chi è escluso e chi esclude: l’urbano è dunque per Lefebvre il “luogo della espressione dei conflitti” [12]. Per questo, ritengo che si possa parlare di una concezione conflittualista del “diritto alla città”. Tale scontro riguarda lo spazio urbano e la sua organizzazione. L’interrogativo radicale su cui riflette Lefebvre è: Chi decide sulla progettazione dello spazio? Chi decide su come gli uomini devono vivere e abitare? In altre parole, decidere “sulla città” è decidere “della politica”. È possibile, di conseguenza, leggere Lefebvre come un filosofo e un sociologo del conflitto e, in modo particolare, del conflitto che avviene nella dimensione spaziale della vita urbana. Il “diritto alla città” si concretizza essenzialmente attraverso l’agire politico, attraverso un’azione politica che si pone il raggiungimento di un'autentica democrazia, anche nella gestione e organizzazione dello spaziale. È il rovesciamento della città come “merce” da parte di chi è escluso, oppresso, e la dialettica ricostruzione di un essere-in-comune della polis come “opera” di coloro che la abitano. La definizione del concetto di “diritto alla città” rimane un campo aperto all'evento. Lefebvre non ipostatizza un significato o un sistema, ma offre al lettore alcune piste da percorrere per formulare una teoria che proceda sempre dall'agire e da ciò che accade nella società.

La città per Lefebvre non è solo luogo e prodotto della valorizzazione capitalista, ma anche opportunità concreta di rigenerazione dello spazio sociale attraverso la partecipazione attiva degli abitanti che la vivono e l’attraversano. La città è dunque il luogo della possibilità di riappropriarsi dello spazio e del tempo in base alle esigenze e ai bisogni di chi la vive, in particolar modo dei più deboli. La società urbana, in tale prospettiva, diventa “opera, come fine, come luogo di libero godimento, come campo del valore d'uso”[13] in cui gli abitanti possono intraprendere un percorso di emancipazione e liberazione dal giogo della precarietà e della povertà. Un'autentica “rivoluzione urbana” avverrà quando lo spazio sociale sarà opera, disegno, progetto di chi lo vive e lo attraversa; quando ci sarà la possibilità di una produzione dello spazio libera, condivisa, plurale, democratica e non più assoggettata a interessi e profitti particolari. Trasformare il proprio spazio di vita, renderlo utile ai bisogni di tutti è l’autentica via per praticare quell'ideale utopico-pratico che Lefebvre ha chiamato “diritto alla città”. La città come prodotto, come merce è così rovesciata in favore di una città intesa quale opera autentica, al servizio di chi la abita: “il diritto alla città legittima il rifiuto a lasciarsi escludere dalla realtà urbana da parte di un'organizzazione discriminatoria e segregativa. […] il diritto alla città significa allora la costituzione o la ricostituzione di un'unità spazio-temporale […] invece di una frammentazione” [14].

Lo spaziale come crogiolo di differenze, di scambio di saperi è l'anticamera di una spirale emancipatrice di trasformazione della vita quotidiana degli uomini. Il “diritto alla città” è quindi diritto alla partecipazione e alla fruizione dei beni e dei servizi collettivi contro la logica proprietaria e privatistica del capitalismo [15]. La città, quindi, dovrebbe essere molto più simile “all'opera d'arte” che alla merce [16] Lefebvre pensa lo spazio urbano come luogo di riappropriazione per un modo di vivere altro, per un suo uso e una sua produzione collettiva: “il diritto alla città così formulato implica e applica una […] conoscenza di una produzione, la produzione dello spazio” [17]. La città come opera d'arte non è altro che una metafora performativa per descrivere la possibilità di istituire un nuovo rapporto con lo spazio, sottratto al mercato e al profitto, in nome di un suo uso comune e condiviso [18].

3. La nozione di “città come opera d’arte” è parte di una costellazione concettuale più ampia. Lefebvre negli anni Settanta lavora alla costituzione di una teoria generale della politica dello spazio che procede verso la definizione del significato di “produzione dello spazio”. Tali teorie vengono riassunte sinteticamente nelle prime due capitoli di Spazio e politica intitolate Lo spazio e La politica dello spazio, che infatti fungono da bozze preparatorie per i due volumi di La produzione dello spazio [19]. Inoltre, il quinto capitolo, Le istituzioni della società post-tecnologica, riprende gli appunti della conferenza tenuta da Lefebvre al convegno del gennaio 1972 svoltosi al Museo d’Arte Moderna di New York [20]. Il titolo è il medesimo del convegno, ma dalla lettura comprendiamo come il tema messo a fuoco da Lefebvre riguardi invece l’economia politica dello spazio, una questione centrale per gli studi di geografia economica sviluppati oggi, per esempio, da David Harvey. La riattualizzazione di Lefebvre svolta dal geografo inglese è infatti dedicata all’espansione del mercato immobiliare nel regime attuale di crisi economica provocato dalla bolla speculativa dei mutui subprime [21].

Non è qui possibile esporre interamente la teoria generale dello spazio, tuttavia ci basti accennare al suo concetto-chiave: Lefebvre intende analizzare lo sviluppo storico dello spazio e mettere in luce i rapporti di produzione e di riproduzione che intersecano la dimensione spaziale. Per “produzione dello spazio” si intende la problematizzazione delle categorie marxiane di “valore d’uso” e di “valore di scambio”. I processi produttivi capitalistici trasformano l'opera umana (valore d’uso) in prodotto di serie, in mera merce (valore di scambio). Tale dinamica è traslata sullo spazio urbano della città, divenendo anch’esso oggetto di scambio e profitto. Lo spazio urbano viene così sottoposto a processi di mercificazione in cui prevalgono le logiche economiche di mercato: le città sono così trasformate in prodotti attraenti e desiderabili per l’investimento di capitali. All'interno di questo processo il “valore di scambio” dello spazio si impone in modo autoritario sul “valore d'uso”, escludendo radicalmente i cittadini da ogni processo decisionale. Oggi, per esempio, la valorizzazione speculativa di molti spazi abbandonati o chiusi a causa della crisi economica assume proprio questo aspetto. Lefebvre, dunque, evidenzia come lo spazio sia la nuova posta in gioco delle dinamiche di potere.

Nell'insistenza di Lefebvre sull'appiattimento e l'omologazione prodotti dalla società dei consumi, possiamo intravvedere quei processi di sottrazione di senso alla dimensione spaziale che l'antropologo Marc Augé ha definito come “nonluoghi” [22]. In un periodo storico ben diverso dal nostro, Lefebvre intravvede tuttavia quei processi spaziali che oggi caratterizzano ampiamente la città neoliberista. Inoltre, a partire dalla problematizzazione degli esiti nefasti dell'urbanizzazione planetaria – Lefebvre parla di “esplosione della città” – come la marginalizzazione delle periferie e il proliferare di un vivere e un abitare precario ai margini del mercato, è possibile affermare che Lefebvre sia stato un antesignano delle analisi del sociologo americano Mike Davis contenute ne Il pianeta degli slum [23]. L'urbanizzazione industriale, o meglio, la rivoluzione urbana capitalista produce simultaneamente centri di comando politico-finanziario e precarietà urbana. Le disuguaglianze sociali e spaziali camminano di pari passo con lo sviluppo capitalistico. La marginalità e la discriminazione spaziale sono il prodotto e la conseguenza delle “città globali”, di cui il “pianeta degli slum” è figlio legittimo. A questo proposito, Saskia Sassen mette in luce come nelle città globali si trovi una forte asimmetria tra lavori ad alta qualifica e un’ampia domanda di lavoro precario, non qualificato e molto spesso sottopagato, che ha delle ricadute sullo spazio e i luoghi in cui vivono questi lavoratori: la polarizzazione del reddito e delle opportunità di lavoro produce necessariamente periferia, precarietà abitativa e marginalità urbana [24].

4. Fondamentali sono le riflessioni dei due ultimi capitoli dal titolo La borghesia e lo spazio e La classe operaia e lo spazio. Alla base vi sono gli studi sulla Comune parigina del 1871 compiuti dall’autore: essi sono un chiaro esempio di come Lefebvre sviluppi sul piano storico le direttrici filosofico-politiche della teoria generale dello spazio. A tale proposito, è necessario mettere in luce l’innovazione lefebvriana, che interpreta l’insurrezione comunarda come cifra di un agire politico ribelle all’organizzazione spaziale di classe. Tale agire è inteso come un momento di creazione condivisa del processo di produzione di una spazialità alternativa e simultaneamente negatrice di quella dominante (in quanto la interrompe). Nella Comune di Parigi, lo spazio diventa la posta in gioco per eccellenza:

La Comune di Parigi può essere interpretata alla luce delle contraddizioni dello spazio e non soltanto a partire dalle contraddizioni del tempo storico […] Fu una risposta popolare alla strategia di Haussmann. Gli operai cacciati verso i quartieri e le comuni periferiche, si riappropriarono dello spazio da cui il bonapartismo e la strategia del potere politico li aveva esclusi [25].

L’analisi storica della produzione dello spazio permette quindi di comprendere più a fondo le modalità in cui il capitalismo agisce nella dimensione spaziale. Haussmann inaugura le prime pratiche di espulsione delle classi popolari dal centro della città, confinandole di fatto in quartieri periferici. In questo modo, dunque, veniva soffocata qualsiasi possibilità di insurrezione sociale, smembrando e riconducendo i gruppi sociali subalterni all’interno di una organizzazione spaziale di classe.

I Comunardi, rioccupando le strade e le piazze, spezzano la precedente gerarchia spaziale, giungono fino al centro della città e conquistano l’Hôtel de Ville, rovesciando il luogo decisionale-oppressivo in spazio sociale comune. Lo spazio dell’Hôtel de Ville – che incarna per eccellenza il potere costituito – diventa il luogo dove si realizza una nuova spazialità orizzontale e democratica quale terreno adatto a favorire un nuovo corso per il “diritto alla città” di tutti gli oppressi: “I lavoratori che occupano L’Hôtel de Ville o che abbattono la Colonna di Vendôme non si sentono ‘a casa’ nel centro di Parigi; stanno occupando il territorio nemico, circoscrivono il proprio luogo dall’ordine sociale dominante. Così con l’occupazione, seppur breve, realizzano l’esempio di ciò che i Situazionisti hanno chiamato détournement” [26].

5. L’evento della Comune incarna la possibilità di sospendere la dimensione spazio-temporale del Capitale aprendo un’inedita breccia insorgente. Tale discontinuità, infatti, è implicita nell’idea lefebvriana di “utopia”, e viene messa a fuoco dall’autore nella dimensione spazio-temporale – appunto – utopica, capace di spezzare il ciclo del regime dominante e aprirne uno nuovo. L’autore infatti sostiene che “tutte le rivoluzioni hanno qualcosa di profetico” [27], ovvero innescano una inedita dimensione utopica spazio-temporale. Lefebvre utilizza il concetto di “utopia” per indicare la sospensione dello spazio-tempo del Capitale e il cominciamento di un nuovo corso per l’essere-in-comune fra pari. L’elemento profetico anticipa e tenta di realizzare un regime politico autenticamente democratico, nonostante la fine della Comune e le tragiche sorti dei comunardi più attivi. La “festa” della Comune scolpisce nella memoria storica degli oppressi la possibilità di una vita quotidiana diversa da quella imposta dalla logica dominante. Il popolo parigino, quando intravede la fine di fronte alla controffensiva di Thiers, decide di “morire con ciò che significa per lui molto di più che un decoro e una cornice: la sua città, il suo corpo”[28]. Come l’artista intrattiene uno stretto legame con la sua opera, così il proletariato urbano si sente legato alla polis: è il suo prodotto per eccellenza, sia da un punto di vista materiale che simbolico.

Il pensiero filosofico-politico che riflette sul presente della prassi sociale è dunque il quadro teorico entro cui l’autore fonda il concetto di utopia. Pensiero e azione sono fortemente legati, aprendo la storia a un nuovo corso. Agli occhi di Lefebvre, il cambiamento sociale non può essere separato da un processo di espansione utopica dei suoi presupposti. Come afferma in una delle ultime interviste prima della morte, nel gennaio 1991: “Pensare la trasformazione al giorno d’oggi ci obbliga a pensare utopicamente, ovvero prevedere molte sorti per i futuri possibili e scegliere fra essi. L’utopia è stata screditata, deve essere riabilitata. […] Questa è la funzione del marxismo nel pensiero contemporaneo” [29]. Tale funzione utopica, sviluppata simultaneamente nel pensiero e nella prassi concreta, è una delle responsabilità che l’autore lascia in eredità al marxismo nell’epoca della controrivoluzione neoliberale. L’utopia quindi si configura come un polo di pensiero resistenziale, che in una congiuntura storica, nonostante la pervasività dell’ideologia dominante, permette di lasciare aperti nuovi spiragli d’emancipazione. In questa direzione, nel quarto capitolo intitolato Engels e l’utopia, Lefebvre mette in luce come il fedele amico di Marx abbia sostenuto le sue tesi ne La questione delle abitazioni e ne L’Anti-Düring attraverso il recupero dell’eredità intellettuale di Fourier. Ripercorrendo passo passo i due testi, Lefebvre dimostra come Engels combatta l’“utopia astratta”, poiché le sue intenzioni sono quelle di ancorare le analisi filosofiche alla realtà pratica [30]. Da un lato, Düring è uno strutturalista ante-litteram [31] ed Engels combatte una battaglia intellettuale contro l’ossessione della sistematizzazione di un pensiero dentro una cornice teorica predefinita, dall’altro, Engels sottopone a critica i sistemi utopistici creati nell’astrattezza del pensiero separato dalla vita quotidiana, ma non l’utopia in quanto tale. A Fourier, riconosce il merito di essere stato uno dei primi ad aver messo in luce gli effetti della divisione del lavoro industriale e la necessità di superare l’antitesi fra città e campagna. Agli occhi di Lefebvre, Engels rielabora l’utopismo socialista spingendolo a diventare utopia rivoluzionaria, ovvero “utopia concreta” [32]. Le possibilità latenti nel presente, quindi, non vanno viste secondo una logica deterministica, né a partire da esse è lecito costruire un sistema di società da applicare a priori; al contrario, devono essere considerate come “tendenze”, e come tali sottoposte allo studio teorico. “L’utopia concreta – scrive Lefenvre – si fonda sul movimento di una realtà di cui essa scopre le possibilità” [33]. L’utopia combattuta da Engels, in realtà, è l’“utopia astratta” di chi “prescrive la forma in cui dovrebbe essere risolta questa o quella contraddizione dell’attuale società” [34]. Il bersaglio di Engels è l’atto prescrittivo di certe utopie. Tuttavia, per combattere Proudhon, non esita a riprendere Fourier poiché nelle sue pagine “sprizzano le scintille della ragione” [35]. L’originale interpretazione engelsiana permette quindi a Lefebvre di porre l’utopia all’interno del solco rivoluzionario tracciato dai due filosofi tedeschi.

6. Per concludere, l’originale contributo di Lefebvre, nel dibattito interno al campo marxista e in quello degli studi urbani, si contraddistingue in modo particolare per aver evidenziato la cruciale importanza della dimensione spaziale nella modernità capitalista propria del “secolo breve”. Per Lefebvre, l’organizzazione e la gestione dello spazio è la lente attraverso la quale leggere e interpretare l’economia politica. Questo mi sembra l’aspetto più innovativo del suo lavoro con continuare a confrontarsi. Possiamo condividere o non condividere il primato che Lefebvre attribuisce all’analisi dello spazio [36], tuttavia esso rimane, fino in fondo, il terreno politico par excellence sul quale, anche nel nostro secolo, si giocano gran parte degli equilibri di potere determinati dal nuovo ordine neoliberale.


[1] Si vedano, in particolare, David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, trad. it. di C. Vareschi, ombre corte, Verona 2016; Id., Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Wall Street, trad. it. di F. De Chiara, Il Saggiatore, Milano 2013; id., La crisi della modernità, trad. it. di M. Viezzi, Il Saggiatore, Milano 2015.

[2]Sul concetto di “vita quotidiana” nel pensiero di Lefebvre si veda la tesi di dottorato di Chiara Stenghel dal titolo Per una filosofia del quotidiano. Pensare il cambiamento a partire dalla riflessione di Henri Lefebvre (in procinto di essere discussa presso l’Università di Padova).

[3] Si veda: Henri Lefebvre, Il tempo degli equivoci, trad. it. di M. Bandini, Pgreco, Milano 2015; Id., La somme et le reste, Anthropos, Paris 2009.

[4] Lefebvre, La borghesia e lo spazio, in Spazio e politica. Diritto alla città II, infra, p. 121.

[5] Per una ricognizione sociologica della banlieue parigina di Nanterre a cavallo degli anni Sessanta si veda: Abdelmalek Sayad e Éliane Dupuy, Un Nanterre algérien, terre de bindovilles, Éditions Autrement, Paris 1995; Simona de Simoni, Filosofia politica dello spazio. Il programma di ricerca di Henri Lefebvre e le sue conseguenze teoriche, Tesi di dottorato in Filosofia discussa l'11 aprile 2016 presso l'Università di Torino, pp. 91-94; Id., Le droit à la ville. Note (d)ai margini, in “Euro Nomade”, 3-05-2015.

[6] Lefebvre, La borghesia e lo spazio, in Spazio e politica. Diritto alla città II, infra, p. 121.

[7] Alludo in particolare agli studi sulla forma-campo di Giorgio Agamben (Id., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, e Id., Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003) e di Michel Agier (avec Clara Lecadet, Un monde de camps, Éditions de La Découverte, Paris 2014; Id., Campement urbain. Du refuge naît le ghetto, Éditions Payot, Paris 2013). Per una lettura sociologica dei due autori si veda Sonia Paone, Città in frantumi. Sicurezza, emergenza e produzione dello spazio, Franco Angeli, Milano 2008. Per quanto riguarda i processi di “bindovillizzazione” dell’abitare in Francia si veda: Actualité du bindoville, in “Urbanisme”, 406, 2017. Per una ricognizione comparativa tra Francia e Stati Uniti si veda: Loïc Wacquant, I reietti della città: ghetto, periferia, stato, trad. it. di A. Petrillo e S. Paone, ETS, Pisa 2016.

[8] Lefebvre, La borghesia e lo spazio, in Spazio e politica. Diritto alla città II, infra, p. 121.

[9] Henri Lefebvre, Il diritto alla città, trad. it. di G. Morosato, ombre corte, Verona 2014, p. 134.

[10] “La città è il terreno e la posta in gioco dei conflitti politici tra il ‘popolo minuto’, il ‘popolo grasso’, l'aristocrazia o l'oligarchia. I detentori della ricchezza e del potere si sentono costantemente minacciati. Giustificano il loro privilegio di fronte alla comunità dispensando sontuosamente la loro fortuna in edifici, congregazioni, palazzi, ornamenti e feste.” (Ivi, p. 19).

[11] È molto probabile che Lefebvre conoscesse gli studi di Claude Lefort su Machiavelli avendo stretto rapporti amichevoli con il gruppo di Socialisme ou Barbarie. Tale interpretazione è qui ripresa dall’autore senza una citazione specifica (cfr. Claude Lefort, Le travail de l'œuvre. Machiavel, Gallimard, Paris 1972).

[12]Henri Lefebvre, La rivoluzione urbana, trad. it. di A. Gioia, Armando Editore, Roma 1973, p. 196.

[13] Lefebvre, Il diritto alla città, cit., p. 96.

[14] Lefebvre, Introduzione, infra, p. 33.

[15] “[il diritto alla città] si manifesta come forma superiore dei diritti, diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà) sono impliciti nel diritto alla città.” (Lefebvre, Il diritto alla città, cit., p. 153).

[16] “La città è un’opera, nel senso di un’opera d’arte. Lo spazio non è solo organizzato e istituito, è anche modellato, appropriato da questo o quel gruppo sociale, secondo le sue esigenze, la sua etica e la sua estetica, cioè la sua ideologia. La monumentalità è un aspetto essenziale della città in quanto opera, la l’impiego del tempo da parte dei membri della collettività urbana non è un aspetto meno decisivo. La città come opera deve essere studiata sotto questo duplice aspetto.” (Lefebvre, La città e la dimensione urbana, in Spazio e politica. Diritto alla città II, infra, p. 71)

[17]Lefebvre, Introduzione, in Spazio e politica. Diritto alla città II, infra, p. 34.

[18] “La città è opera, più simile a quella artistica che al semplice prodotto materiale. La città […] è l’opera di una storia, cioè di persone e gruppi ben definiti che la realizzano in determinate condizioni storiche”. (Lefebvre, Il diritto alla città, cit., p. 54). Poco dopo prosegue: “Se consideriamo la città come opera di determinati ‘agenti’ storici e sociali, possiamo distinguere l’azione e il risultato, il gruppo (o i gruppi) e il loro ‘prodotto’” (Ivi, p. 56).

[19] Henri Lefebvre, La produzione dello spazio, 2 voll., Moizzi Editore, Milano 1976.

[20] Gli atti del convegno sono stati raccolti in Emilio Ambasz (a cura di), The Universitas Project: Solutions for a Post-technological Society, Ed. Museum of Modern Art, New York 2006.

[21] Si veda David Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, trad. it. di A. Oliveri, Feltrinelli, Milano 2011; Id., Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, trad. it. di V. B. Sala, Feltrinelli, Milano, 2014; Id., Le radici urbane della crisi finanziaria, in Il capitalismo contro il diritto alla città, cit., pp. 53-106.

[22] Marc Augé, Nonluoghi. Introduzionea una antropologia della surmodernità, trad. it. di D. Rolland e C. Villani, Eleuthera, Milano, 2009.

[23] Mike Davis, Il pianeta degli slum, trad. it. di B. Amato, Feltrinelli, Milano, 2006.

[24] Cfr. Saskia Sassen, Città globali e circuiti di sopravvivenza, in Barbara Ehrenreich e Arlie Russell Hochschild, (a cura di), Donne globali, Tate, Colf e Badanti, trad. it. di V. Bellazzi e A. Bellomi, Feltrinelli, Milano 2004; Id., Espulsioni, trad. it. N. Negro, Il Mulino, Bologna 2015.

[25] Lefebvre, Spazio e politica. Diritto alla città II, infra, p. 137.

[26] Kristin Ross, The Emergence of Social Space. Rimbaud and the Paris Commune, Verso, London-New York 2008, p. 42 (trad. mia).

[27] Henri Lefebvre, La proclamation de la Commune, Gallimard, Paris 1965, p. 38 (trad. mia).

[28] Ivi, p. 22 (trad. mia).

[29]Patricia Latour et Francis Combes, Conversation avec Henri Lefebvre, Messidor, Paris 1991, pp. 18-19 (trad. mia).

[30] Lefebvre, Engels e l’utopia, in Spazio e politica. Diritto alla città II, infra, p. 82.

[31] Ivi, p. 81.

[32]Ivi, p. 83. Cfr.: Ernst Bloch, Lo spirito dell'utopia, trad. it. di V. Bertolino, Rizzoli, Milano 2009.

[33] Lefebvre, Engels e l’utopia, in Spazio e politica. Diritto alla città II, infra, p. 83.

[34] Friedrich Engels, La questione delle abitazioni, trad. it. di R. Sanna, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 118.

[35] F. Engels, Anti-Düring, trad. it. di G. De Caria, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 277.

[36] Si vedano ad esempio le critiche di Manuel Castells in La questione urbana, trad. it. di E. Mavilla, Marsilio, Venezia, 1971.

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