Produrre case nella metropoli

Fino a quando pagine di carta avvolgeranno architetture di pietra?

Utente: rifo
9 / 4 / 2010

1. La profezia di Victor Hugo rispetto alla città - “ceci tuera cela” - in cui, lo scrittore francese, prefigurava la vittoria della parola sull’architettura, da lui sintetizzata come “l’affermarsi della pagina di carta sull’architettura di pietra” non solo si è ormai consolidata, ma ha deciso, con la vittoria, di non fare prigionieri. Lo fa “rinominando” due parole di sempre: standard e densificazione. Alla prima parola basta aggiungere un aggettivo accrescitivo: extra, ed ecco, così, saltar fuori “are extra standard”; alla seconda, non c’è d’aggiungere nulla. Si prende per usarla, bella e pronta, così com’è. Il recente entusiasmo verso simili “rivisitazioni” (presenti in molti Piano Casa regionali, per esempio) sembra ora tracimare, fuori dai consigli regionali, con riflessioni e proposte che hanno finito con il lambire finanche i movimenti per l’abitare. È possibile, tuttavia, accoglierle quali possibili, se non proprio soluzioni, almeno tentativi di soluzione ai numeri dell’emergenza abitativa, dimenticando come standard e densificazione siano stati, proprio, gli strumenti con cui é stato disegnato lo sviluppo della città moderna? E, ancora, che gli standard e la densificazione sono risultati essere i paradigmi attraverso cui organizzare e controllare i singoli insediamenti? Un’attività di dominio che si è dipanata lungo le strade della città, intercettando le forme della vita, organizzando i tempi, organizzando il lavoro.

2. Non è certo questa l’occasione per avventurarsi nella lettura della città moderna, ma non possiamo certo fare a meno di notare come nella città contemporanea, quella in cui siamo costretti a vivere, attraverso gli standard – che ricordiamo, in Italia, sono stati strappati, dopo una grandissima battaglia solo nel 1968 - e la loro disposizione nell’abitare le città, si sia dispiegata una precisa forma di controllo. Gli standard, ovvero la dotazione di servizi, hanno, infatti, “sanato” una condizione abitativa fin’allora inaccettabile ai più, diventando contemporaneamente, il detonatore, nel nostro paese, dell’esplosione della questione urbana, protagonista delle lotte operaie dell’anno successivo, incentrate anche sui temi della casa e dell’abitare. La pagina di carta, allora, non riuscì neppure a scalfire l’edificio di pietra. Spesso si riuscì a dare vita a forme inedite di partecipazione, progettazione e costruzione capaci, perfino, di riportare l’abitare all’interno dei centri storici come nel caso di Bologna, “rifondata” agli inizi degli anni 70 attraverso un recupero straordinario di edifici non solo residenziali. Una breve stagione. Dopodichè lo standard è servito, anno dopo anno, a dare parziali risposte, sempre più insufficienti nel tempo, ai bisogni degli abitanti. Basta confrontare la loro organizzazione /suddivisione, in verde e servizi, sostanzialmente in uso ancor oggi, per aver chiaro la parzialità e inconsistenza di tali proposte. Nella città è un po’ successo quello che è avvenuto nella casa, quando il frigorifero ha sostituito la dispensa riducendo lo spazio della cucina; la lavatrice ha sostituito l’accesso ai lavatoi all’ultimo piano. Con l’aggiunta che, nella città, non si è mai avuto nulla di sostitutivo e neppure è stata mai raggiunta una distribuzione ponderale dei servizi. Così le case si sono continuate a sommare le une con le altre. Bastava disegnare le aree dei servizi; qualcuno, poi, ci avrebbe pensato. Case solo case per rafforzare la pagina di carta e permettere di continuarle a disporre senza soluzione di continuità provocando così quell’enorme consumo di territorio, che avrebbe finito, oggi, con l’uccidere l’abitare circondandolo di “vuoti” non pensati come tali.

3. Ora si parla di attrezzare con dosaggi algebrici proprio questi spazi “dati”, resi disponibili da scelte spesso, se non sempre, dettate da “esercizi di rendita”, fino, a seconda delle convenienze, rilevare la potenzialità edificatoria (oggi aree verdi principalmente) di vuoti che, anche se non lo sono mai diventati, erano stati pensati come elementi della qualità urbana. Oggi è proprio la qualità urbana a essere la ricchezza della città, l’indicatore per orientarsi tra la melassa di case, mentre la tipologia degli standard resta la stessa. Non è un caso che ora le case vengano offerte per qualità extra standard, fissate dal mercato, tipo perché dotate di tecnologie capaci di contenere il risparmio energetico; perché assicurano forme di sicurezza; perché sono dotate di misure antisismiche… O ancora, come “pesare” una zona servita da internet free rispetto una dove, per esempio, c’è e funziona una scuola materna? Esiste dunque una hit degli standard? Ma, soprattutto, oggi valgono le stesse funzioni? Come classificare la presenza o meno di una linea di trasporto pubblico o la possibilità di assicurare parcheggio? Non è stata forse introdotta dappertutto la misura della “monetizzazione“ degli standard? E questo non è avvenuto significativamente a partire dai centri storici? La presenza di aree extra standard sono occasioni perdute; servizi che non ci sono. Non occasioni per occupare spazi che, anche se non ci sono mai stati dati,ci appartengono.

4. Dobbiamo essere capaci di vedere, a proposito di aree che chiamiamo “extra standard”, non il loro essere un vuoto all’interno di quella parte di territorio da considerare disponibile, quanto, un progetto interrotto, da restituire in modo significativo alla costruzione di un’idea di città fatta anche di vuoti, di spazi da riempire di funzioni da progettare, prendendo come riferimento i “passages” parigini, le gallerie ottocentesche, luoghi di transito dove inventare nuove botteghe/laboratori della creatività. Dobbiamo in una parola smetterla di chiamare i vuoti “aree inutilizzate”. Sono inutilizzate da chi? Dovremmo, anzi, man mano che iniziamo a contarle, decidere, per loro, l’istituzione di una “moratoria” del costruire case e altre abitazioni. Dovremmo essere capaci di fare nostro una sorta di paradosso che sembra da qualche tempo (più o meno dall’inizio di questo secolo) caratterizzare le occupazioni che non puntano alle sole “case”, come tra l’altro dimostra, a Roma, la storica De Lollis, o, le più recenti Lucha y Siesta o Point Breack. Sono queste infatti, più che case, “stanze” pronte a essere collegate tra loro, a produrre nuove connessioni, a mischiarsi . Per questo i vuoti non vanno riempiti con case anche se lo spazio sembrerebbe indicarne essere la destinazione naturale. Dobbiamo convincerci e abituarci all’idea che non siamo in presenza di un’emergenza abitativa, ma di una vera e propria emergenza urbana. Lo spazio non può essere pacificato, ma costruito a partire dal saperlo aprire al conflitto, all’antagonismo, al nuovo protagonismo sociale.

5. Puntiamo, piuttosto, su fossili edilizi, ruderi urbani, che magari da tempo hanno smesso la propria vita, da densificare intervenendo nei loro solai, aggrappandosi alle strutture capaci di sostenere nuovi pesi, inventando nuovi ambiti, articolando tra loro parti da salvare e nuove addizioni. Sono luoghi che risultano già urbanizzati, attrezzati, spesso sostanzialmente “centrali” che per essere stati luoghi del lavoro, dell’istruzione, o anche del consumo, sono riconosciuti e pensati come propri, attraversati dal tempo di molte delle vite dei cittadini, o perché no, dai sogni e desideri degli stessi. Sono spazi che dobbiamo recuperare come case e servizi , né pubblici, né privati, ma da destinare ai più, a chi vuole disfarsene, a chi vuole abitarli, a chi vuole costruirli magari sperimentando pratiche di autocostruzione, a chi si candida a gestirli, a chi si candida a studiarli. Un grande laboratorio urbano per definire, in questo modo di costruire, la creazione di servizi di alta qualità urbana a servizio della città. Non case, ma oltre le case.

6. In questo modo la questione della densificazione viene sottratta ai numeri, al divenire riempimento per l’emergenza, ma può divenire materiale per recuperare l’abitare attraverso la casa, per riprendere a tessere narrazioni urbane da anteporre a chi vuole consumare territorio e perseguire la rendita, puntando sul recupero di edilizia dismessa e aree industriali e commerciali in disuso. Un’occasione per ridisegnare le città secondo un principio che le comunità insediate, produttrici delle eccedenze con la loro vita, se ne riapproprino ricevendo in affidamento le aree extra standard che a loro erano state destinate e che, attraverso questo, strapperebbero un sacrosanto risarcimento per non aver goduto nessun frutto, oltre l’illusione di una dotazione di sevizi mai ricevuti. Per uscire dalla miseria dell’abitare di ieri e opporsi a chi vuole mantenerci nella precarietà dell’abitare di domani.