Quelle due Puglie nel conflitto città-campagna: tra veleni e visioni bucoliche
16 / 8 / 2012
Ferragosto.
Ti lasci alle spalle
per un giorno la Città, i fumi nocivi, densi e maleodoranti, e le
polveri tossiche. Ma per circa 70 Km, lungo la strada statale che
collega Taranto a Lecce, il raggio d’azione della Puglia dei veleni
ci accompagna superando ogni sorta di produzione inquinante:
dall’Ilva, che stringe in un abbraccio mortale per più di 1500
ettari la città di Taranto, alla centrale termoelettrica Federico II
di Cerano, che si trova a pochi chilometri da Brindisi.
Della prima vicenda,
salita agli onori delle cronache da settimane, sappiamo ormai tutto,
o quasi, e conosciamo bene la storia di quelle polveri rosse che
avvolgono il quartiere Tamburi, che si trova a ridosso dello
stabilimento siderurgico, la cui esposizione “causa ai cittadini
malattie mortali da associare all'inquinamento ambientale o
all'ambiente di lavoro”. Anche la seconda è una storia di polveri,
nelle case, sui panni stesi ad asciugare. Di colore nero, però,
quelle del carbone che proviene dalla centrale termoelettrica, che
l’Agenzia europea per l’ambiente,organismo della Ue, in un
rapporto reso pubblico lo scorso 24 novembre 2011, ha definito “uno
degli impianti industriali più costosi in Italia in termini di
salute e anni di vita persi per le popolazioni vicine”.
Le similitudini con
la vicenda ambientale di Taranto, qui, sono tante. A cominciare dai
danni provocati dalla fabbrica alle falde, all’avvelenamento del
ciclo alimentare. Due province con una forte tradizione nel settore
primario, la pesca, l’agricoltura, l’allevamento, che hanno
vissuto l’abbattimento di migliaia di animali per l’esposizione
alla diossina, la distruzione di intere coltivazioni di mitili, come
è avvenuto nel mar Piccolo di Taranto, l’avvelenamento di campi
fertili, un tempo coltivati a vite, carciofi, ulivi, tra le
eccellenze alimentari di Puglia. Come quei quattrocento ettari di
terra, a ridosso della centrale Federico II di Cerano, su cui non si
può più coltivare ormai da cinque anni, per effetto di una
ordinanza dell’allora sindaco Domenico Mennitti, che contemperò
anche la distruzione dei frutti, dei quali fu disposto il divieto
assoluto di commercializzazione. Anche qui, come a Taranto, si parla
di contaminazione della cittadinanza. Da arsenico e berillio, di
piombo nel sangue e nelle urine, metalli pesanti dall'alto potenziale
tossico rilevati in quantità superiori alle soglie limite. Anche a
Brindisi, è la magistratura, insieme alle associazioni, che come
isolate cassandre avevano dato l’allarme anni fa, ad aver
scoperchiato il vaso di pandora. C’è un processo che vede imputati
i vertici dell’azienda.
Sono stati i
contadini di Cerano, diversi anni fa, che chiedevano di sapere cosa
avesse avvelenato i campi, e forse loro stessi, a dare inizio,
tramite un esposto indirizzato alla procura di Brindisi, ad una
inchiesta che solo oggi giunge al capolinea. Sono quindici gli
indagati, fra dirigenti Enel e imprenditori addetti al trasporto del
carbone che alimenta la centrale, accusati di getto pericoloso di
cose, danneggiamento delle colture e insudiciamento delle abitazioni.
Accuse che gravano tra gli altri sul direttore della centrale, i
responsabili dell'area ambiente e dell'impianto trasportatore. Qui
l’azienda, a Cerano, si dichiara addirittura estranea alla presunta
contaminazione dei terreni. E mentre l’Ilva e la sua dirigenza, con
il denaro hanno cercato di placare nel tempo, come risulta dagli atti
dell’inchiesta che la vede travolta, ogni sorta di resistenza da
parte di organi amministrativi, e controlli da parte di quelli
politici; a Brindisi si è cercato di mettere a tacere ogni desiderio
di verità da parte dei contadini.
Avendo offerto una
somma pari a 6.100.000 euro per la riconversione produttiva
dell'area. Non a titolo di risarcimento. Parola proibita. Ma per puro
“spirito di liberalità”. Offrendo una cifra, ed un accordo in
base al quale i contadini continuano a rimanere proprietari delle
loro terre, ma da esse dovrebbero sradicare filari di malvasia e
carciofi, che un tempo crescevano rigogliosi, per piantare eucalipti,
ed oleandri, che dovrebbero servire da barriera, solo visiva, però,
per le emissioni. Un offerta truffa che però alcuni piccoli
imprenditori agricoli, hanno accettato, sottoscrivendo un accordo con
il colosso energetico Enel, che in cambio ha chiesto la rinuncia
all'azione penale. Accordo – quadro, sottoscritto il 21 giugno 2011
dopo una trattativa durata anni. Firmato dall’allora sindaco Pdl
Domenico Mennitti, che nel 2007 aveva firmato il divieto di
coltivazione, da Confcooperative, Cia, Coldiretti, Confagricoltura ed
Ugc-Cisl. Un’altra analogia con il caso dell’Ilva di Taranto. I
sindacati che non si schierano con i lavoratori, ma favoriscono la
controparte padronale. Come quella parte di sindacalisti tarantini,
che nei giorni scorsi hanno espresso solidarietà ai dirigenti Ilva
finiti ai domiciliari, accusati a vario titolo di disastro ambientale
ed avvelenamento della catena alimentare. Quei sei milioni di euro,
come è naturale, hanno diviso i contadini, che quei campi hanno
paura di lavorare, per timore di morire avvelenati dal cancro. Come
quegli operai dell’Ilva che non vogliono più “morire per il
lavoro”.
Quelli dell’apecar,
- vecchio strumento di un mondo contadino, di una visione bucolica,
di una Puglia che in parte non esiste più - che irrompe nella piazza
dei confederali, nel giorno della rivolta di Taranto, della
ribellione ai ricatti, delle catene spezzate. Quell’Apecar, il tre
ruote, che nei ricordi personali si riconduce al lavoro di mio nonno,
fruttivendolo, è la prima immagine che mi appare appena giunto ad
Otranto, in quella parte di Puglia incontaminata, che conserva
intatta, in uno spazio senza tempo, i segni della civiltà contadina,
vitigni ed uliveti senza tempo, le antiche masserie; e che mantiene
intatti i suoi tesori naturali, quelle lunghe spiagge di sabbia
sottile e bianchissima, e quelle acque pure e cristalline. Un tre
ruote diverso da quello del “comitato operai- cittadini liberi e
pensanti”, quello che si vede accanto al castello che reca il
simbolo della corona d’Aragona, dove intanto turisti di ogni parte
del globo si accalcano per assistere ad una mostra delle opere di
Andy Warhol, ivi esposte. Quel mezzo serve proprio al trasporto dei
turisti, è nuovissimo, luccicante, è dotato di sedili, stile
cabriolet.
E’davvero molto
bello, così come lo è quelpaesaggio, ancora rurale, del Salento,
con la sua natura incontaminata, le sue stradine di campagna dove si
possono ancora notare delle costruzioni in pietra disseminate tra gli
alberi di ulivo e gli arbusti dimacchia mediterranea: le “pajare”,
costruzioni che un tempo erano usate come ripari dai contadini.
Le“pajare”,molto simili ai trulli che si trovano nella zona
diAlberobello, alcune sono antichissime, risalgono in certi casi
addirittura all’anno 1000. Si assiste oggi ad un loro recupero per
fini turistici, laddove, in alcuni casi le “pajare” sono divenute
parti integranti di strutture ricettive più o meno grandi. C’è
una separazione netta e più spesso una contrapposizione in Puglia,
attraverso quella che è anche la sua storia, fra città e campagna,
quella che Gramsci consideravauno dei caratteri originali della
storia d'Italia.
Proprio il
superamento della frattura politica, economica e culturale fra città
e campagna, avrebbe potuto avviare, secondo il pensatore sardo,un
progetto di trasformazione politica, basandosi sulle rivendicazioni
dei ceti operai e popolari delle città del nord, saldate ai bisogni
e alle logiche sottese ai moti del proletariato agricolo
meridionale. Nonostanteil rilievo marginale che l'agricoltura ha
assunto nell'economia italiana degli ultimi decenni del Novecento,
che sembra indicarci la fine di una fase storica millenaria, la
campagna come problema storico, resta più che mai attuale
nell'evoluzione del rapporto fra nord e sud su scala mondiale, alla
luce dello squilibrio sempre più marcato fra dislocazione delle
risorse, e distribuzione regionale e continentale della popolazione.
Domani, intanto,
mentre i turisti continueranno ad affollare le spiagge da cartolina
del Salento e a godere dei frutti della sua terra, a Taranto L’Apecar
farà la sua ricomparsa, ripartendo col suo carico di indignazione, e
desiderio di dignità. Venerdì 17 Agosto, infatti, andrà in scena
un ennesimo atto della subalternità coloniale che affligge la città
dei due mari da mezzo secolo. Il coacervo di forze e poteri più o
meno visibili raccolti attorno alla dittatura dell’acciaio, manderà
infatti i suoi plenipotenziari, il ministro dell’ambiente e quello
che una volta si chiamava dell’industria, ora sviluppo economico a
ribadire che Taranto deve rimanere per sempre sacrificata
all’interesse nazionale. Come se non avesse gli strumenti e le
potenzialità per poter diventare anch’essa, quella Puglia migliore
tanto decantata da quel governatore che sulla vertenza Ilva, invece,
continua a prendere in giro persino se stesso