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Riflessioni sui fatti del 7 Gennaio a Parigi

13 / 1 / 2015

Scriviamo a quasi una settimana dall'attentato contro Charlie Hebdo. Stiamo provando a seguire l’attuale dibattito sulla questione nelle sue innumerevoli diramazioni e nella molteplicità delle sue declinazioni. 

Un dibattito che diventa stucchevole nella sua coazione tipica del nostro tempo a prendere parola tutti, immediatamente, e senza il benché minimo esercizio di complessità. Un dibattito odioso e insopportabile quando presta il fianco alla pantomima xenofoba delle destra eversiva. Gli interventi di Marine Le Pen e la presenza di Salvini praticamente a reti unificate a poche ore dall’accaduto testimoniano bene la tendenza delle compagini neofasciste a utilizzare lo shock dell’evento per parlare alle pulsioni più basse del corpo sociale e innescare una paura diffusa che diventa dispositivo di controllo e assoggettamento. 

Lo stato d’emergenza trasforma immediatamente questa propaganda in proposte operative. È così che si arriva a parlare di restringimento delle frontiere e intensificazione dei meccanismi di sorveglianza. Si arriva in questo modo persino a proporre in maniera del tutto strumentale la revisione del trattato di Schengen, idea piuttosto curiosa dal momento che questo riguarda esclusivamente le frontiere interne allo spazio europeo e prevede anzi forme di coordinamento fra le forze di polizia dei paesi firmatari volte anche alla gestione e al controllo delle frontiere esterne. 

Pensiamo che in questo momento sia questo il nodo centrale: le prospettive di trasformazione della cittadinanza europea. Cittadinanza che noi abbiamo sempre concepito come dispositivo biopolitico di inclusione differenziale piuttosto che come universalità di accesso ai diritti. In questo senso ci appassiona meno discutere della linea editoriale di Charlie Hebdo, o chiederci se siamo, non siamo, o in che percentuale “ noi siamo Charlie”. Su questo pensiamo Balibar abbia scritto parole importanti nel definire l’ambivalenza della nozione di imprudenza legata alla satira (intesa sia come irriverenza rispetto ad ogni morale, sia come incapacità di contestualizzarsi rispetto alla questioni affrontate). Sia detto per inciso, colpire una religione come quella cattolica significa colpire un apparato di potere che agisce sui corpi delle donne e degli uomini che abitano lo spazio europeo; colpire la religione islamica, dal punto di vista di un bianco occidentale, significa colpire comunità già messe ai margini della cittadinanza. Questo non vuol dire non condannare senza appello e senza sfumature l’attentato squadrista alla redazione di Charlie Hebdo.

Per essere chiari: gli attentatori erano a tutti gli effetti cittadini francesi. Ogni retorica sui barbari che premono ai confini dell’impero europeo e ogni discorso sullo scontro di civiltà è una narrazione tossica che mira a segmentare in modo arbitrario la cittadinanza meticcia di un mondo pienamente globalizzato. Bisognerebbe invece chiedersi com’è possibile che dei ragazzi, nati e cresciuti nel cuore della serenissima repubblica di Francia, possano decidere di rendersi protagonisti di un evento scioccante come quello del 7 Gennaio a Parigi. Che rapporti questo episodio intrattiene con le forme sistematiche di ghettizzazione e discriminazione delle fasce subalterne che abitano le metropoli europee. Che accelerazioni rispetto all’impoverimento, all’accesso al welfare e al peggioramento delle condizioni materiali di vita di queste persone ha prodotto la crisi. Bisognerebbe anche ricostruire la genealogia di questo fenomeno come effetto di lunga durata della storia del colonialismo francese. Colonialismo che non è solo storia delle invasione armate, ma anche trama biopolitica che riconfigura i parametri interni di cittadinanza. Il tema dell’identità nazionale, assunto organicamente da tutte le forze politiche francesi, così come da figure più o meno controverse dell’intellettualità del paese (pensiamo allo scrittore Houellebecq, al comico Dieudonné), è stato agito come forma di esclusione sistematica e decisione unilaterale sui corpi e le vite dei cittadini di religione islamica, trascendendo il semplice posizionamento dei partiti di estrema destra e caratterizzando – ad esempio – l’operato del socialista Hollande.

In quest’orizzonte – di esclusione, criminalizzazione, marginalizzazione quotidiana – non ci meraviglia che l’immaginario evocato dall’opzione fascio-islamica possa diventare accattivante, soprattutto per la composizione giovanile che abita le banlieues. Una composizione che conosce lo Stato solo come potere che opprime, mette al bando e a morte, piuttosto che come soggetto che garantisce uguaglianza e diritti. L’insorgenza dei subalterni non sempre si traduce in una forza trasformatrice, di respiro rivoluzionario, soprattutto se la sinistra abdica completamente riguardo ai temi dell’inclusione, della riqualificazione sociale e diventa forza di controllo pienamente inserita nelle retoriche di unità nazionale come risposta corporativa alla crisi. 

Bisogna avere il coraggio di dire, fino in fondo, che quei soggetti che scelgono eventualmente di partire ed unirsi alle forze jihadiste provengono dagli stessi contesti sociali, hanno biografie molto simili ai giovani che incontriamo quotidianamente nei nostri spazi e nel lavoro politico che tutte e tutti portiamo avanti nelle periferie, tra disoccupati, nuovi poveri, migranti di prima o seconda generazione. La loro prospettiva viene fuori dal tipo di soggettività prodotto del governo a mezzo della crisi, incontrando così nel fanatismo religioso un’ipotesi in cui vedere accolte istanze di ribellione allo stato di cose presenti. La costruzione del mostro, come alieno che giunge da paesi esotici per seminare paura e terrore è il modo in cui i governi europei provano a giustificare la propria inadeguatezza e la macelleria sociale incrementata su basi discriminatorie. L’episodio del 7 gennaio non è estraneo allo spazio europeo, è invece iscritto profondamente nel cuore del Vecchio Continente, nelle sue contraddizioni, nella povertà, nella solitudine, nell’abbandono che produce su determinati territori. Ed anche l’Europa, così come l’Occidente, è una delle mani che ha armato i fratelli Kouachi. 

Questo è tanto più vero se affianchiamo gli scempi interni di quest’Europa a due velocità con il suo operato in politica estera della storia recente. L’attuale e temuto nemico dell’Occidente – diciamo cosa nota, ma che oggi gli analisti mainstream dimenticano - è stato sistematicamente finanziato dalle potenze occidentali. Prassi consolidata da quando i talebani, e le opzioni jihadiste in generale, avevano una funzione antisovietica (pensiamo all’Afghanistan) e che è stata poi utilizzata sistematicamente come vettore di destabilizzazione delle regioni mediorientali.
La storia dell’imperialismo occidentale è la storia di un potere che pensava di poter giocare a fare Dio e che fa i conti con la sua incapacità cronica di gestire i disordini che innesca. Le forze occidentali sono ancor più colpevoli quando abbandonano con dolo l’esperienza della Rojava in Kurdistan, che attraverso la resistenza di Kobane, al confine fra la Turchia e la Siria, si oppone all’offensiva dell’ISIS. Gli interessi della Turchia, con l’appoggio della Nato di cui è paese membro, impediscono infatti l’apertura del confine, e quindi da un lato l’ingresso dei curdi siriani e dall’altro l’accesso dei guerriglieri della Resistenza ai territori occupati dalle forze jihadiste. Il PKK, il principale partito di opposizione curdo, è anzi ancora oggi nella lista delle organizzazione terroristiche nella quasi totalità dei paesi occidentali.

In questo quadro guardiamo lo spezzone di apertura del corteo “contro il terrore” di Place de la République e vi vediamo i volti dei nemici di sempre. Ci vediamo il governo unico dell’austerity nei volti di Angela Merkel e François Hollande, ma anche un volto mediorientale amico dell’occidente, un volto sporco di sangue almeno al pari di Al Quaeda e dell’ISIS, quello del capo di stato israeliano Benjamin Nethanyau. Sono queste le persone cui è affidato il compito di dare lezioni di civiltà?
Una pantomima imbarazzante, quella dell’11 gennaio, in cui i leader dell’Europa si sono rappresentati come corpo unico, serrato assieme contro il nemico terrorista. Una pantomima perché conferma il refrain dell’ “Europa come vittima”, perché sceglie ancora una volta di non fare i conti con le mostruosità che la nostra storia – non quella di presunti invasori – ha prodotto.

Per questo non possiamo stare comodi in questa rappresentazione della lotta alle organizzazione fascio-islamiche, mentre ascoltiamo la lingua che parla il popolo curdo e ci rivediamo nelle forme di resistenza e di autogoverno della Rojava. Nous sommes Kobane, noi siamo le esperienze di resistenza che provano a costruire un altro mondo a partire dalla miseria di quello in cui viviamo, esperienze in cui ci si oppone al potere restando umani, esperienze che non ambiscono al paradiso dei martiri, perché sanno che se c’è una ricompensa, sarà quella che ci riprenderemo ogni giorno su questa terra.

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