Report dall’assemblea nazionale dell’Onda: assemblea plenaria iniziale

18 / 11 / 2008

Il movimento che tutti stiamo vivendo e che abbiamo contribuito a generare è un movimento straordinario. L’Onda ha fatto irruzione nel nostro presente e nel presente di questo paese, mutando una scena, quella del governo delle destre, che sembrava suggerire solo senso di sconfitta e desolazione. La rottura definita dall’Onda ha infranto equilibri tutt’altro che marginali. Nel giro di poche settimane la popolarità del governo è profondamente diminuita; il movimento, intanto, è riuscito a codificare, con un linguaggio comprensibile ai più, un rifiuto esplicito della crisi economica globale. L’unità concertativa dei sindacati confederali sembra per adesso un ricordo lontano, mentre il 12 dicembre la Cgil propone uno sciopero generale di tutte le categorie. Non è tutto merito del movimento, indubbiamente, è senz’altro vero, però, che senza questo movimento tutto ciò non sarebbe stato possibile.

Uno spazio enorme si è aperto, uno spazio conquistato dall’onda, dalla sua forza, uno spazio che ci consegna una grande sfida politica. Ci siamo detti in più occasioni, infatti, che questo movimento non vuole perdere: un movimento nuovo, una grande marea generazionale, che vuole riconquistare il futuro di cui è stata derubata. “Ci bloccano il futuro e noi blocchiamo la città”: non solo uno slogan, un modo nuovo per l’università, di praticare il conflitto.

Un conflitto che parla non tanto e non solo del rifiuto dei tagli previsti dalla legge 133; piuttosto un conflitto in grado di contrapporre forza all’arroganza di chi vuole imporre la crisi socializzando le perdite di banche e imprese. Dopo anni di politiche neo-liberiste d’improvviso si riscopre il debito pubblico, un debito pubblico che viene utilizzato per sostenere i privati e che penalizza ancora i giovani, i precari, la società tutta. Si taglia il welfare, dopo che già tanto si era e si è fatto in questi anni nel senso della privatizzazione dei servizi. La sfida politica che questo movimento ha posto è come sottrarre l’università pubblica all’attacco finale che la finanziaria Tremonti e il governo Berlusconi in generale hanno disposto. Un attacco ben preciso che parla di una forma altrettanto definita di sviluppo, che individua come priorità la salvaguardia di un modello economico fallimentare invece di investire sulla formazione, sull’innovazione, sulla ricerca, in una parola sul nostro futuro. Una politica economica ben definita dalle legge 133 che prevede una serie di provvedimenti “volti a razionalizzare la spesa e il debito pubblico” tagliando indiscriminatamente scuola, servizi e università. E ancora, insieme alla drastica riduzione del personale, si prevede la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazione di diritto privato, cancellando così il carattere pubblico dell’istruzione, ovvero la sua qualità essenziale e un nostro diritto fondamentale. Un movimento che non accetta rappresentanza, ci siamo detti a più riprese. Un movimento che guarda al cambiamento e che sa che il cambiamento non è delegabile, va agito da subito, nel pieno delle forme di auto-organizzazione e nel conflitto. Un movimento che ha saputo esprimere in modo chiaro e inequivocabile il suo antifascismo e di concerto la sua capacità di parlare alla società tutta, partendo dalla sua specificità ma con la tensione ad allargare quanto più possibile i temi della mobilitazione. Non solo: questo è un movimento che sta sperimentando nuove forme di organizzazione, superando anche qualsiasi forma di rappresentanza interna al movimento stesso.

Partiamo da quello che il movimento è già riuscito a determinare. La controffensiva del Governo infatti non è altro che il tentativo, mal riuscito, di far fronte all’evidente crisi (anche di consenso) prodotta dalla forza delle mobilitazioni. Il progetto di riforma presentata dal ministro Gelmini, pur attestandosi su una frettolosa e confusa retromarcia, cerca tuttavia di riproporre i punti centrali del complessivo progetto di dismissione dell’università: il taglio dei finanziamenti viene ora giustificato dalle retoriche della differenziazione, dell’efficienza e della meritocrazia, che altro non sono se non i processi di dequalificazione dei saperi, di gerarchizzazione e declassamento contro cui il movimento sta lottando. Pur predicando il cambiamento il progetto di riforma del Governo rafforza i privilegi della casta baronale e la difesa dello status quo, scaricando su studenti e precari la doppia crisi, quella dell’università e quella economica. Ciò è dimostrato dalla proposta, proveniente da più parti, di innalzamento delle tasse universitarie, che possono essere pagate solamente attraverso l’introduzione massiccia dei cosiddetti prestiti d’onore. In realtà si tratta del ricorso a quel sistema del debito pienamente sviluppato nel mondo anglosassone che è alla radice dell’attuale crisi globale.

Ancora una volta il Governo e il suo think tank, non fanno altro che proporre l’importazione di ricette e modelli già falliti altrove.
Dunque, gli unici alleati del Governo all’interno del mondo della formazione, sono in realtà quei baroni che a parole dice di voler combattere. In questo contesto l’unica forza di trasformazione è il movimento, che non solo si oppone ai tagli della legge 133, ma sta già costruendo le basi per un’altra università. Laddove Stato e Mercato lavorano congiuntamente alla dismissione dell’università, l’Onda Anomala lancia immediatamente la sfida dell’autoriforma.
Chiariamo: per autoriforma non intendiamo la definizione di un insieme di proposte tecniche da consegnare al legislatore di turno o a qualche attore specializzato nella mediazione politica o sindacale.

Per autoriforma intendiamo al contrario un processo costituente aperto, modificabile e implementabile che organizza quella potenza di conflitto e autorganizzazione nella produzione dei saperi già presente in queste straordinarie settimane di mobilitazione, blocchi e occupazioni. La sfida, in altri termini, non si esaurisce nell’opposizione alla legge 133 e al futuro disegno di riforma, ma aggredisce immediatamente l’università esistente. Il fallimento del modello del 3+2 e dei tentativi di misurazione del sapere attraverso il sistema dei crediti, è stato determinato dalla diffusa indisponibilità degli studenti ad accettare i meccanismi disciplinari e la continua dequalificazione della formazione contenuti nella riforma Berlinguer-Zecchino.

L’autoriforma quindi non è una semplice carta di intenti, né tantomeno un tentativo di burocratizzare l’irrappresentabilità del movimento. L’autoriforma è invece l’apertura di un processo che già vive nelle pratiche del movimento, è un passaggio di consolidamento delle forme di autorganizzazione e un rilancio degli elementi del conflitto. L’unica verifica per questo processo, è la capacità di tradurre da subito l’autoriforma in concreti elementi di programma e di agenda politica.
Il movimento di queste settimane, che ha coinvolto tutto il settore della formazione e dell’istruzione, nasce da una parzialità per parlare il linguaggio della generalizzazione.

“Noi la crisi non la paghiamo” condensa istanze e rivendicazioni che vanno oltre i confini classici di scuola e università, per porre immediatamente le questioni del lavoro, del welfare, della precarietà e della libertà.

È su questo piano di generalizzazione che il movimento lancia la sua sfida anche verso il prossimo sciopero generale.