Sabato e
Domenica (21 e 22 novembre) a Napoli, negli spazi di Mezzocannone occupato, ci
siamo incontrati in tanti e tante, provenienti da realtà di movimento e centri
sociali di tutta Italia, con l’intenzione di riprendere il filo della
discussione collettiva e di provare a produrre a partire da essa un percorso in
grado di ricostruire da subito e sui temi che insieme abbiamo ritenuto
prioritari, il protagonismo delle realtà di base, auto-organizzate, di tutte
quelle esperienze che chiamiamo autonomie territoriali e che oggi più che mai
vogliono riprendersi il diritto alla decisione e lo spazio per agire le
trasformazioni.
Guardiamo oltre la linea dell’orizzonte e puntiamo a generare da ognuna di
queste autonomie, territori autonomi e confederati; con la testa ed il cuore
rivolti al Rojava, vogliamo lavorare insieme alla traduzione di quel modello di
autogoverno del territorio e di autodeterminazione sociale e politica,
consapevoli delle infinite differenze e discontinuità ma altrettanto convinti
della sua potentissima capacità evocativa e riproduttiva.
Sappiamo che purtroppo un report può restituire solo in parte la ricchezza e la
profondità della discussione viva e reale soprattutto quando questa, com’è
accaduto a Napoli sabato e domenica, compone una prospettiva complessiva,
avvalendosi dei contributi di tutti e tutte i presenti. Proveremo comunque ad
entrare il più possibile sia nel merito che nel metodo di una discussione che
ha messo al centro le domande radicali sul presente al fine di elaborare tracce
di discorso utili a ricostruire il tessuto della prassi, il pensiero politico
collettivo sulla contemporaneità e soprattutto nuove prospettive
organizzative.
Abbiamo cominciato a scrivere un libro che si interroga sull’agire. Abbiamo
l’ambizione di far sì che le pagine bianche di questo testo appena iniziato
siano scritte da tante mani diverse. Non ci interessano, semmai ci fosse ancora
bisogno di ribadirlo, cartelli, vecchi posizionamenti e arroccamenti su trincee
della teoria spesso conquistate dalla prepotenza della realtà in continuo
mutamento.
Con questo spirito abbiamo provato ad articolare il ragionamento a partire
dalle due suggestioni indicate dal documento di convocazione, mettendo al
centro della discussione da una parte l’azione e dall’altra quello che
riteniamo essere il suo immediato contesto: la crisi.
La crisi come forma di governo delle nostre vite, ormai normalizzate e messe a sistema, ma pure come paradigma modulare attraverso il quale si costruiscono di volta in volta le emergenze del nostro tempo, si modificano gli assetti generali e si generano nuovi rapporti di forza .
Crisi
finanziaria, crisi militare, crisi sociale sono solo alcune delle nomenclature
con le quali facciamo i conti da qualche anno e che, come abbiamo visto
immediatamente dopo gli attentati di Parigi, finiscono per fornire il
dispositivo retorico che avalla le più violente occlusioni degli spazi di
libertà ed i più drammatici arretramenti sul piano dei diritti. In questo
scenario è diventata ancora più pressante la cosiddetta “crisi ecologica” che,
sebbene venga ancora negata dall’establishment economico e politico globale,
negli ultimi decenni ha mostrato tutto il proprio potenziale distruttivo (di
pari passo con i cambiamenti climatici prodotti dal modello di sviluppo
capitalista) e si è affermata come contraddizione primaria del mondo contemporaneo.
La crisi, insieme con la pluralità di stati d’eccezione che ad essa
s’intrecciano, ha determinato in questi anni la rottura di qualsiasi mediazione
nel rapporto tra capitale, vita e natura e si è affermata come produttrice
inesauribile delle mistificazioni che un discorso potente di verità deve essere
in grado di smascherare. Un discorso tanto più necessario se si osservano
quelli che sotto i nostri occhi appaiono come effetti più o meno diretti
dell’uso strumentale dell’eccezione e della crisi stessa.
Per fare un esempio concreto crediamo (come sottolineato da più interventi) che
tra i “corpi viventi” colpiti nella del terrore parigino ci sia anche quel
movimento di centinaia di migliaia di donne e uomini che stavano organizzando
la manifestazione contro il COP21, per contestare la conferenza globale sul
climate change. Una manifestazione importantissima, in costruzione da anni
attraverso la cooperazione di attivisti ed attiviste di tutto il mondo che
hanno individuato l’urgenza e la priorità di una questione che ha a che fare
con la sopravvivenza biologica delle forme di vita sul pianeta. La crisi
climatica esprime in pieno l’attitudine necropolitica del capitale, disposto a
sacrificare impunemente sull’altare dell’accumulazione le vite di tutti e tutte
noi. Un’attitudine che va combattuta senza compromessi e senza mezze
misure.
Su questo
nodo vogliamo essere molto chiari.
Proprio guardando a quanto sta accadendo a Parigi in questi giorni e a come si
stanno concretamente traducendo le disposizioni anti-terrorismo in diverse
città europee, noi non accettiamo in nessun modo la proscrizione sistematica
delle piazze, a cui stiamo assistendo dal 13 Novembre, da parte delle forze
dell’ordine francesi, italiane o di qualsiasi altra parte d’Europa in nome
della sicurezza. Le decine di morti dell’attentato di Parigi non meritano di
essere utilizzate strumentalmente per costruire una nuova e ancor più pervasiva
macchina del controllo e della gestione delle nostre libertà. Per questo motivo
l’assemblea di Napoli ha ribadito più volte che laddove si decidesse, a Parigi
ma non solo, di violare qualcuno di questi stati di emergenza o qualcuna delle
prescrizioni che ne derivano, risponderemo alla chiamata e saremo pronti a
rompere con i nostri corpi ogni forma di coprifuoco di questa guerra che non è
la nostra guerra.
Questo è un
primo obiettivo.
Questo è esattamente quello che intendiamo con la necessità di demistificare la
crisi e l’emergenza attraverso l’agire ed è proprio a partire da queste
prospettive, che legano assieme la produzione di discorso e l’immediata
traduzione nelle pratiche collettive, che vogliamo cominciare a scrivere il
nostro libro e costruire una narrazione comune. Una narrazione che deve
essere in grado di rispondere coraggiosamente e complessivamente al bisogno di
ricostruzione di un alfabeto comune, riproducibile ed utilizzabile da tanti e
tante, ma soprattutto capace di potersi fare contro-condotta confederabile. Le
pratiche descritte ed invocate nel corso dell’assemblea mai si attestano sulla
sottrazione individuale alla gabbia del modello di sviluppo vigente, ma
immediatamente individuano un comune, che non vuole essere sintesi, ma prassi
collettiva anti e contro-capitalista.
Siamo convinti che questa prospettiva sia l’unica ragionevole al fine della
trasformazione radicale dell’esistente, in questa fase non espansiva del
capitale, in cui saltano progressivamente tutte le mediazioni costruite dalle
lotte sociali nel corso del XX secolo ed in cui le biografie individuali sono
scandite da solitudine e, sempre più spesso, da disperazione.
Tra la
disperazione e la speranza noi scegliamo la speranza.
La nostra speranza è collettiva, sempre, ed è anticapitalista perché la sua
realizzazione non è compatibile con i regimi di sfruttamento, qualunque sia la
loro natura.
E’ una speranza che guarda il modo originario della decisione, che ha
profondamente a che fare con la democrazia, con la ricostruzione del suo ordine
di discorso e con la sua effettiva riconquista sul terreno delle autonomie territoriali
e sociali.
In questo senso siamo convinti che il divorzio radicale del capitale con la sua
forma mediata ed elettiva ci imponga di riassumere in tutta la sua radicalità
proprio il senso della battaglia per la stessa democrazia.
Viviamo in un’era post-democratica e di rinnovati ed inediti autoritarismi. Ne
abbiamo avuto prova innumerevoli volte ed attraverso un’infinita quantità di
pratiche di dismissione del diritto alla decisione. Pensiamo ai diktat delle
governance finanziarie, ai memorandum imposti agli Stati, alla costruzione
degli innumerevoli stati di emergenza, alla gestione arbitraria delle
frontiere, all’innalzamento verticale delle pene per chi lotta, al superamento
della pratica elettiva delle figure di governo, all’imposizione di modelli
autoritari nei luoghi di lavoro e della formazione o ancora allo svuotamento di
sovranità delle istituzioni di prossimità, fino ad arrivare, come mostra
drammaticamente il caso greco, al non riconoscimento dell’autonomia decisionale
dei governi nazionali, seppur legittimamente eletti.
Per tutte
queste ragioni confederare le autonomie, ancora una volta ispirandoci
convintamente all’esperienza del Rojava, vuol dire mettere al centro la
questione della decisione collettiva, della sua efficacia e dei suoi luoghi. Ma
vuol dire anche determinare le condizioni per la nascita di un potere
costituente, che sia in grado allo stesso tempo di sovvertire le istituzioni
del capitale e fondare istituzioni del comune.
Sappiamo bene che quando questa cosa si fa sul serio e non è un esercizio
retorico sui metodi e sulle possibilità della partecipazione, ha innumerevoli
nemici e lo Stato si organizza per fermarla con ogni mezzo necessario.
Così come sappiamo che la torsione in senso autoritario della governamentalità
contemporanea in generale non tollera chi prova a sovvertire le regole del
gioco.
Assistiamo quotidianamente alla perpetuazione di modelli di gestione
dell’ordine pubblico nelle piazze dal volto sempre più efferato e punitivo,
all’utilizzo di pene fuori da ogni proporzione e di ogni garanzia, persino
“liberal-democratica”, per chi contesta l’operato dei governi, a sgomberi
coatti di spazi che da anni forniscono risposte concrete all’assenza di tutele
sociali da parte del pubblico e in ultima analisi, con uno sguardo rivolto
all’attualità, all’utilizzo delle norme anti-terrorismo per fermare l’azione
dei movimenti sociali. Pensiamo alle sperimentazioni condotte in questi anni
sul movimento No Tav e su quello per il diritto all’abitare per avere un’idea
di come questi dispositivi si inscrivano con violenza nelle biografie degli
attivisti e delle attiviste.
Per questo
motivo abbiamo voluto aprire i lavori con un focus point che tematizzasse la
problematica delle azioni giudiziarie e restrittive contro i movimenti: è necessario
avviare strategie di difesa in grado, attraverso l'elaborazione di proposte
concrete di azione e di rivendicazione, di tutelare le strategie di attacco.
Dalla discussione è emersa l'urgente necessità di far convergere ed elaborare i
dati che riguardano i provvedimenti a carico degli attivisti e delle attiviste
in Italia per costruire, a partire da essi, una campagna, volta a denunciare
l’uso strumentale delle nuove forme di occlusione degli spazi del dissenso e
all’abolizione, o al drastico ridimensionamento delle pene, di un primo nucleo
di reati di genetica fascista sistematicamente utilizzati come macchine
carcerogene contro i movimenti. Tra i reati da cancellare dal codice penale un
posto privilegiato deve essere riservato a quello di devastazione e saccheggio,
un reato che oltre ad essere fonte inesauribile di pene altissime è spesso
utilizzato proprio contro quegli attivisti ed attiviste che si battono contro
l’effettiva devastazione e saccheggio del proprio territorio. Come una beffa.
La gravità e la specificità della situazione repressiva sedimentatasi in Italia
nel corso degli anni e destinata ad un ulteriore e rapido peggioramento,
richiede a noi tutti in grande sforzo: è necessario rilanciare il tema
dell'amnistia e dell'indulto come rivendicazioni politiche e di riaprire una
sfera di garantismo attivo in grado di sollevare anche in sede europea il “caso
Italia”, che oltre al dramma delle condizioni carcerarie comprende anche la
problematica delle detenzione politica e della violazione delle fondamentali
garanzie penalistiche.
Quando pensiamo alle pratiche e agli spazi della contestazione abbiamo sempre
come priorità la loro costruzione collettiva, una costruzione che sappia
innanzitutto difendersi con la produzione di discorso pubblico. Continua a non
interessarci l’avanguardia, né nella teoria né nella prassi, ma l’internità ai
processi sociali e la moltiplicazione delle pratiche di boicottaggio,
sabotaggio e opposizione che già si danno nei territori resistenti. Da questo
punto di vista non dobbiamo inventare niente di nuovo, ma dobbiamo certamente
lavorare per la ricostruzione del consenso largo e della comprensione diffusa
attorno all’illegalità legittima.
In un mondo in cui la legge si palesa sempre più come cornice dell’ingiustizia,
è necessario che la sua violazione sia accompagnata sempre da una adeguata e
potente narrazione che sulla legittimità moltiplichi la resistenza.
Ebbene, quali capitoli e quali pagine di questo libro cominceremo a scrivere lo
suggeriscono da subito le lotte sociali, le campagne, gli interventi sui quali
chi era presente già concentra la propria attività quotidiana.
La difesa della libertà di movimento per tutti gli uomini e le donne del pianeta, il rifiuto radicale per il privilegio della cittadinanza bianca e per i confini, interni ed esterni, della fortezza Europa oggi più che mai impongono di interrogarsi collettivamente su come modificare nel profondo le regole dell’accoglienza e della permanenza degna ed in generale tutte le politiche sulle migrazioni imposte dall’Unione Europea. Un altro nodo centrale di azione nella crisi è rappresentato dalla sperimentazione di pratiche di neo-mutualismo, che non siano autoreferenziali e utili solo alle comunità che le mettono in atto, ma si pongano come obiettivo quello di riarticolare le lotte per il diritto all’abitare, al reddito ed al Welfare partendo dalla valorizzazione di legami sociali instaurati nei quartieri, nelle città e nei territori. In questo senso la messa in comune di tutte le esperienze legate allo sport popolare ed antirazzista viene affermata come necessità per intrecciare il neo-mutualismo con il diritto, per tutti e tutte, di praticare attività sportiva e costruire, attraverso lo sport, nuovi modelli di aggregazione sociale. Altri temi affrontati riguardano l’opposizione al nuovo autoritarismo che si sperimenta nei luoghi della formazione; la costruzione di un discorso comune, coraggioso e radicale, sulla guerra asimmetrica, sulle resistenza e sulle prospettive di trasformazione dei territori che abitiamo; l' individuazione di una prospettiva e di un metodo comune per affrontare il tema del governo ogni qual volta si pone nelle agende dei movimenti e rischia di deviarle verso percorsi inefficaci.
Se quello che metaforicamente abbiamo chiamato "libro" ci immaginiamo che possa avere come titolo "Agire nella crisi", allora possiamo già da subito iniziare a scriverne i primi capitoli: "Difenderci nella crisi", "Sapere nella crisi", "Migrare nella crisi",... e così via, dove le pagine bianche da riempire siano le strade e le piazze dei nostri territori, ma anche i luoghi in cui costruiamo un'efficace relazione organizzativa tra le strutture che su quei “territori tematici” sviluppano il loro intervento.
Un "libro" che non può che avere nella sua prefazione l'assunzione della crisi climatica come paradigma della crisi stessa, che ci impone da subito un impegno, un compito storico: agire contro il capitalismo, cambiare il sistema, riprendere nelle nostre mani il futuro.
Confederare le autonomie sarà un percorso lungo e tutto da costruire, ma a Napoli abbiamo deciso di cominciare subito, a partire dai vari terreni di intervento sui quali siamo già impegnati, per intrecciare teoria e prassi e ricercare insieme con tutte quelle realtà di movimento che vorranno con noi mettersi in gioco, le forme dell'agire confederato nel rispetto di tutte le autonomie, convinti che la ricchezza delle esperienze diverse, la sincronia e non la sintesi, siano la base necessaria e imprescindibile per dare possibilità alla speranza.
Il prossimo appuntamento, tra gennaio e febbraio del 2016, non sarà un momento vuoto e ripetitivo, ma la verifica di un primo tratto già percorso insieme, la messa in comune delle "bozze" della prima scrittura.
Per cominciare non ci sembra poco.
Con questo testo, che davvero consideriamo non esaustivo, abbiamo provato a restituire un pezzo del mosaico di intenti e ragionamenti che abbiamo composto durante le assemblee di sabato e di domenica.
Ora però abbiamo una gran voglia di rimetterci in cammino, con la gioia e la passione ribelle di sempre, con quella indomabile passione per le strade e con una irrefrenabile voglia di riscrivere il presente confederando sempre più esperienze, storie e percorsi!