Riflessioni da Napoli sulla MayDay NoExpo

6 / 5 / 2015

La trappola dell’evento

Sono passati solo cinque giorni da sabato eppure la nostra presa di parola pubblica come soggettività cittadina sul corteo NoExpo si incastra già dentro un panorama vastissimo di letture, riletture, condanne, esaltazioni, spunti di riflessione sulla fase politica dettata dal post. Abbiamo letto e ascoltato con estremo interesse moltissimi dei contributi apparsi in rete in queste ore, a partire da quelli delle realtà autorganizzate passando per quelli dei commentatori del main stream, il complottista Travaglio, il tuttologo Saviano, il fantasioso Ichino, il forcaiolo Lerner, il pedagogo Allevi, l’esuberante Fedez.  Ebbene, proprio alla luce del dibattito sviluppatosi sui giornali e in televisione, quello così povero da aver fornito la cornice discorsiva ai solerti cittadini milanesi armati di spugnetta, ci pare che una lettura esclusivamente evenemenziale dei fatti accaduti in piazza finisca per renderci complici del medesimo dispositivo mediatico che sta progressivamente cancellando la straordinarietà del dato di partecipazione al corteo e le sacrosante ragioni dei NoExpo.
Proprio per questo proviamo a partire da lontano e a ripercorrere la strada che abbiamo battuto nei mesi precedenti e che ci ha spinti a dare importanza al Primo Maggio milanese. La nostra non è stata una scelta casuale, né dettata dall’inerzia con cui talvolta si assumono le scadenze nazionali. Lo abbiamo fatto perché individuiamo in Expo un modello di shockeconomy che, attraverso l’incessante produzione di deroghe e commissariamenti, ha sperimentato una gestione del territorio (nel caso di specie della macro-area metropolitana milanese) che asfalta il diritto alla decisione dei cittadini. Una tracotanza che nel paese del capitalismo straccione è condita dalle continue inchieste per appalti truccati e dagli innumerevoli episodi di infiltrazioni mafiose dentro i vertici gestionali e amministrativi del grande evento. Questo innanzitutto a dimostrazione del fatto che il fenomeno mafioso, nonostante l’operazione di costante razzializzazione a cui viene sottoposto, non parla solo con accento meridionale, ma è, come diciamo da anni, una delle modalità principali di accumulazione economica dell’intero paese.  Anzi, come dimostrano proprio fenomeni come Expo, la Tav o ancora Mafia Capitale parliamo piuttosto di una forma di governo e gestione dell’economia italiana pienamente conforme alla deregulation neoliberale, che si muove agevolmente tra legale ed illegale a forza di tutele fornite dalla politica e dalle grandi lobby industriali del nord e del centro. 

Il modello Expo, ne siamo convinti, è una versione formalmente espansiva di altri, altrettanto violenti, meccanismi si accumulazione selvaggia basati su shock e deroghe. Il meridione ne ha conosciuti moltissimi negli ultimi anni. Sono gli stessi meccanismi che l’approvazione del decreto SbloccaItalia consacra a sistema e normalizza definitivamente. Il modello Expo è stato d’altra parte anche un escamotage per accelerare drammaticamente i processi di espulsione delle soggettività subalterne dal centro città e per “ripulire” lo stesso centro da tutte le espressioni più o meno evidenti delle povertà metropolitane. Da questo punto di vista l’impennata dei prezzi degli affitti, gli sgomberi progressivi delle occupazioni abitative e non, gli sfratti continui e coatti, sono effetti non collaterali del modello in questione. Expo, lo hanno detto in tanti e non ci stanchiamo di ribadirlo è stato anche, a proposito di politiche del lavoro, un laboratorio di sperimentazione dei meccanismi precarizzanti e di sfruttamento istituzionalizzati dal governo Renzi nel Jobs Act. Molto tempo prima della formale approvazione della legge delega e della promulgazione dei primi decreti attuativi, i sindacati confederali firmavano accordi per rendere possibile l’assunzione di migliaia di lavoratori “volontari”, a titolo completamente gratuito, e di stagisti sottopagati, chiamati di fatto a tenere in piedi l’intero carrozzone del grande evento, in modo da massimizzare i profitti delle società vincitrici degli appalti. Tutto questo senza considerare che Expo è un affare tutto fondato sul debito e sul drenaggio indiscriminato ed irrefrenabile (perché soggetto alla perpetua retorica dell’emergenza) di risorse pubbliche che avrebbero potuto essere investite nelle infrastrutture o nelle politiche sociali soprattutto al meridione avvilito da un impoverimento progressivo e drammatico e da un’assenza totale di pianificazioni economiche efficaci. Invece si è preferito costruire inutili bretelle autostradali attorno alla città di Milano, sulle quali passano poche decine di auto ogni giorno e che si ascrivono solo nell’infinita lista delle grandi opere inutili di cui il paese è pieno.

La sfida tradita alla Repubblica della paura

Motivi per attraversare il paese e confluire nell’immensa piazza milanese ne avevamo quindi moltissimi. Come noi, le trentamila persone che hanno riempito la piazza del concentramento iniziale del corteo affluendo da ogni dove e prendendosi letteralmente gioco della Repubblica della paura che nelle settimane precedenti aveva inventato mille artifici per incutere la giusta dose di terrore che distogliesse l’attenzione dalle ragioni della protesta. Ognuna di quelle persone sapeva che la giornata poteva assumere dei risvolti imprevedibili eppure nessuno per questo ha scelto di rimanere a casa e la costruzione preventiva dell’immaginario dell’apocalisse non ha funzionato. Questa disponibilità collettiva alla mobilitazione in una giornata così tesa, riteniamo sia un dato non eludibile, dal momento che nessuno prima della fine del corteo, avrebbe potuto scommettere su quale modalità di gestione della piazza avrebbero scelto i vertici del ministero degli Interni e anzi i segnali delle ore precedenti al corteo non facevano presagire nulla di buono. Forse, da questo punto di vista, ci sentiamo di dire che la maggiore responsabilità di chi ha scelto di praticare in quella giornata azioni non comprensibili e non condivisibili dallo stesso corteo, sta nel non aver colto (e dunque rispettato) lo sfrontato coraggio che caratterizzava la composizione eterogenea della manifestazione. A conferma di quanto affermiamo riportiamo ancora due dati che riteniamo esemplificativi. Il nostro spezzone, quello che si auto-definiva #scioperiamoExpo e che era caratterizzato dalle pettorine gialle che denunciavano il lavoro gratuito per il grande evento, ha scelto di sanzionare la sede della Commissione Europea milanese, perché abbiamo ritenuto i fatti accaduti nel canale di Sicilia troppo gravi per restare fuori dalla comunicazione di un corteo così importante. L’Europa con la sua politica di gestione delle frontiere è un’istituzione responsabile delle stragi e come tale meritava una forma di reazione che sancisse il nostro radicale rifiuto verso l’abitudine alla barbarie. Se la stampa ha deliberatamente scelto di cancellare questa azione dalle immagini mandate in loop è perché avrebbe fatto vacillare la retorica della violenza insensata e gratuita. Riteniamo altrettanto significativo un altro dato che abbiamo registrato camminando e correndo nella pancia di quell’immenso corpo collettivo: quelle stesse migliaia di persone che caparbie hanno battuto le strade del centro per ribadire e sancire il proprio diritto al dissenso, non si sono fatte disperdere né intimidire dal massiccio uso di lacrimogeni Cs (considerati armi da guerra e dichiarati illegali dal 93) con cui la polizia ha costantemente gasato il corteo. Hanno continuato a camminare o a correre in cerca degli spezzoni che non si fermavano ma che continuavano a manifestare senza farsi demotivare da quanto accadeva alle spalle. Anche questo è un dato non di poco conto. Una determinazione di cui facciamo tesoro e che serve a scrollarci di dosso molti degli umori tristi imposti dalla stampa e a recuperare le cose davvero significative per noi.

Il campo da gioco

Ma veniamo ai riot, o a quella che più modestamente ci è sembrata una demo di un videogioco al livello uno.

A mo’ di premessa e a scanso di equivoci affermiamo anzitutto che per noi esistono solo due tipi di pratiche: quelle spontanee e quelle organizzate. Nel mezzo non ci sono zone grigie. Senza questa distinzione non ci si situa correttamente in questo complesso e pericoloso dibattito.

Le pratiche spontanee non le giudichiamo mai. Piuttosto proviamo a leggere le soggettività che le mettono in opera, proviamo ad attraversarne i segmenti e, se possibile, a determinarne la maggiore o minore efficacia. Non sempre questa operazione riesce ma fa parte della capacità di inserimento nei tessuti sociali delle organizzazioni politiche, soprattutto di quelle che rifiutano di costruire avanguardie a ridosso dei segmenti sociali reali. Da questo punto di vista il riferimento che molti hanno fatto negli scritti pubblicati in questi giorni ai riot (veri) di Baltimora non è ascrivibile a mera passione per l’esotico ma è una corretta sottolineatura di una differenza. Quando una soggettività subalterna, messa all’angolo dalla continua ridefinizione capitalista degli spazi urbani e dei processi di inclusione, decide di riappropriarsi delle strade da cui viene espulsa costantemente e per operare questa riaffermazione finisce per distruggere dei pezzi di città, a nessuno (onesto intellettualmente) verrà in mente di leggere come gratuite quelle fiamme o quelle vetrine in frantumi. Quella soggettività sta scrivendo la propria città, la propria banlieu, il proprio territorio e lo sta facendo rispedendo al mittente la violenza della vita dei subalterni e della cittadinanza di serie b. Quello che può succedere davanti a quegli episodi è l’apertura di una discussione (come abbiamo visto accadere a ridosso delle ultime rivolte nelle periferie londinesi del 2011) sulla capacità costituente di quei riot o di quelle fiamme, ma a nessuno certamente verrebbe in mente di definire quella distruzione come fiotto nichilista, edonista, egocentrico, insensato. Non ci sarebbe e non c’è mai stato, in quei casi, lo spazio mediatico per il perbenismo feticista della proprietà, perché, banalizzando, certe modalità di rivolta appaiono immediatamente segnate da una eclatante questione di classe. Questo accade perché siamo convinti che esista un nesso ineludibile tra riot e territorio che non si mistifica né si riproduce in un campo da gioco di una data nazionale, in un centro città il cui perimetro è definito dalle reti della zona rossa ed in cui, per giunta, l’ordine pubblico sceglie di lasciar fare.

Dal nostro punto di vista, ci teniamo a ribadirlo, il problema dunque non è la pratica in assoluto, astratta dal contesto.  Non ci indigna la distruzione quando la agiscono mani e braccia che si sollevano contro la violenza del capitale sulle vite. Il nostro posizionamento ha però ha che fare con la distinzione iniziale tra spontaneità e organizzazione, tra soggetti politici e sociali, semplificando per una volta la questione dell’evanescenza del confine, che in questo caso rischia di rappresentare un alibi. A Milano sabato non si è data alcuna pratica spontanea di distruzione della città vetrina da parte delle soggettività irrappresentabili e subalterne. A Milano sabato un’opzione politica precisa, legittima e che però non condividiamo, ha determinato il destino di un corteo estremamente significativo e ha messo a dura prova il lavoro della rete No Expo per i mesi a venire. Questo è il dato oggettivo. E’ da questa miopia, che per altro si presta così evidentemente alla funzionalità del potere, che ci sentiamo di segnare una distanza e probabilmente un’incompatibilità.

No Expo in ogni città

Distanza ed incompatibilità che però non crediamo abbia senso sancire semplicemente dentro gli ambiti del dibattito interno alle realtà auto-organizzate. Piuttosto crediamo che la possibilità dell’egemonia che permette di imporre pratiche condivise la sanciscano inevitabilmente i rapporti di forza che un’opzione è in grado di giocare nella società.  Auspichiamo che i fatti di Milano servano da lezione a tutti perché, indipendentemente da come la si pensi nel merito dell’accaduto, è innegabile che la giornata sia stata di fatti una disfatta per tutti noi No Expo e un pasto gettato deliberatamente nelle fauci del mostro mediatico che ha poi prodotto solo notizie banali centrate sull’antropologia del black block, facendo di fatti sparire ogni legittima critica al grande evento. Su quel crinale lì non vince nessuno, neppure gli apologhi della rabbia sociale e soprattutto, attenzione, si presta il fianco ad un silenzio assordante e ad una incredibile solitudine quando la macchina repressiva comincia a muoversi, come ha già cominciato a fare in queste ultime ore. Pene severissime ed esemplari vengono comminate ai fermati quel giorno, senza che la notizia riesca a bucare il muro dell’indignazione di quelli che erano troppo impegnati a pontificare sulle vetrine e le auto distrutte.

Ecco perché auspichiamo soprattutto che Expo non diventi un taboo, un rimosso, una battaglia persa il primo giorno, perché questa sarebbe la più drammatica delle sconfitte. Auspichiamo che se alcune immagini si sono effettivamente impresse nella memoria come uno storico punto di non ritorno, questa consapevolezza serva soprattutto a creare gli anticorpi necessari a che non accada più che qualcuno possa scendere in strada a cancellare le scritte che ricordano Carlo. Quando i muri sono puliti e i popoli muti ha vinto la città del decoro e del “tua culpa”. Ci pare tuttavia, e questo è il privilegio di scrivere con qualche giorno di ritardo le nostre considerazioni, che le realtà milanesi si siano già rimboccate le maniche e stiano provando faticosamente a ricostruire un campo aperto per il dissenso che rispedisca al mittente le proposte di occlusione degli spazi democratici che dopo sabato vengono continuamente proposte dal ministero degli interni, dai commentatori della stampa e dalle destre.

Noi abbiamo tutta l’intenzione di darci da fare, insieme con i nostri fratelli e sorelle milanesi, per riaprire il cantiere del dissenso e della pratica conflittuale contro Expo. Ci sono sei mesi, tanti appuntamenti e delle micro-declinazioni del grande evento sui nostri territori. Aggrediremo quel terreno prima di ogni altro, per ricostruire agibilità e consenso intorno alle nostre sacrosante ragioni.

Le comunità ribelli del Lab. Occupato Insurgencia e di Mezzocannone Occupato