Sciopero docenti: affinità-divergenze fra professori e noi studenti

16 / 9 / 2017

Un documento del collettivo universitario Li.S.C. di Venezia sullo sciopero dei docenti universitari che prevede, a partire dalla sessione di settembre, il blocco degli esami per chiedere la riapertura degli scatti d’anzianità e finanziamenti alla ricerca e che andrà avanti fino al 31 ottobre.

Correva l’anno 2010 quando la riforma Gelmini interveniva a bloccare gli scatti salariali nella pubblica amministrazione, reintegrati e rimborsati in forma ridotta solo a partire dal 2016 e limitatamente al 2015. Corre l’anno 2017 e docenti ordinari, associati e ricercatori delle università italiane aderenti al Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria decidono per uno sciopero nazionale di 24h in occasione del primo appello della sessione autunnale.

Nonostante il numero di firmatari tra Ca’ Foscari e IUAV non sia tra i più significativi d’Italia (33 sottoscrizioni formali contro le 136 dell’Università di Palermo e le 382 degli atenei milanesi), a Venezia l’azione risulta potenzialmente più efficace in termini di disagio che in molte altre città. Negli ultimi quattro anni, le politiche cafoscarine hanno operato un drastico taglio del numero di appelli, ridotti a uno solo durante la sessione autunnale: considerando il numero di scadenze burocratiche che accompagnano l’inizio dell’anno accademico - iscrizioni alla sessione di laurea, conseguimento dei CFU necessari per le borse di studio ESU etc. - mancare quell’unico appuntamento può ostacolare nei fatti il nostro percorso universitario.

Arrecare disagio a un’utenza è sicuramente prerogativa di qualsiasi sciopero, così come minimizzarne portata e conseguenze è tentativo strutturale degli organi cui effettivamente tale azione si rivolge[1]. Alla vigilia del rientro dalle vacanze, l’Ufficio Servizi agli Studenti rassicurava tutti gli iscritti informandoli che «per minimizzare i disagi» sarebbe stata garantita una proroga al 14 ottobre per la verbalizzazione degli esami e la maturazione dei requisiti di merito per le agevolazioni economiche. I professori poi che avessero aderito, sarebbero stati tenuti a garantire un appello straordinario a partire dal quattordicesimo giorno dalla data dello sciopero (provvedimento peraltro previsto già nell’appello del Movimento).

Più che «minimizzare i disagi», l’impressione che se ne trae è di un’università garantista e rispettosa delle esigenze dei suoi studenti. L’impressione che se ne trae è di un apparato potente, capace in poco tempo di adattarsi a situazioni di emergenza, di rimodellare norme ad oggi considerate insindacabili. Come il numero e le scadenze degli appelli.

Il rettore Bugliesi, intervenendo sullo sciopero, non ha reagito a una reale situazione di emergenza, ha solo posticipato di 15 giorni il normale corso degli eventi: l’interruzione della didattica non è una vera anomalia.

Aderendo a un modello tipicamente anglosassone e nord-europeo, l’ateneo veneziano ha imposto il numero di quattro appelli per anno, la partizione in “periodi”, le sessioni di 8 giorni. Il tutto nel convulso tentativo di concentrare le normali attività universitarie nel minor tempo possibile e ricavare tempi e spazi da destinare a progetti come le Summer School. In quest’ottica, il “disagio” non è il ritardo di un appello, è la prassi che comprime la didattica, limita gli spazi di approfondimento e troppo concede alla sponsorizzazione del brand università. Per la prima volta dopo molti anni, alcuni studenti hanno potuto usufruire - beneficiare, in effetti! - di una sessione autunnale prolungata, preparare con più disinvoltura due esami senza che le date fossero troppo ravvicinate o, addirittura, coincidessero. Perché se su sollecitazione di poche decine tra professori e ricercatori è stato possibile prorogare le scadenze, nulla si è fatto dietro le ben più pressanti richieste degli studenti che negli ultimi anni hanno lottato per il ripristino degli appelli? Perché al rettorato non è ancora chiaro che il disagio da «minimizzare» è la normalizzazione del disagio stesso, non lo slittamento straordinario di una data? Il provvedimento necessario non è salvaguardare l’unico appello, ma aggiungerne uno ragionevolmente distante dal primo. Disposizione non difficile da attuare, stanti la rapidità con cui le segreterie hanno modificato le scadenze di settembre e la disponibilità a sostenere esami in date concordate che, da studenti, abbiamo spesso riscontrato nei docenti.

Nell’appello diffuso il 28 agosto, il Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria non si limita a rivendicare scatti salariali e finanziamenti alla ricerca, ma parla chiaramente di «diritto allo studio mortificato» e di necessità di «dedicare altro tempo proficuo e prezioso alla didattica». Sono rivendicazioni che, in quanto studenti, ci appartengono: non vogliamo assistere oltre alla mortificazione dell’università, allo svilimento della formazione. Pensiamo a una didattica che non debba costringersi tra limiti imposti da operazioni di marketing, burocrazie eterne e frustrazioni, ma a spazi di condivisione e confronto in cui il libero sapere sia compartito.

Tra le istanze del corpo docente, si legge della necessità di non vivere più «in un clima di lavoro avvelenato di “lotta fra poveri”»: è sbagliato però pensare che le parti in guerra arruolino solo professori e ricercatori. Lo smantellamento del welfare universitario riguarda in prima battuta noi studenti, relegati al ruolo di utenti/clienti del prodotto educativo, mentre i nostri dipartimenti assumono sempre più tratti aziendali in un’università che assomiglia a un laureificio.

Per questo motivo la scelta di uno sciopero in simili termini ci sembra aprire un nuovo fronte di conflitto con una fazione - la nostra - contro cui accanirsi è inutile e controproducente.

Se un obiettivo condiviso è il miglioramento del sistema formativo, che si scelgano forme di rivendicazione comuni: si lotti contro l’apparato amministrativo, senza fornirgli soluzioni atte a minimizzare gli effetti delle azioni di blocco, si chiedano con noi appelli in più, tempi e spazi per la didattica e il libero scambio dei saperi, finanziamenti e facilitazioni per lo studio e la ricerca, si riaffermi l’estraneità dalle logiche imprenditoriali che ci obbligano a lavorare gratis in cambio di crediti. Si ribadiscano le istanze di chi, come i ricercatori, è costretto a vivere l’università tra precariato e compromessi.

Lo strumento dello sciopero radicale è condivisibile, ma perde credibilità quando è agito contro chi paga le conseguenze delle stesse riforme e provvedimenti, assumendo pericolosi connotati di una battaglia di retroguardia di chi si aggrappa ai propri privilegi.



[1] Per un ulteriore approfondimento sulla questione si veda: F. Galmeni, F. Biagi, Sciopero dei docenti e ricercatori universitari. Di cosa stiamo parlando?, Globalproject.info, 9 agosto 2017