La lotta del Coordinamento giornalisti precari della Campania

Se il giornalista non è infame ma precario

di Giuseppe Manzo

10 / 9 / 2011

In Campania l’80 per cento dei giornalisti (professionisti, pubblicisti e aspiranti tali) percepisce un compenso mensile da 0 a 500 euro. Il 36 per cento di questi lavora gratis. Questi numeri si inseriscono in un dato nazionale che vede il 50 per cento degli operatori dell’informazione in una condizione contrattuale “indefinita”, come ha dichiarato il presidente della Fnsi Roberto Natale. Per definirci usano la parola free lance che ha un senso solo oltre i confini nazionali e che da noi vuol dire semplice disoccupato-precario. I numeri citati sono stati alla base della prima iniziativa pubblica del Coordinamento giornalisti precari della Campania (www.cronisti.info) nel febbraio 2010. L’obiettivo era comunicare una cosa tanto banale quanto complicata: in questo Paese non esistono solo i Vespa-Fede-Minzolini-Santoro-Travaglio, pagati a suon di euro per una puntata o un pezzo.

 

Il nostro percorso è iniziato in maniera singolare. Prima 10, poi 20 e ancora 30 colleghi della carta stampata, radio-televisione e web, a partire dal gennaio di quell’anno iniziarono a riunirsi nei posti più disparati: le catacombe di San Gennaro e Napoli sotterranea. Si tratta di luoghi, che per puro caso, definivano in senso fisico il sommerso di questa professione e la clandestinità della condizione agli occhi dell’opinione pubblica. Grazie ai social network (facebook in primis), lungo questo percorso si è costruito un vero e proprio network in rete con altri Coordinamenti territoriali (Friuli, Veneto, Emilia, Roma e Abruzzo). Ma con la differenza che la quasi totalità dei campani non si è mai iscritta al sindacato unitario. Il bisogno di rappresentanza, mutuo soccorso e conflitto sono stati la base su cui si è sviluppata un’esperienza di lotta atipica che ha dovuto colmare un vuoto sindacale. Abbiamo prodotto dossier contro i corsi-truffa, veri e propri pacchi venduti a fino a 3mila euro a ignari giovani laureati con la promessa di diventare i nuovi Travaglio. Abbiamo prodotto i dati delle “fabbriche delle illusioni” dei Master in giornalismo (ben 2 in Campania): vere e proprie scuole di precarietà pagate fino a 15mila euro in due anni. Abbiamo bloccato la nascita di un terzo master nella provincia di Avellino e uno in “giornalista enogastronomico” dell’università Suor Orsola Benincasa. Abbiamo avanzato proposte per le tariffe minime, per la tutela contrattuale e previdenziale. Ci siamo opposti alla nascita della web tv del Comune di Napoli nella primavera del 2010 affidata a un  pensionato 70enne. Pensionati, del resto, che affollano le redazioni a peso d’oro accanto a giovani abusivi pagati una miseria. La vertenza che abbiamo aperto ha scatenato da una parte le ire dei colleghi di destra e il disorientamento totale di quelli radical-chic che scendono in piazza contro il bavaglio ma non battono ciglio per  l’abusivo seduto accanto a lui in redazione. Poi ci siamo opposti contro l’accordo Regione-Assostampa sull’apprendistato: una ennesima pioggia di soldi a piccoli e grandi editori che non risolve il problema dello sfruttamento

 

A distanza di 18 mesi abbiamo creato un’associazione che conta 150 iscritti e oltre mille sostenitori. In questo arco di tempo alcune testate hanno chiuso per le brame di editori rapaci (vedi Epolis) e tante riversano in uno stato di crisi. Per la prima volta, gli organismi professionali hanno chiamato alcuni appuntamenti sul tema della precarietà, strappati dalle nostre contestazioni e dalle nostre denunce. Il 12 settembre a Napoli si terranno gli Stati generali dell’editoria campana in cui porteremo una piattaforma con proposte precise. Questa data prepara quello nazionale del 7 e 8 ottobre a Firenze per la stesura di una nuova Carta: quella della dignità professionale e contro la precarietà. Andremo a questi appuntamenti illustrando i cambiamenti ormai irreversibili di questa professione, sempre più multimediale ma sempre indispensabile.

 

Eppure, al centro del nostro percorso, abbiamo superato i confini professionali. Nel tempo ci siamo messi in rete con movimenti, comitati di precari e soggettività che alimentano la lotta di una generazione intera. Siamo consapevoli che la prima vittoria sarebbe stata quella di smontare l’immagine del giornalista-mito verso quella di un lavoratore-professionista che svolge un ruolo delicato: avere tra le mani il bene comune dell’informazione. E siamo consapevoli, inoltre, di essere parte integrante di una generazione costretta a pagare una crisi che non ha prodotto e si ritrova sulle spalle l’attacco vergognoso dell’articolo 8 della manovra finanziaria. Per questo siamo ancora consapevoli del bisogno di aprire una fase di “indignazione” come hanno fatto in Spagna e nei paesi del Mediterraneo.

 

Infine abbiamo accettato anche un’altra sfida. Nella scorsa primavera, durante la ricerca di una sede nel centro cittadino, è stato proposto e poi affidato al Coordinamento un bene confiscato alla camorra dalla precedente Amministrazione comunale. La scelta è giunta dalla consapevolezza che oltre la lotta e il conflitto è necessaria l’assunzione di responsabilità del fare. In quel basso ai Quartieri spagnoli, sottratto al clan Mariano, vogliamo costruire la “Casa del giornalista” e restituire uno spazio sociale e culturale a quel rione e a quella città. Ci proveremo senza smanie di facili eroismi, né tantomeno attraverso le retoriche dell’anticamorra ma solo con la volontà di misurarci con le contraddizioni della nostra metropoli e consapevoli delle difficoltà ambientali che avremo di fronte. Ci proveremo anche perchè nel nostro simbolo è impressa la Mehari di Giancarlo Siani: giornalista abusivo e precario di 26 anni ucciso nel 1985 dai clan perchè nel silenzio faceva semplicemente il suo mestiere. Ecco, abbiamo provato a riaccendere quella Mehari e farla ripartire in nome dei diritti, del diritto all’informazione e alla libertà di stampa.