Su Cona: la rivolta dei corpi, esodo e dignità

27 / 11 / 2017

La vicenda dei profughi migranti in fuga dal campo-carcere sociale di Cona ci impone una riflessione profonda, ad ampio respiro, che incide sulla nostra stessa soggettività e visione del mondo, svelando fino in fondo i dispositivi del comando imperiale da una parte, le forme delle resistenze bio-politiche dall’altra.

Nel nostro immaginario la rivolta è associata ai tumulti, alle insurrezioni, al conflitto radicale contro il potere; che rivendichiamo come diritto, in ogni tempo ed in ogni luogo, contro l’ingiustizia, lo sfruttamento, l’oppressione.

Ma oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo, nuove narrazioni della resistenza, che da materialisti dobbiamo comprendere e da cui dobbiamo trarre insegnamenti per l’azione politica. Qui si tratta di una rivolta sotto forma di esodo, la fuga da tutti i luoghi dell’oppressione  attraverso i confini e dentro i confini di Stati, nazioni, territori sotto la spinta più potente ed irriducibile che la natura umana conosca: il desiderio di libertà. Proprio per questo si tratta di una rivolta dei corpi di estrema radicalità, che supera ogni limite legislativo e norma di comando, ogni decreto o gabbia burocratica ed esprime una contraddizione insanabile nel cuore  dell’Impero.   

«Voi  non immaginate cosa può un corpo», così disse Spinoza. Quale potenza esprime una moltitudine di corpi accumunati nella resistenza collettiva per la libertà, trasformando l’assoggettamento più totale nella costruzione della propria soggettività indipendente nell’esodo, il massimo di indeterminatezza sul proprio destino nel massimo di determinazione nel continuare il proprio cammino nel deserto. È in questo passaggio che la conquista della propria dignità - di uomini e donne - assume potenza inedita, al di là  dello stesso concetto di cittadinanza  formale, di ogni gabbia burocratica o dispositivi del controllo.

Senza patria, senza nazionalità, senza diritti, queste comunità nomadi ed apolidi private di tutto, ma proprio per questo aperte alla potenza del divenire, si mettono in moto per divenire tutto ciò che si può, cittadini in quanto uomini, non uomini in quanto cittadini. Come si può intuire, si tratta di qualcosa di diverso dalla classica lotta economica rivendicativa o dall’azione politica che si pone obiettivi programmatici: qui si tratta dell’affermazione della propria umanità e la liberazione da tutte le prigioni in cui essa è ingabbiata, soffocata, ridotta a nuda vita, su cui si esercita il potere sovrano.

Le lotte di classe nell’occidente capitalistico avvengono comunque in un quadro di diritti di cittadinanza, formale quanto si vuole, come da sempre svelato dalla critica marxista rivoluzionaria al diritto borghese, ma ciononostante esistente. Questa cittadinanza è una conquista delle lotte nel quadro della formazione degli Stati-nazione e delle identità nazionali: nel declino della sovranità degli Stati-nazione e nel simultaneo processo di costituzione non ancora compiuta del comando imperiale, anche questo quadro formale si sta progressivamente disgregando. Il nuovo proletariato sociale, precario e totalmente assoggettato, assume sempre più la fisionomia di quella «classe universale» di cui parlava Marx.

Tuttavia, è necessario precisare che, esattamente in virtù di questa dimensione universale, la rivoluzione a venire non è, e non sarà, una semplice rivoluzione politica. «Nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, una classe che sia la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che, per la sua sofferenza universale, possieda un carattere universale (…) che non possa più appellarsi a un titolo storico, bensì al titolo umano (…), una sfera, infine, che non possa emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole di conseguenza tutte, e che sia, in una parola, la perdita completa dell’uomo e possa quindi conquistare nuovamente se stessa soltanto riconquistando completamente l’uomo. Questa decomposizione della società, in quanto classe particolare, è il proletariato»[1].

Parole profetiche: la dissoluzione delle identità nazionali, la rottura dei confini della cittadinanza, la crisi del rapporto tra i diritti dell’uomo e del cittadino e del quadro in cui si sono storicamente costituiti. Le continue de-territorializzazioni e ri-territorializzazioni, distruzioni di confini e creazione di sempre nuovi in funzione di controllo globale, forgiano una nuova cartografia del potere e delle resistenze.

Non c’è in questo processo un dentro ed un fuori: è tutto interno al nuovo ordine imperiale ed accumuna nuovi bisogni e desideri di una classe potenzialmente universale, che può tutto proprio perché è spogliata di tutto. La rivolta di Cona non è un fatto da cogliere dall’esterno, solo con la giusta solidarietà materiale, ma ci appartiene fino in fondo proprio per la radicalità con cui mette in luce e svela la portata dei conflitti nel cuore dell’Impero, le tendenze, la loro portata epocale. I confini dell’umanità e della cittadinanza possono prendere corpo anche in uno sperduto paesino, lungo un argine, nella più vuota e desolata campagna. Proprio per questo è possibile ovunque la loro rottura per la liberazione e la dignità.



[1] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in La questione ebraica ed altri scritti giovanili, traduzione di Raniero Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 105-110