Terrorismo e democrazie in saldo: quando l'emergenza si fa norma

6 / 8 / 2016

La storia e la società non si prestano ad essere comprese nelle sale dei palazzi del Potere, né tantomeno da questi palazzi possiamo aspettarci esaustive risposte ai problemi del nostro Tempo.

Nonostante questa consapevolezza, il potere giudiziario si arroga sempre più il diritto di far fronte alle sfide nel nostro tempo in via esclusiva, piegato da un potere esecutivo che nella normazione animata da puro spirito securitario ha trovato la sua unica ragion d’essere.

L’uso degli strumenti messi a disposizione dal diritto nasce da scelte politiche, che possono essere le più diverse. Il pericolo che si annida dietro a scelte politiche dettate da contingenze emergenziali è di trasformare le deroghe ai Principi fondamentali del diritto in vere e proprie regole, giacchè le emergenze stesse, secondo un italico vizio, non sono mai fenomeni eccezionali e limitati nel tempo.

Questa schizofrenia giuridica ha caratterizzato e continua a caratterizzare l’approccio normativo in contrasto al fenomeno del Terrorismo.

L’evoluzione normativa ci ha visto passare dalla fattispecie di Eversione, non corredata da finalità terroristiche e insufficiente a fornire una risposta adeguata sul piano del terrorismo internazionale, a un approccio più serrato sulla spinta degli attacchi terroristici del 2001.

La l. 438/2001, infatti, mantiene invariati gli elementi oggettivi del reato di Eversione (quali la creazione di un apparato organizzativo e il compimento di atti di violenza) ma rimodella l’elemento soggettivo dell’art 270 bis del Codice penale indicando, come alternativa alla finalità eversiva, la finalità terroristica. E, mentre l’eversione si limita ad essere esplicata entro i confini nazionali, il terrorismo è passibile di lettura in chiave internazionalistica.  

La descrizione del terrorismo come una finalità invece che come una condotta, e quindi il dare centralità allo scopo a discapito degli atti, costituisce il culmine del processo di soggettivizzazione del giudizio penale e rappresenta l’elemento fondante del “Diritto penale del nemico” teorizzato dal giurista e filosofo Gunther Jakobs.

Nel leggere in questo modo il Diritto Penale, la materia smette di essere a tutela dell’individuo e si pone in aperta lotta contro questo, giustificandosi con l’esigenza di annientare il soggetto che mettendosi contro lo Stato ne diventa nemico e contravviene al Contratto sociale: l’individuo smette di essere cittadino e mettendo in discussione lo Stato non merita più le garanzie e le tutele di cui godeva in seno a questo.

Anche se il modello binario cittadino/nemico è stato presto scartato dalla dottrina internazionale, per arrivare alla teorizzazione di forme differenziate di risposte penale, nel senso di un più forte contrasto ai fenomeni di terrorismo e criminalità organizzata senza con ciò trasformare il diritto penale e il processo in uno strumento di lotta, gli strascichi di una simile mentalità sono comunque rimasti.

Negli anni si sono susseguite varie definizioni giurisprudenziali della finalità di terrorismo, fino ad arrivare alla definizione generale del 2005 che, all’art 270 sexies cp, recita così:

“Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia.”

La definizione è praticamente una trasposizione di quella europea, ma le sue maglie vengono rese più lasche per agevolare la riconduzione della fattispecie in esame a più fenomeni possibili, soprattutto a reati rivolti contro le cose e non solo contro l’incolumità delle persone.

I doli specifici cui mira il terrorista, sono quindi:

- L’intimidazione della popolazione

- La destabilizzazione delle strutture dell’organizzazione statale

- Il costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto.


E c’è di che allarmarsi: se viene considerato come terroristico lo scopo di costringere dal basso chi detiene il potere a cambiare linea politica, può essere criminalizzata qualsiasi ipotesi di movimento sociale; anche perché nel testo italiano manca la trasposizione, seppur simbolica, della premessa comunitaria che tutela la libertà di associazione di espressione e di azione sindacale.

Basti ricordarsi dei processi a carico degli attivisti No tav per rendersi conto di come questa criminalizzazione non sia puro allarmismo.

Con il decreto antiterrorismo, diventato legge nell’Aprile del 2015, si sono ampliate le condotte con finalità terroristiche e le misure di prevenzione con l’evidente e unico intento di colmare le lacune che in passato hanno portato a diverse sentenze assolutorie.

Una tale reazione si comprende facilmente in un’epoca segnata profondamente dal terrorismo di matrice cosiddetta -e spesso a sproposito- islamica, ma necessita di essere passata a un vaglio razionale per comprenderne la conformità a effettive esigenze di tutela e di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo da gravi abusi nell’esercizio del potere punitivo.

La radicalizzazione dell’intervento repressivo espande la punibilità sempre più verso condotte preparatorie, o considerate tali, anticipando anche la risposta dello Stato: ne sono un esempio le espulsioni preventive poste in essere in questi giorni.

La questione dell’espulsione, merita di essere trattata in modo più esaustivo.

Ex lege e come possiamo apprendere dalla cronaca, qualsiasi condotta sintomatica del mero atteggiamento interiore (come l’impegno verbale di farsi jihadisti o il visitare siti inseriti in qualche black list) è sufficiente per essere espulsi, senza processo né nulla. Senza soffermarci sulle possibili violazioni della Cedu e della nostra Costituzione, che sanciscono il diritto di tutti a un giusto processo e a non essere estradati verso Paesi ove non sia garantito il rispetto dei Diritti fondamentali dell’individuo, è interessante vedere come in un’unica risposta dello Stato siano presenti tutte le sue debolezze.

Con l’espulsione immediata, lo Stato dimostra di non avere alcun interesse ad evitare la radicalizzazione che decanta di voler annientare.

Se un soggetto è pericoloso e si ritiene voglia commettere un attentato non è forse più saggio porlo in stato di fermo? La società e l’individuo non meritano un processo?

Si fa un gran parlare del dovere di preservare la nostra democrazia di fronte agli affondi di chi la vorrebbe distruggere, eppure siamo i primi a mettere al primo posto una risposta veloce invece che una giusta, dimentichi degli elevati costi umani che questa porta con sé: delle persone in carne ed ossa possono essere espulse dal territorio nazionale, o sottoposte a custodia cautelare in carcere, o condannate per direttissima, e dunque subire lesioni irreversibili della propria libertà e dignità personale, in base a norme in aperto contrasto con i principi di determinatezza e necessaria offensività sanciti dalla nostra Costituzione, oltre che in contrasto con gli altri principi fondamentali già evidenziati.

La questione certamente non è di facile risoluzione ed è evidente la difficoltà di trattare in modo esaustivo un tema vasto e così complesso, ma qui manca proprio il tentativo di procedere in questo senso. Assistiamo esclusivamente alla bulimia di chi ingurgita paura e odio e vomita altrettanta ossessione securitaria, lasciando a terra i resti di cui si nutriranno i veri spettri del nostro tempo: le diseguaglianze, la povertà, l’emarginazione, il disagio esistenziale e la disintegrazione di una società e una cultura che tentano invano di sopravvivere a loro stesse.

Viviamo in balia degli stessi demoni che, dall’alto della nostra superiorità, riscontriamo nell’altro. Quell’Altro che temiamo venga qui a tirarci le bombe, ma che a conti fatti è già tra noi e parte di noi.

Del resto, come un dogma è tradizione che non viene passata al vaglio della storia, così la nostra società è dogmatica quanto la religione di cui oggi ha così tanta paura, non riconoscendo la necessità di disvelare e accettare la nuova grammatica con cui esprime se stessa.  

E oltre a tutto ciò, sul piano prettamente del diritto, restano in piedi le costruzioni mostruose dei nostri giorni: norme scritte senza rispondere ai principi che le dovrebbero ispirare, appesantite da aggravanti che hanno il solo fine di coprire qualsiasi sfumatura casistica emotivamente allarmante.

Quando l’emergenza del “terrorismo islamico” smetterà di essere considerata tale e, soprattutto smetterà di essere il terreno su cui giocare le campagne elettorali, questo cimitero di aborti del diritto continuerà a proiettare le sue ombre. L’intero impianto della normativa antiterrorismo, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, costruito avendo in mente un nemico ben preciso, verrà usato per chi resta, i soliti noti che si mettono in contrasto con l’Ordine costituito: i movimenti, gli attori del conflitto sociale tutto, chiunque venga visto come una minaccia per il nostro mondo così come lo conosciamo.

Ed è proprio in ciò che risiede la principale e vera minaccia del terrorismo: lo spingerci a preservare la nostra quotidianità e il nostro status, prima di verificare cosa stiamo effettivamente difendendo; lo spingerci a costruire barriere prima ancora di sapere chi è che vogliamo lasciare al di là di queste; lo spingerci a punire quante più persone possibile per darci l’illusione di essere tutelati e di meritare questo trattamento da vittime tanto incomprese quanto ipocrite.

A conti fatti le vere minacce arrivano da dove meno ce le aspettiamo. E le combattiamo ugualmente male.