Tra i dispositivi di controllo e respingimento: la realtà delle riammissioni

Un commento a cura dell'Osservatorio Faro sul Porto di Ancona e dell'Ambasciata dei Diritti - Marche

10 / 6 / 2010

Alla luce dei recenti sviluppi delle mobilitazioni contro i respingimenti in mare verso la Libia e contro le altre forme di respingimenti verso la Grecia, che in realtà prendono il nomen iuris di riammissioni, appare di grande importanza realizzare un breve excursus degli uni e degli altri, approfondendo la materia delle riammissioni di cui poco si è detto fin’ora rispetto alla formula mediatica dei respingimenti. Per comprendere il meccanismo delle riammissioni è necessario descrivere in via preliminare lo scenario complessivo delle pratiche di respingimento alla frontiera sulla costa adriatica e mediterranea.

Nell'art. 10, c.1 del Testo Unico sull'immigrazione è previsto il respingimento tipico, che consiste nell'atto materiale spesso adottato senza un provvedimento scritto e motivato, di norma immediatamente eseguibile, di rimandare alla frontiera esterna lo straniero sprovvisto dei requisiti richiesti per fare ingresso nel territorio. Il decreto recita "la Polizia di Frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di Frontiera senza avere i requisiti richiesti dal presente Testo Unico per l'ingresso nel Territorio dello Stato".  In realtà, questo primo comma trova scarsa applicazione nel contesto italiano in quanto è di evidente impossibilità - visto che il respinto deve essere ricondotto con il vettore che lo ha tradotto alla frontiera e che l'Italia confina via terra solo con Paesi UE - che i migranti vengano fatti risalire sui barconi di fortuna per far ritorno nei luoghi di provenienza (chi se non altro potrebbe garantire nel loro rimpatrio effettivo!).

Si dà luogo, invece, al respingimento differito (art.10, c.2 D.lgs. 286/98) qualora lo straniero abbia già fatto ingresso nel territorio, sottraendosi ai controlli di frontiera, e sia stato fermato subito dopo l'ingresso in una situazione concettualmente riconducibile alla quasi flagranza, oppure se sia stato temporaneamente ammesso  nel territorio per necessità di soccorso. 

L’ineffettività del primo comma cela probabilmente una dichiarazione di principio che sottrae a qualsiasi garanzia l’allontanamento di chi, trovato alla frontiera clandestino, abbia intenzione di bruciare il confine.

I respingimenti, come le espulsioni, entrano nel novero dei rimedi amministrativi con i quali il legislatore applica la disciplina del controllo delle frontiere esterne; a parte il respingimento come atto materiale istantaneo e ineffettivo (non si sta parlando di respingimenti in mare),  le forme con le quali le Autorità danno esecuzione ad un provvedimento di respingimento o espulsione sono identiche.

Il presupposto di partenza per l'esecuzione, eventualmente anche solo materiale, del respingimento, è la Frontiera - l'al di là verso il quale si viene respinti - il Paese extra-comunitario (come l'Albania in relazione ai porti italiani che si affacciano sull’Adriatico).

Dato caratterizzante di detti dispositivi è rappresentato dalla previsione dell'ultimo comma dell'art. 10 del Testo Unico, il quale prevede che i respingimenti disciplinati dallo stesso articolo siano registrati dall'autorità di Pubblica Sicurezza; perciò, a prescindere dagli eventuali casi arbitrari dell'Autorità di Frontiera, traccia dell'avvenuto respingimento, sia esso istantaneo e maggiormente informale oppure differito e quindi eseguito con le forme previste per la tipica espulsione, è ravvisabile nei verbali, nei provvedimenti documentali eventualmente rilasciati e certamente nelle banche dati a disposizione delle Autorità di Frontiera.

Altro ancora è il tema dei respingimenti in mare, tema alla ribalta mediatica dell’ultimo periodo. Questi si estrinsecano nel respingimento da parte delle unità navali italiane che intercettano non più al valico, ma in un periodo antecedente l’ingresso e l’attraversamento della frontiera. L’impatto avviene in acque internazionali e la valutazione relativa alle posizioni soggettive di chi viene intercettato non tiene assolutamente conto delle individualità, assoggettando tutti alla stessa prassi finalizzata a contenere il più possibile il flusso di migrazione clandestina “incontrollata”.

L’affidamento da parte delle unità navali italiane a quelle africane dei barconi carichi di non-persone offre una chiave di lettura rispetto al rapporto contrattuale che si instaura tra i due Stati che, secondo la logica del do ut des, disciplinano la mobilità clandestina.

Alla base di tali prestazioni sta un accordo che ha come centro di interesse non la posizione personale dell’individuo ma la posizione soggettiva di uno Stato rispetto ad un altro. Non si parla di provedimento di allontanamento individuale e personale, bensì di di prestazione tra Stati.

Tali episodi sono importanti anche per capire lo stato in cui versano i rapporti internazionali tra i Paesi dell’Unione Europea e i Paesi membri stessi, con gli Stati che si affacciano direttamente all’Europa come la Libia, il Marocco o la Tunisia.

Sono gli stessi accordi che fungono da motore delle politiche sull’immigrazione dell’Unione Europea, a nulla servendo il regime di coordinamento nel pattugliamento delle Coste mediterranee. Alla base di questi dispositivi sta il diritto privato, dei contratti, che trova la sua espressione ad un livello internazionale e che si muove secondo le tensioni generate dal sali e scendi dei rapporti di forza tra gli Stati, espressione di un individuale potere contrattuale.

Gli accordi di riammissione intervengono in due momenti alternativi e non per forza sono funzionali ad eseguire un provvedimento amministrativo individuale. O sono autonomi, come quelli che intercorrono tra Italia e Grecia, o sono arbitrari e in questo caso producono respingimenti in mare, o sono funzionali ad eseguire i provvedimenti di respingimento ed espulsione dei migranti irregolari.

Gli accordi di riammissione

La crisi petrolifera del 1973-1974 che ha impattato sulle migrazioni internazionali, ha modificato le fondamenta giuridiche della circolazione a livello internazionale, consolidando il potere discrezionale degli stati nel regolare la materia della circolazione e affermandone a sua volta gli stessi limiti umanitari.

Si è fatta avanti una dimensione regionale di disciplina convenzionale tra Stati di immigrazione, affinché si trovasse un giusto bilanciamento tra garanzie reciproche  in materia di controllo di flussi migratori e riduzione al minimo di quella mobilità strumentale all’abuso, nel ricorso a canali di circolazione diversi dall’immigrazione come il diritto di asilo.

Alla base dell’istituto dell’obbligo di riammissione v’è il principio dell’obbligo di riammissione del cittadino. La normativa convenzionale in materia degli obblighi di riammissione presenta notevoli affinità con la disciplina che ne danno gli altri Stati membri dell’Unione Europea. Un dato peculiare che caratterizza l’intero settore giuridico è la sua importanza politico-applicativa rispetto alla localizzazione degli Stati membri nello scenario dei nuovi flussi migratori verso l’Europa. L’Italia, la Grecia, la Spagna, nuovi Paesi di immigrazione transnazionale, si configurano per questo come le porte della nuova Fortezza Europa in quanto, con la loro maggiore esposizione ai flussi migratori clandestini, ricevono un impatto più violento degli altri Stati europei.

L’importanza pratica degli accordi di riammissione si accresce ulteriormente fino al darsi come una priorità politica, che incide sull’azione internazionale del Paese, anche al di fuori dei confini tradizionali della politica migratoria.

Cioè, le politiche sull’immigrazione in Italia non contano solo ed esclusivamente nella materia che disciplinano, ma coinvolgono altresì la credibilità politica dell’Italia rispetto alla sua identità di Stato membro dell’Unione Europea capace di farsi carico dei problemi di tutti gli altri Stati membri.

L’obbligo di riammissione nasce sulla base di accordi internazionali e rappresenta l’espressione della libertà di espellere di cui godono gli Stati nei confronti degli stranieri. Può essere visto come una sorta di corollario della libertà di espellere.

Gli accordi di riammissione che prevedono l’obbligo di riammettere il cittadino di uno Stato terzo si possono ricondurre essenzialmente a due categorie:

a)  obbligo di riammissione dei cittadini di uno Stato terzo che si trovano in situazione irregolare dal punto di vista delle norme in materia di ingresso e/o di soggiorno dello Stato richiedente, i quali siano entrati nel territorio della parte richiedente dopo aver soggiornato o dopo essere transitati attraverso il territorio della parte contraente richiesta;

b)  obbligo di riammissione dei cittadini di uno Stato terzo  che si trovano in situazione irregolare dal punto di vista delle norme in materia di ingesso e/o di soggiorno dello Stato richiedente , i quali dispongano di un visto o di un titolo di soggiorno, rilasciati dalla parte contraente richiesta, in corso di validità.

Per quanto riguarda il caso a) alla base di un obbligo di riammissione sta un presupposto fattuale (il soggiorno o il transito attraverso il territorio della parte richiesta), mentre nel caso b) si tratta piuttosto di presupposto di natura giuridica, identificato con la titolarità di un visto o di un permesso di soggiorno valido rilasciato dalle autorità di parte richiesta.

In entrambi i casi pur tuttavia, l’obbligo trova sempre il suo fondamento logico e politico - la sua ratio - in un comportamento tenuto dallo Stato obbligato, che può consistere in atto positivo di imperio (la concessione di un visto o di un titolo di soggiorno) o in una (presunta) negligenza  od omissione nell’esercitare determinate funzioni proprie come quelle connesse al controllo delle frontiere con lo Stato richiedente o, più in generale, al controllo dei flussi di migranti clandestini attraverso il proprio territorio.     

L’Adriatico, il caso di Ancona e Venezia

Le continue trasformazioni dei processi di mobilità che attraversano i Paesi europei hanno incalzato gli stessi nel creare e reinventare gli strumenti di repressione e contenimento dei migranti e richiedenti asilo.

La localizzazione del Porto d’Ancona rispetto al vicino Medio Oriente, insieme agli altri scali dell’Adriatico come Venezia, Bari e Brindisi, ha reso raggiungibile l’Italia attraverso nuove rotte; le restrizioni imposte ai viaggi provenienti dal Mediterraneo dai recenti accordi che l’Italia ed altri Paesi membri hanno stipulato con gli Stati dell’Africa settentrionale, hanno deviato gli itinerari “classici” e spinto verso la Turchia il passaggio e la porta della Fortezza Europa.

Ancona, si inserisce in questo complessivo frammento di relazioni che hanno imposto alle strutture di controllo delle frontiere presenti al porto, pratiche più consone alle “direttive” europee.

Già negli anni '90 era possibile parlare di respingimenti in mare ad opera della Marina Militare, oggi ne è ravvisabile la formalizzazione, l'istituzionalizzazione come messa in norma di pratiche escludenti che sono previste non più dalle prassi ma dalle stesse leggi.

Secondo l’accordo stipulato tra Italia e Grecia nel 1999 “ciascuna delle Parti Contraenti riammette - la Grecia (ndr) -, su richiesta dell’altra Parte Contraente – l’Italia (ndr ) - senza formalità, il cittadino di uno Stato terzo che non soddisfa o non soddisfa più le condizioni d’ingresso e di soggiorno applicabili nel territorio della Parte richiedente, qualora venga accertato che il cittadino è entrato nel territorio di detta Parte dopo aver soggiornato o dopo essere transitato attraverso il territorio della Parte Contraente richiesta durante gli ultimi 12 mesi (art. 5, c.1, Riammissione dei cittadini dei Paesi terzi) ”.

Cioè, un clandestino che ha attraversato la Grecia e si è imbarcato a Patrasso o Igoumenitsa per l’Italia, e sbarcato ad Ancona, appena è intercettato dall’Autorità di frontiera viene, su richiesta dell’Italia, riammesso senza formalità in Grecia, quindi re-imbarcato nella stessa nave che lo ha portato in Italia, affidato al comandante e tradotto nuovamente al di là dell’Adriatico.

Questo è il tipico scenario che prende forma allo scalo portuale, non si parla di respingimenti, che paradossalmente forniscono più garanzie alla persona respinta in quanto diretti all’individuo, ma si parla di riammissioni verso un Paese dell’Unione Europea in esecuzione del diritto soggettivo dello Stato parte contraente dell'accordo bilaterale. Oppure, si potrebbe parlare di respingimenti di cui al menzionato art. 10, c.1 del T.U. sull'immigrazione, in quanto l'assenza di formalità caratterizza sia le riammissioni degli Accordi Italia-Grecia sia le fattispecie al primo comma dell'art. 10. Col senno di poi, tuttavia, alla medesima disciplina le Autorità dovrebbero fronteggiarsi applicando i limiti previsti per i richiedenti asilo di cui al comma 4. Quest' ultimo prevede che le disposizioni sui respingimenti non si applicherebbero ai casi previsti dalle disposizioni vigenti in materia di asilo politico, riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l'adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari e quindi farebbero rinvio alla normativa comunitaria attuata con diritto interno. Questo genere di norme delimiterebbe la discrezionalità delle Autorità di Frontiera se tale interpretazione fosse condivisa ed applicata.

Nella realtà, a nulla vale la direttiva comunitaria che prevede il diritto inalienabile di far richiesta di asilo, in vigore successivamente agli accordi del 1999 tra Italia e Grecia. Come nel Mar Mediterraneo, ci si trova di fronte al superamento da parte degli accordi bilaterali delle normative comunitarie, che prevedono alcune garanzie come quella universalmente riconosciuta di accedere alla procedura di protezione internazionale.

Le prassi degli accordi bilaterali sconfina il regime del coordinamento del controllo delle frontiere e allo stesso tempo preclude l'esercitabilità del diritto soggettivo di chiedere protezione internazionale.

In questo caso l’accordo bilaterale  non è stato rispolverato e portato in  vigore, in barba a più di dieci anni di produzione normativa sull’accoglienza incentrata sulla protezione e la tutela del richiedente asilo, ma è sempre stato il paradigma della governance di polizia alla frontiera. 

Questi dispositivi tuttavia, non interessano esclusivamente i richiedenti asilo, che fuggono dai conflitti dell’Irak, dell’Afganistan e dell’Africa, ma anche tutti i migranti che fuggono dalla povertà per la dignità di un reddito; tutte queste categorie, nelle loro ovvie differenze, impattano con la realtà delle riammissioni. Essere riammessi senza un titolo scritto che attesta la propria posizione, la possibilità di impugnare il provvedimento e l’assenza – come afferma l’accordo - di formalità alcuna, permette il paragone con le pratiche dei respingimenti in mare e con le violazioni accertate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo del divieto di refoulment sancito da numerosi  accordi internazionali e comunitari.

Oltretutto, l’assenza di presidi indipendenti ai porti genera pratiche di assoluto libero arbitrio dell’Autorità di frontiera rispetto agli obblighi incombenti di accogliere chi riveste determinate posizioni vulnerabili, come i minori, le donne in cinta o i richiedenti asilo, che si trovano di fronte  all’effettività di un accordo bilaterale a cui si è attinto e che viola evidentemente i principi di civiltà giuridica internazionalmente riconosciuti.

Questi accordi bilaterali che prevedono un obbligo in capo al Paese di origine del migrante o al Paese di transito, sia comunitario che extracomunitario sono la costante delle politiche migratorie dell’Europa. Rappresentano quell’elemento trans-regionale che sorpassa addirittura gli strumenti normativi comunitari, ma che degli stessi si configura come una snella espressione.

Agli Stati non interessa difendere i diritti di chi è perseguitato in patria o fugge da una guerra; il migrante nell'assetto geopolitico mondiale è visto esclusivamente come forza-lavoro funzionale al modello post-fordista di produzione. Si spiega così, ad esempio, un controllo delle frontiere esterne della Fortezza Europa sempre  più efficace (gli accordi di Shengen sono del 1990); questo viene ora attuato congiuntamente ai paesi confinanti con l'Unione (sia al confine Est che nel Mediterraneo) nell'ambito della Politica Europea di Vicinato che prevede, in cambio di agevolazioni commerciali ed enormi somme di denaro elargite dall'Unione a questi, la stipulazione di accordi di riammissione di migranti irregolari.

L’Asilo, come status definito dalla Convenzione di Ginevra del 1951, non ha più il peso politico che rivestiva nell’equilibrio dei rapporti di forza tra Occidente e Blocco Sovietico; a pagarla sono coloro che in realtà tale status avrebbero il diritto di rivendicarlo oggi, non al tempo della Guerra Fredda bensì nell’era della Guerra in Irak ed Afganistan.

La riammissione, in realtà, che sia verso la Libia, il Marocco o la Tunisia, o che sia verso la Grecia, non è che il frutto di intenzionali politiche comunitarie poiché si sa, laddove la legge non dispone un divieto, ne afferma la libertà di azione in capo agli Stati membri; e a pagarla, anche questo si sa, sono sempre i migranti e i rifugiati.

 

Osservatorio Faro sul Porto
Ambasciata dei Diritti Marche