Una città da ri-costruire. Taranto verso l’anno zero.

Utente: gaetano84
12 / 10 / 2012

Era il 26 Luglio quando la bomba ecologica deflagrava su Taranto. Quel giorno un anonimo Gip di provincia, Patrizia Todisco, firmava un provvedimento che cambierà per sempre la storia della città pugliese. Sfidando il blocco unanime di Governo, Confindustria e sindacato metalmeccanico unito, sequestrando senza facoltà d’uso gli impianti a caldo dell’Ilva, fabbrica dalla quale dipende il 40% della produzione di acciaio nazionale. L’area “parchi” minerali, le Cokerie, l’area agglomerato, tre altiforni, un acciaieria, e l’area  gestione rottami ferrosi, dove solo qualche giorno fa un operaio ha riportato gravi ustioni in seguito ad un incidente.

“Perchéin concorso tra loro, nelle rispettive qualità, nella gestione dell’ILVA di Taranto operavano e non impedivano con continuità e piena consapevolezza una massiva attività di sversamento nell’aria, di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché in quelle rurali ed urbane circostanti lo stesso”, così scrive il gip nell’ordinanza con cui motivava gli arresti di Emilio Riva e del figlio Claudio, del direttore dello stabilimento e di altri dirigenti capi Area. Al diffondersi di questa duplice notizia, del sequestro degli impianti e dell’ arresto dei manager, i sindacati metalmeccanici Uilm, Fim, Fiom fanno scattare la mobilitazione generale, lo sciopero ad oltranza. In migliaia, tra operai e quadri, usciti in massa dallo stabilimento, compatti in un lungo serpentone, oltrepassando il ponte girevole, si dirigono verso la prefettura, andando incontro alla Città, che in quel momento è assorta e deserta, fatta eccezione per quelle poche decine di cittadini che precipitandosi in strada vanno incontro agli operai reali, in carne ed ossa, cominciando a pretendere, sin da subito, insieme, che la crisi ambientale e sociale di Taranto la debba pagare chi l’ha generata. Anche se non mancano le tensioni, tra chi in quell’acciaieria ci lavora, e chi invece non ci è mai entrato. E sono intense le paure tra quei dipendenti del siderurgico che quel pomeriggio di Luglio erano stati mobilitati dai sindacati metalmeccanici da una sola parola d’ordine: la difesa del lavoro a tutti i costi. Era proprio il terrore di perdere il posto di lavoro e non avere alternative a spingere gli operai a manifestare quel giorno.

Era anche qui’, quel ricatto tra salute e lavoro, lo stesso, anche se manifestatosi in forme diverse negli anni, in tante altre fabbriche italiane: il petrolchimico di Marghera, la Eternit di Casale Monferrato, fino alle più recenti vicende della Fiat di Mirafiori e di Pomigliano, luoghi laddove la stessa democrazia si arresta alle soglie dei cancelli sorvegliati da vigilanti armati. In quelle fabbriche dove poco più di un anno fa, in seguito ad un accordo separato tra Cisl-Uil e Fiat, si sono negate anche le pause ai lavoratori. In nome della sempre declamata “competitività” e della “modernizzazione delle relazioni industriali”. Privazione di diritti, mentre si impongono ricatti. Pagine di storia ormai, queste, che ci parlano di come si sta facendo retrocedere a tappe forzate la classe operaia agli stadi dai quali uscì lentamente, anche a prezzo di sangue, nel corso di tutto il Novecento.

Pagine che a Taranto ci raccontano però, anche di un modo di lottare, in parte nuovo, che corrisponde alle condizioni della moderna “società liquida”, che vede insieme, in una ricomposizione di classe, i precari usciti dalle università, spremuti, sfruttati e buttati via, e chi per primo, invece, i metallurgici tarantini, vivono sulla propria pelle le conseguenze di un modo di produzione ormai guasto. Una vertenza che si manifesta già nelle ore immediatamente seguenti all’ordinanza del gip.  Dal 26 Luglio, da quella notte trascorsa ai blocchi per convincere gli operai aziendalisti che bisognava bloccare la produzione, non la Città, tante cose sono cambiate. A partire da quei volti e da quelle voci, Taranto è in movimento. Un frenetico susseguirsi di assemblee, cortei, manifestazioni. Un irruzione, come quella del 27 Luglio nel centro studi Ilva, dove il presidente- questore Ferrante stava tenendo una conferenza stampa. Quando la città di Taranto per la prima volta nella sua storia recente, prende parola sulle dinamiche ambientali. Pretendendo che nessuna decisione politica, mai più, dovrà essere presa sulla pelle dei cittadini.

Da allora, poco più di due mesi fa, Taranto da città dimenticata, immediatamente scopre di essere diventata strategica per le sorti dell’economia nazionale. Centrale per il capitalismo nostrano. Di lei, e soprattutto di quella sua “madre velenosa”, L’Ilva, ne scrivono tutti i giornali main-stream, se ne occupano intere trasmissioni televisive.

Si rinnova la farsa degli incontri istituzionali e degli atti d’intesa che questa volta vede impegnati ministri, governo ed enti locali, la stessa commissione europea, che vede attori inoltre, diversi soggetti sindacali, tutti occupati a dipingere un quadro unico, d’insieme, e a confezionare una verità costruita ad arte: quella per cui, “certo c’è l’inquinamento, è vero che si muore, ma la magistratura non può impedire un minimo di produzione alla più grande fabbrica che esista in Italia”. In questo coro unanime si racchiude la piattaforma sindacale che il 2 Agosto chiama a raccolta a Taranto i segretari nazionali dei tre sindacali confederali e di comparto, per una manifestazione a cui partecipano migliaia di operai. Nella piazza dove il teatrino dell’unità sta andando in scena, irrompe un apecar a rompere gli schemi: il tre ruote a bordo del quale prendono parola gli operai che oramai rifiutano la delega sindacale, dal 2 Agosto è il simbolo di una città che vuole iniziare a pensarsi da sé. Che vuole provare a costruire il cantiere dell’alternativa comune, passando essenzialmente per le pratiche di cooperazione tra i cittadini, contro ogni sfruttamento. Che reclama un nuovo welfare di cittadinanza, di esistenza, sfidando quei meccanismi clientelari che hanno reso il lavoro un ricatto, ed il lavoratore una merce da spolpare e buttar via.

Una città intera pretende di essere ridisegnata, e attende di essere  ricostruita nel medio- lungo periodo, un tessuto urbano povero e frammentato di essere ricomposto avvalendosi di quelle scienze economiche e sociali sensibili nel trovare i modi e le forme con cui creare le necessarie ricchezze monetarie senza intaccare i sistemi biologici, e senza compromettere le vite dei lavoratori dentro e fuori le fabbriche.  Un manifesto per Taranto, che possa salvarla dalle rovine in cui cinquant’anni di scelte politiche scellerate l’hanno fatta precipitare. Perché in fondo, come scrive giustamente Gad Lerner, Taranto è lo “specchio d’Italia”, rivelando così gli effetti di una politica corrotta o sottomessa. Da queste parti i politici locali sono quasi tutti sospettati di aver nascosto la verità per convenienze inconfessabili. E i sindacalisti accusati di essersi venduti. L’intera rappresentanza politica e sindacale, in una terra dove lo stesso governo Vendola, ha manifestato più che in ogni altra, tutte le sue contraddizioni, è in una crisi irreversibile.

Una situazione simile a quella del dopoguerra in Italia, quando le lotte partigiane condussero ai cambiamenti nella forma di stato, nei rapporti cioè che si stabiliscono tra individuo ed autorità, tra stato comunità e stato apparato; nella forma di governo, nella relazione, cioè, che si instaura tra gli organi costituzionali in relazione all’indirizzo politico, a chi ne detiene la sovranità. Ecco, Taranto ha bisogno di un processo costituente, che disegni un nuovo, diverso modello di società e di economia, per quella che è ancora adesso la prima città industriale del Sud, ma che da quell’industrializzazione calata dall’alto, non ha mai ricevuto benessere in termini complessivi. Ha già trovato nei Liberi e Pensanti il suo comitato di liberazione nazionale. Ora, mentre nelle prossime ore, i custodi nominati dalla procura avvieranno, 78 giorni dopo l’ordinanza di sequestro del gip, le procedure che condurranno allo spegnimento degli impianti; mentre si profila un conflitto di attribuzione Governo - magistratura, con il primo che sta per approvare il d.l. Semplificazioni che all’articolo 21 prevede che "l'eliminazione della fonte di contaminazione" deve avvenire "ove possibile e economicamente sostenibile"; e lo spettro dei licenziamenti di massa diviene intanto ipotesi concreta, la città di Taranto avrà bisogno di una “commissione dei 75”, come quella che presieduta dal giurista Ugo Forti, fu incaricata di scrivere la Costituzione, che allora appariva tra le più avanzate in Europa. In questo senso a Taranto, è l’anno zero. L’età della ricostruzione.    

Tra poche ore, presumibilmente, i custodi nominati dal tribunale, avvieranno le procedure che potranno portare allo spegnimento degli impianti.

Intanto, sabato, i cittadini e gli operai, i liberi e pensanti, saranno ancora una volta in piazza, uniti in un corteo, che dalla città vecchia, da piazzale Democrate giungerà al quartiere Tamburi, continuando a “partecipare senza delegare”.