Aumento della disoccupazione e della povertà nella crisi. Un nuovo scenario.

United against poverty

di Antonio Musella

30 / 8 / 2012

Il mese di agosto, al tempo della crisi, è trascorso sullo scenario europeo con il sold out nelle sale d’aspetto della presidenza della Bce e della cancelliera tedesca Angela Merkel. Manovre finanziarie per permettere a speculatori e banchieri di mantenere i loro equilibri dopo aver dispensato miseria e povertà in tutta la regione dell’Europa occidentale. Interi paesi hanno visto l’aumento della povertà interna, frutto dell’impatto delle misure di austerity che hanno colpito principalmente il mondo del lavoro. Italia, Spagna, Grecia, Portogallo si sono allineate ai diktat europei sui temi del lavoro con la riforma del settore che ha portato all’aumento della precarietà. Mentre industriali e democratici invocano in tutta Europa misure per una crescita, che non si capisce bene su quale crinale debba svilupparsi, il vecchio continente da questo autunno comincerà a fare i conti con l’aumento della marginalità sociale e della povertà. Le politiche di austerity e le riforme settoriali hanno di fatto prodotto una perdita del potere d’acquisto dei salari, un abbassamento degli stessi, la fine di numerose garanzie sociali e sindacali. In sintesi tutti sono diventati più precari in questi ultimi due anni. Ma ora la crisi ci porterà ad una nuova fase. Le ricette della troika sono servite solo per salvare banche e speculatori ovvero l’1% a discapito del 99%, per questo oggi parlare di crescita equivale ad un piano di astrazione degno di Walt Disney. Lo è innanzitutto perché dalla crisi non si sta uscendo costruendo un’alternativa di sistema a cominciare , appunto, dal modello di sviluppo.
Ci troveremo davanti il fenomeno dell’aumento della disoccupazione e con esso l’aumento della marginalità sociale. Un fenomeno che segue quello dell’aumento della precarietà degli ultimi anni ma è diverso da esso in tanti aspetti.
Innanzitutto perché davanti all’aumento della precarietà abbiamo assistito ad una reazione sociale di difesa individuale, agita singolarmente spesso pienamente inserita nel tritacarne della dismissione dei diritti. L’atteggiamento di molti sindacati confederali in Italia  ed in Europa è la migliore cartina di tornasole del fenomeno. Piuttosto che ribellarmi provo a difendere il mio piccolo orticello, che sarà sempre più infame e privato di dignità…ma esiste !
I fenomeni di conflitto sociale, davanti all’aumento della precarietà, possiamo dire che sono stati occasionali, senza nessuna sinergia che provasse ad agire una ricomposizione di classe  ed incapaci di costruire un comune sia sul piano rivendicativo che su quello ricompositivo. Senza dubbio nel nostro paese ci sono stati “eventi dannati” che hanno segnato l’anno politico. Il 15 ottobre, su cui non è il caso qui di ritornare, ma anche l’incapacità di alcune rappresentanze sindacali di fungere da vettore di ricomposizione di classe dentro il conflitto sociale. La tanto sperata saldatura tra precari ed operai non c’è stata e probabilmente non ci sarà nell’immediato. Responsabilità ed errori che vanno equamente divisi tra il sindacato dei metalmeccanici, che nonostante sia conflittuale e non asservito, resta corporativo e poco incline alla presa d’atto della crisi della forma sindacato ed alla messa in discussione delle pratiche a partire dalla loro efficacia. Dall’altro c’è stato tra le forme di autorappresentazione dei precari, come spesso è avvenuto negli ultimi decenni, più evocazione che sostanza, più enunciazione che lavoro di organizzazione del precariato diffuso.
Ciò che ci ritroveremo davanti nei prossimi mesi sarà però qualcosa di diverso. Il lavoro, anche quello che ti avvelena, che ti umilia, che ti spezza, non c’è proprio più.
I dati dell’ultimo biennio parlano in maniera chiara, l’aumento della disoccupazione nel nostro paese e nel sud dell’Europa è a livelli terrificanti. Per questo ci sarà poco da difendere e soprattutto non ci saranno nemmeno i margini per accordi al ribasso. Non ci sarà, in sintesi, la possibilità di accettare qualsiasi condizione pur di mantenere il posto di lavoro. Lo spaccato sociale che ci troveremo davanti non sarà più quello di chi difende il posto di lavoro ma quello di chi il lavoro lo sta perdendo o lo ha già perso. In giro per il paese centinaia di casi sono stati attenzionati, vissuti e raccontati dalle realtà di movimento. Ma in nessuno di questi si è mai riusciti ad intervenire in maniera adeguata. Il mondo del precariato diffuso che si autorappresenta, nei collettivi, nei centri sociali, nelle reti di precari, non è riuscito a trovare un paradigma che permettesse non solo la saldatura con altri segmenti sociali ma anche un intervento complessivo sul nodo del lavoro e della disoccupazione. L’intensificarsi del secondo fenomeno ci impone una riflessione seria rispetto alla fase. Siamo davanti ad un fenomeno diverso rispetto all’aumento della precarietà, in cui dobbiamo ricercare la possibilità di costruire saldature ma soprattutto di favorire la costruzione di un senso comune, propedeutico per un piano del conflitto sociale in cui i termini rivendicativi saranno diversi rispetto a quelli che abbiamo visto negli ultimi anni. Non solo. L’aumento della povertà farà crescere il bisogno di forme nuove di mutualismo. La sperimentazione di forme di welfare dal basso, concrete, praticate sui territori, agite anche in spazi fisici come possono essere i centri sociali, può essere un grimaldello importante per connettere il mondo dei nuovi poveri. Da tempo sosteniamo che l’esperienza argentina dell’inizio degli anni duemila può essere una storia interessante da studiare per provare a sperimentare anche qui da noi, in Italia e nel sud dell’Europa, pratiche di cooperazione sociale dal basso in grado di essere anche motore del conflitto sociale e di ricomposizione di classe. Dal baratto, al riuso e riciclo dei materiali, dalle monete alternative, allo scambio di prestazioni professionali, le forme di welfare dal basso che tengano dentro mutualismo e organizzazione sociale sono un terreno su cui necessariamente dovremo misurarci.
Nel merito, un tipo di situazione come questa, potrebbe essere una grande occasione per provare a far vivere il tema della rivendicazione di un reddito universale come una rivendicazione di tutti. Di quelli umiliati e privati della dignità dall’aumento della precarietà, per quelli che il lavoro lo hanno perso, per quelli che il lavoro – come una larghissima fascia di giovani definiti dagli studi statistici “ net” – non ce l’ha e non lo cerca nemmeno. Un reddito universale che sia patrimonio rivendicativo dei soggetti sociali reali e non solo di particolarità politiche come le realtà di movimento o peggio ancora di avanguardie intellettuali che ne disquisiscono in seminari e corsi di laurea.
Uno scenario nuovo dunque, rispetto al quale siamo chiamati ad attrezzarci.
Rispetto alle recenti esperienze mi preme qui sottolineare due elementi che potrebbero servire da lezione per chi oggi si vuole misurare su questo terreno.
Il primo, rinunciare definitivamente alla subalternità alle forme sindacali già date. Se pensiamo davvero che la forma sindacato sia in crisi, se siamo coscienti che la saldatura tra segmenti sociali diversi non può partire da quelli storicamente inseriti nel mondo del lavoro classico, se siamo convinti che parte della crisi della forma sindacato sia dovuta anche all’assenza di aggiornamento sull’efficacia delle pratiche e ad un dibattito sulla violenza che la crisi ha già mandato in soffitta, se pensiamo tutte queste cose allora sappiamo che abbiamo bisogno di altri strumenti. Strumenti collettivi che ci diano la possibilità di intervenire sul tema della povertà, ricercando la giusta cooperazione e le giuste sinergie con quelle forme sindacali conflittuali e non asservite, ma restando fortemente autonomi ed indipendenti.
Il secondo, riguarda la sostanza del piano rivendicativo. Come sopra detto, questo scenario può essere – quando si parla di lotte per il reddito il condizionale è più che d’obbligo ! – interessante per agire la rivendicazione di un reddito universale. Al tempo stesso dobbiamo ricordarci che le ultime battaglie intorno alle questioni del mondo del lavoro c’hanno portato ad assumere posizioni su cui oggi vale la pena riflettere. Siamo stati tra quelli che hanno usato lo slogan “il lavoro è bene comune”.
Al di là della pur interessante discussione sulla definizione della categoria bene comune, oggi dovremmo chiederci qual’era questo lavoro inteso come bene comune.
Quello che ti porta ad essere uno schiavo in catena di montaggio ? Quello che di avvelena e ti uccide lentamente e ti tiene sotto ricatto come all’Ilva di Taranto? Quello per cui vale la pena accettare la perdita di ogni dignità? Oppure quello della legge 40?
Il lavoro nel capitalismo è, e resterà, sfruttamento, miseria e soggiogazione.   
Noi vogliamo solo liberarci.