Il mese di agosto, al tempo della crisi, è trascorso
sullo scenario europeo con il sold out
nelle sale d’aspetto della presidenza della Bce e della cancelliera tedesca
Angela Merkel. Manovre finanziarie per permettere a speculatori e banchieri di
mantenere i loro equilibri dopo aver dispensato miseria e povertà in tutta la
regione dell’Europa occidentale. Interi paesi hanno visto l’aumento della
povertà interna, frutto dell’impatto delle misure di austerity che hanno colpito
principalmente il mondo del lavoro. Italia, Spagna, Grecia, Portogallo si sono
allineate ai diktat europei sui temi del lavoro con la riforma del settore che
ha portato all’aumento della precarietà. Mentre industriali e democratici
invocano in tutta Europa misure per una crescita, che non si capisce bene su
quale crinale debba svilupparsi, il vecchio continente da questo autunno
comincerà a fare i conti con l’aumento della marginalità sociale e della
povertà. Le politiche di austerity e le riforme settoriali hanno di fatto
prodotto una perdita del potere d’acquisto dei salari, un abbassamento degli
stessi, la fine di numerose garanzie sociali e sindacali. In sintesi tutti sono
diventati più precari in questi ultimi due anni. Ma ora la crisi ci porterà ad
una nuova fase. Le ricette della troika
sono servite solo per salvare banche e speculatori ovvero l’1% a discapito del
99%, per questo oggi parlare di crescita equivale ad un piano di astrazione
degno di Walt Disney. Lo è innanzitutto perché dalla crisi non si sta uscendo
costruendo un’alternativa di sistema a cominciare , appunto, dal modello di
sviluppo.
Ci troveremo davanti il fenomeno dell’aumento della disoccupazione e con esso l’aumento
della marginalità sociale. Un fenomeno che segue quello dell’aumento della
precarietà degli ultimi anni ma è diverso da esso in tanti aspetti.
Innanzitutto perché davanti all’aumento della precarietà abbiamo assistito ad
una reazione sociale di difesa individuale, agita singolarmente spesso
pienamente inserita nel tritacarne della dismissione dei diritti. L’atteggiamento
di molti sindacati confederali in Italia ed in Europa è la migliore cartina di
tornasole del fenomeno. Piuttosto che ribellarmi provo a difendere il mio
piccolo orticello, che sarà sempre più infame e privato di dignità…ma esiste !
I fenomeni di conflitto sociale, davanti all’aumento della precarietà, possiamo
dire che sono stati occasionali, senza nessuna sinergia che provasse ad agire
una ricomposizione di classe ed incapaci
di costruire un comune sia sul piano rivendicativo che su quello ricompositivo.
Senza dubbio nel nostro paese ci sono stati “eventi dannati” che hanno segnato l’anno politico. Il 15 ottobre, su
cui non è il caso qui di ritornare, ma anche l’incapacità di alcune
rappresentanze sindacali di fungere da vettore di ricomposizione di classe
dentro il conflitto sociale. La tanto sperata saldatura tra precari ed operai
non c’è stata e probabilmente non ci sarà nell’immediato. Responsabilità ed errori
che vanno equamente divisi tra il sindacato dei metalmeccanici, che nonostante
sia conflittuale e non asservito, resta corporativo e poco incline alla presa d’atto
della crisi della forma sindacato ed alla messa in discussione delle pratiche a
partire dalla loro efficacia. Dall’altro c’è stato tra le forme di
autorappresentazione dei precari, come spesso è avvenuto negli ultimi decenni,
più evocazione che sostanza, più enunciazione che lavoro di organizzazione del
precariato diffuso.
Ciò che ci ritroveremo davanti nei prossimi mesi sarà però qualcosa di diverso.
Il lavoro, anche quello che ti avvelena, che ti umilia, che ti spezza, non c’è
proprio più.
I dati dell’ultimo biennio parlano in maniera chiara, l’aumento della
disoccupazione nel nostro paese e nel sud dell’Europa è a livelli terrificanti.
Per questo ci sarà poco da difendere e soprattutto non ci saranno nemmeno i
margini per accordi al ribasso. Non ci sarà, in sintesi, la possibilità di
accettare qualsiasi condizione pur di mantenere il posto di lavoro. Lo spaccato
sociale che ci troveremo davanti non sarà più quello di chi difende il posto di
lavoro ma quello di chi il lavoro lo sta perdendo o lo ha già perso. In giro
per il paese centinaia di casi sono stati attenzionati, vissuti e raccontati
dalle realtà di movimento. Ma in nessuno di questi si è mai riusciti ad
intervenire in maniera adeguata. Il mondo del precariato diffuso che si
autorappresenta, nei collettivi, nei centri sociali, nelle reti di precari, non
è riuscito a trovare un paradigma che permettesse non solo la saldatura con
altri segmenti sociali ma anche un intervento complessivo sul nodo del lavoro e
della disoccupazione. L’intensificarsi del secondo fenomeno ci impone una
riflessione seria rispetto alla fase. Siamo davanti ad un fenomeno diverso
rispetto all’aumento della precarietà, in cui dobbiamo ricercare la possibilità
di costruire saldature ma soprattutto di favorire la costruzione di un senso
comune, propedeutico per un piano del conflitto sociale in cui i termini
rivendicativi saranno diversi rispetto a quelli che abbiamo visto negli ultimi
anni. Non solo. L’aumento della povertà farà crescere il bisogno di forme nuove
di mutualismo. La sperimentazione di forme di welfare dal basso, concrete,
praticate sui territori, agite anche in spazi fisici come possono essere i
centri sociali, può essere un grimaldello importante per connettere il mondo
dei nuovi poveri. Da tempo sosteniamo che l’esperienza argentina dell’inizio
degli anni duemila può essere una storia interessante da studiare per provare a
sperimentare anche qui da noi, in Italia e nel sud dell’Europa, pratiche di
cooperazione sociale dal basso in grado di essere anche motore del conflitto sociale
e di ricomposizione di classe. Dal baratto, al riuso e riciclo dei materiali,
dalle monete alternative, allo scambio di prestazioni professionali, le forme
di welfare dal basso che tengano dentro mutualismo e organizzazione sociale
sono un terreno su cui necessariamente dovremo misurarci.
Nel merito, un tipo di situazione come questa, potrebbe essere una grande
occasione per provare a far vivere il tema della rivendicazione di un reddito
universale come una rivendicazione di tutti. Di quelli umiliati e privati della
dignità dall’aumento della precarietà, per quelli che il lavoro lo hanno perso,
per quelli che il lavoro – come una larghissima fascia di giovani definiti
dagli studi statistici “ net” – non ce
l’ha e non lo cerca nemmeno. Un reddito universale che sia patrimonio
rivendicativo dei soggetti sociali reali e non solo di particolarità politiche
come le realtà di movimento o peggio ancora di avanguardie intellettuali che ne
disquisiscono in seminari e corsi di laurea.
Uno scenario nuovo dunque, rispetto al quale siamo chiamati ad attrezzarci.
Rispetto alle recenti esperienze mi preme qui sottolineare due elementi che
potrebbero servire da lezione per chi oggi si vuole misurare su questo terreno.
Il primo, rinunciare definitivamente alla subalternità alle forme sindacali già
date. Se pensiamo davvero che la forma sindacato sia in crisi, se siamo coscienti
che la saldatura tra segmenti sociali diversi non può partire da quelli
storicamente inseriti nel mondo del lavoro classico, se siamo convinti che
parte della crisi della forma sindacato sia dovuta anche all’assenza di
aggiornamento sull’efficacia delle pratiche e ad un dibattito sulla violenza
che la crisi ha già mandato in soffitta, se pensiamo tutte queste cose allora
sappiamo che abbiamo bisogno di altri strumenti. Strumenti collettivi che ci
diano la possibilità di intervenire sul tema della povertà, ricercando la
giusta cooperazione e le giuste sinergie con quelle forme sindacali
conflittuali e non asservite, ma restando fortemente autonomi ed indipendenti.
Il secondo, riguarda la sostanza del piano rivendicativo. Come sopra detto,
questo scenario può essere – quando si parla di lotte per il reddito il
condizionale è più che d’obbligo ! – interessante per agire la rivendicazione
di un reddito universale. Al tempo stesso dobbiamo ricordarci che le ultime
battaglie intorno alle questioni del mondo del lavoro c’hanno portato ad
assumere posizioni su cui oggi vale la pena riflettere. Siamo stati tra quelli
che hanno usato lo slogan “il lavoro è
bene comune”.
Al di là della pur interessante discussione sulla definizione della categoria
bene comune, oggi dovremmo chiederci qual’era questo lavoro inteso come bene
comune.
Quello che ti porta ad essere uno schiavo in catena di montaggio ? Quello che
di avvelena e ti uccide lentamente e ti tiene sotto ricatto come all’Ilva di
Taranto? Quello per cui vale la pena accettare la perdita di ogni dignità? Oppure
quello della legge 40?
Il lavoro nel capitalismo è, e resterà, sfruttamento, miseria e soggiogazione.
Noi vogliamo solo liberarci.
Aumento della disoccupazione e della povertà nella crisi. Un nuovo scenario.
United against poverty
di Antonio Musella
30 / 8 / 2012