Tessile senza catene - Cooperative di Argentina e Thailandia lanciano una marca di vestiti contro il lavoro schiavo

La marca no-chains sarà inaugurata il 4 giugno, in simultanea, a Buenos Aires e Bangkok. Gli indumenti, prodotti dalle cooperative La Alameda e Dignity Returns, saranno venduti in tutto il mondo, per promuovere il lavoro in condizioni dignitose.

8 / 4 / 2010

Pubblichiamo una raccolta di articoli particolaramente interessanti, tradotta da Sara Carneri, che ci permettono di conoscere la realtà di produzione indipendente che intreccia la due realtà geograficamente distanti: Argentina e Thailandia.

A Bangkok e Buenos Aires ci sono due storie parallele.

Nella capitale tailandese, lavoratori di una impresa tessile si sono organizzati per recuperare l’impresa in cui lavoravano, dopo la chiusura, e si sono costituiti in cooperativa di confezione abbigliamento. Qui, immigrati che venivano sfruttati nei laboratori di sartoria clandestini si sono associati e hanno creato articoli propri. Le due attività –a differenza di altre linee che procedono nella stessa direzione- si sono incrociate per elaborare una proposta comune: la creazione di una marca globale di vestiti che simbolizza la lotta contro il lavoro schiavo, tanto nel sudest asiatico come in Sudamerica. La marca si chiama no-chain –in inglese, senza catene- e verrà messa sul mercato lo stesso giorno, il prossimo 4 giugno. La prima produzione sarà di magliette, stampate con disegni scelti alla fine di un concorso internazionale di disegno, organizzato in collaborazione tra le due cooperative.

L’inedita alleanza tra i due gruppi di lavoratori, con lingue, abitudini e credenze distinte ma con uno stesso obiettivo, ha inizio poco più di un anno fa, durante un incontro tra organizzazioni sociali, sindacali e dei diritti umani del sudest asiatico, a cui furono invitati rappresentanti della cooperativa argentina.

Protagoniste della storia sono la cooperativa Dignity Returns (la ritrovata dignità), fondata a Bangkok quando una fabbrica di vestiti ha chiuso, nel 2003, e la cooperativa 20 de Diciembre-La Alameda, sorta a Buenos Aires con la crisi del 2001. Le due organizzazioni hanno partecipato, un anno fa, ad un incontro convocato dal Centro de Monitoreo de Recursos Laborales, una ONG con sede a Hong Kong che raggruppa organizzazioni di 17 paesi del sudest asiatico e che promuove ciò che in questa regione si chiama “lavoro decente”.

“A dicembre del 2008 abbiamo conosciuto la gente de La Alameda durante un incontro a Lima, in Perù, e abbiamo pensato che fosse importante il loro contributo ed esperienza all’incontro previsto per marzo 2009, a Bangkok. Lì è dove hanno conosciuto le persone di Dignity Returns e si sono messi d’accordo per lanciare una marca a livello globale.”, dice da Hong Kong a Pagina/12 Doris Lee, coordinatrice di programmi del Centro de Monitoreo.

Con l’accordo, le due organizzazioni hanno dato il primo passo per creare la red global de trabajadores costureros. “L’obiettivo, più che quello di ottenere un guadagno, è che si globalizzi la lotta contro il lavoro schiavo, creando coscienza tra i consumatori e i lavoratori”, ha detto a questo quotidiano Gustavo Vera, presidente della cooperativa La Alameda e uno dei promotori della marca internazionale.

Da Bangkok, Andrew Little, portavoce della cooperativa Dignity Returns, ha detto a Página/12 che spera che il lancio della marca internazionale serva per “rendere visibile a livello mondiale il modello di organizzazione in cooperativa e per creare coscienza riguardo le lotte dei lavoratori”.

Così, l’alleanza che ha dato forma alla marca no-chains pretende essere il punto di partenza a cui si aggiungeranno cooperative di lavoro di altri paesi. “A partire dalla conoscenza della marca, arriveranno richieste da cooperative di altri paesi per integrarsi alla rete globale. Dopo un periodo di studio, per verificare che si aggiustino alle regole di lavoro pulito, potranno incorporarsi”, ha spiegato Vera.

Il lancio della marca internazionale è previsto per il 4 giugno, in modo simultaneo, alle 11 di mattina nella sede de La Alameda, a Buenos Aires, e alle 21 nella sede di Dignity Returns, a Bangkok. L’idea è che i due eventi si svolgano in comunicazione tra loro, mediante una videoconferenza.

A partire da quel giorno sarà in vendita la prima serie di magliette no-chains, la nuova marca, nei locali del commercio equo di diverse città del mondo. “Ci sarà un prezzo speciale per sindacati e organizzazioni”, dice Vera. Il titolare della cooperativa argentina chiarisce che lo scopo dell’iniziativa non è commerciale e che il guadagno della vendita verrà diviso in parti uguali tra i due laboratori, nonostante a Buenos Aires i costi di produzione siano il triplo rispetto a Bangkok.

Ciascun capo avrà un prezzo che va dai 12 ai 15 dollari (circa 50 pesos argentini), dice Tamara Rosenberg, responsabile vendite per Argentina e America. Ciascuna cooperativa vende nei propri punti di distribuzione (a Buenos Aires, nel locale di Bonpland 1660, quartiere Palermo, e nella sede de La Alameda, su Directorio y Lacarra, zona Parque Avellaneda) inoltre i capi potranno essere acquistati per posta facendo un ordine sul sito web www.nochains.org da organizzazioni di qualsiasi città del mondo interessate a vendere il prodotto, previo pagamento elettronico o attraverso il sistema di pagamento a contrassegno. Come capitale iniziale, l’iniziativa ha beneficiato di un sussidio della Fundación Avina.

Le due organizzazioni che hanno lanciato la marca globale si somigliano ma sono nate in realtà ben diverse. I fondatori di Dignity Returns sono ex lavoratori della marca Bed and Bath, che fabbricava indumenti per esportazione, contrattata da multinazionali come Nike, Adidas e Umbro. Anche se avevano contratti regolari, erano obbligati a lunghe giornate di lavoro, oltre ad essere “costretti ad assumere droghe per rimanere svegli”, come si legge sul sito della cooperativa. Quando la fabbrica ha chiuso, nel 2003, sono stati licenziati senza indennizzo. Dopo diverse settimane di conflitto e aver accampato di fronte al Ministero del Lavoro Tailandese, hanno ottenuto che il governo desse loro agevolazioni per acquistare macchinari industriali e hanno formato la cooperativa Solidary Factory. Questa organizzazione, formata da 16 lavoratori –in maggioranza donne- ha preso il nome di Dignity Returns, la marca di vestiti che producevano.

La Alameda invece è sorta come mensa comunitaria, nel mezzo della crisi di dicembre del 2001. A questa mensa cominciarono ad avvicinarsi cittadini boliviani, molti di loro immigrati illegali che vivevano negli stessi laboratori di cucito in cui lavoravano. I lavoratori che riuscivano a scappare da questa situazione –molti di loro vivevano in uno stato di semischiavitù, con i documenti trattenuti dai proprietari dei laboratori e sempre con debiti da saldare nei confronti dei loro datori di lavoro che avevano facilitato il viaggio dalla Bolivia - hanno formato la cooperativa di confezione di abbigliamento 20 de Diciembre (vedi articolo).

L’incontro di marzo 2009 tra le organizzazioni sociali, sindacati di Corea, Filippine, Indonesia e Tailandia si è svolto nel contesto della crisi globale che ha sconvolto l’economia, e che ha avuto come conseguenza la perdita di posti di lavoro in tutto il mondo. “Abbiamo pensato che potevamo imparare dall’esperienza di paesi come l’Argentina, dove i lavoratori sono ricorsi alla creazione di cooperative di lavoro e si sono organizzati per lottare contro il lavoro schiavo”, ha detto Doris Lee, che è nata in Corea del Sud ma vive ad Hong Kong.

Le due cooperative, che hanno prodotti e marche proprie, avrebbero confezionato inizialmente gli stessi modelli che realizzano attualmente. “Ma abbiamo deciso di fare un concorso internazionale per nuovi disegni –ha commentato Gustavo Vera. I sei vincitori sono stati selezionati con una votazione tra i lavoratori delle due cooperative. Sono stati scelti due lavori di Argentina, uno della Corea del Sud, uno dell’Indonesia, un altro degli Stati Uniti e il resto, di Hong Kong”, ha aggiunto. I vincitori riceveranno come premio la stampa del disegno che hanno realizzato per i nuovi modelli e un certo numero di magliette.

Le storie parallele delle due cooperative non solo si incrociano attraverso una impresa comune di marca globale. “Ci sono stati segnali di solidarietà di fronte alle lotte e le difficoltà che ciascuno ha dovuto affrontare”, ha raccontato Gustavo Vera. Ha ricordato quando i lavoratori di Tailandia hanno manifestato all’ambasciata argentina di Bangkok, quando i lavoratori de La Alameda furono aggrediti da un gruppo di proprietari di laboratori clandestini a Buenos Aires, a luglio dell’anno scorso. E la mobilitazione di lavoratori argentini e boliviani qui, di fronte all’ambasciata tailandese, in solidarietà ai lavoratori licenziati dalla multinazionale di intimo The Triumph, a Bangkok. È che, nonostante la distanza e le differenze culturali, il mondo del lavoro in entrambi i paesi ha caratteri comune: l’utilizzo di immigrati illegali che vengono contrattati per la metà del salario di un lavoratore locale, in imprese che lavorano per le grandi marche di abbigliamento.

L’intreccio sociale tra i lavoratori del tessile dei due mondi, dalla proposta iniziale fino al lancio del prodotto, è durato poco più di un anno. I protagonisti, durante l’atto di presentazione, parleranno lingue molto diverse, tai e spagnolo, passando attraverso la mediazione dell’inglese. Tuttavia, tutti dicono avere un linguaggio comune, che è quello del lavoro in condizioni dignitose.

Tratto da:

Come si è organizzata

La cooperativa La Alameda non è nata come un’iniziativa imprenditoriale tessile ma come una mensa comunitaria, a dicembre del 2001. È stata conseguenza diretta delle lotte sorte durante gli ultimi giorni del governo di De La Rua e la formazione delle assemblee popolari. Al Parque Avellaneda, militanti e abitanti della zona hanno occupato il locale abbandonato del vecchio bar La Alameda e hanno arrangiato una mensa.

Lì sono arrivati principalmente lavoratori boliviani dei laboratori di confezione del quartiere. Arrivavano con i loro figli e denunciavano che in molti casi erano stati fatti arrivare dalla Bolivia con l’inganno, che erano sottomessi a lunghe giornate di lavoro, fino a 18 ore, e dovevano vivere nello stesso luogo in cui lavoravano.

Allora è iniziato un lavoro di denuncia, insieme alla Defensoría del Pueblo, dei laboratori che funzionavano in forma clandestina sfruttando immigrati illegali. Alcuni lavoratori, riusciti a scappare a queste condizioni, hanno formato la Cooperativa 20 de Diciembre, che ha creato una marca di vestiti propria, Mundo Alameda. Le denunce sono confluite in diverse cause giudiziali, in cui si accusano i proprietari dei laboratori di riduzione in schiavitù e inadempienza delle leggi di migrazione. Inoltre si accusarono le marche, responsabili di aver passato commesse ai laboratori clandestini.

In una delle cause, sono state sequestrati macchinari per cucire, usati nei laboratori illegali. Per ordine giudiziale, questi macchinari sono stati messi a disposizione dell’Instituto Nacional de Tecnología Industrial che, d’accordo con il Gobierno de la Ciudad e La Alameda, ha creato il primo polo di confezione di indumenti liberi da lavoro schiavo, che funziona a Barracas.

Da La Alameda è nata anche l’Unión de Trabajadores Costureros, organizzazione sindacale che rappresenta i lavoratori formalizzati dei laboratori del tessile. Pretende capitalizzare il malumore dei lavoratori oggi rappresentati dal Sindicato de Obreros del Vestido (Soiva), i cui salari sono tra i più bassi.

Dal 2008, La Alameda ha preso parte a denunce di casi di tratta di persone sfruttate sessualmente e lavoro infantile nelle fattorie del Gran Buenos Aires e nei ranch di Mendoza

Storie parallele

di Eduardo Videla

Articolo pubblicato su Pagina/12 il 4 aprile 2010

Il sudest asiatico è una delle regioni in cui la crisi economica del 2008-2009 ha colpito più forte, provocando un alto numero di disoccupati. Allo stesso tempo, c’è un alto numero di lavoratori precarizzati, soprattutto gli immigrati, che percepiscono salari più bassi dei lavoratori locali. Il livello di sindacalizzazione degli operai è molto basso e nella maggior parte dei casi i sindacati sono organizzati dalle imprese –salvo in Corea del Sud, dove si sono costituiti sindacati per settore-, il che dà loro meno forza quando devono difendere il proprio lavoro. Quasi nessuno di questi sindacati difende i “lavoratori indipendenti” [CUENTAPROPISTAS] e gli immigrati.

Come esempio delle strategie delle imprese di fronte alla crisi, Doris Lee, coordinatrice del Centro de Recursos Laborales, una ONG con sede ad Hong Kong, racconta il caso della marca The Triumph, che produce intimo. Come la maggior parte delle multinazionali, questa impresa di origine tedesca e capitale svizzero si è radicata in Tailandia, dove produce i propri capi a costi notevolmente bassi.

“Lì, l’anno scorso l’impresa ha licenziato 200 lavoratori, compresi i loro principali rappresentanti sindacali, fatto che ha innescato un conflitto prolungato” racconta Lee.

L’impresa ha motivato la riduzione del personale con la crisi e la diminuzione delle vendite. “Ma dopo l’intervento del governo ha deciso di aprire una fabbrica in un’altra zona dello stesso paese, dove non c’era organizzazione sindacale, il che mette in chiaro l’intenzione di disarmare l’organizzazione sindacale” ha aggiunto la dirigente della ONG a Pagina/12.

Dopo aver accampato per diversi mesi di fronte al Ministero del lavoro, un gruppo di operai licenziati ha deciso di formare una cooperativa di lavoro con una marca propria. “L’anno chiamata Try arm, che ha una fonetica simile a Triumph”, ha raccontato Lee.

In Tailandia c’è un fenomeno simile a ciò che accade in Argentina con gli immigrati boliviani che arrivano per lavorare in condizioni di precarietà. Lì sono gli immigrati della vicina Birmania quelli che entrano nel paese, anche se come rifugiati.

Molte fabbriche hanno chiuso da quando è iniziata la crisi, nel settembre del 2008, e altre hanno manifestato una tendenza ad abbassare i costi, licenziando lavoratori contrattati o passando quelli fissi a contrattati. Altre imprese hanno optato per trasferirsi in paesi come le Filippine, dove i diritti dei lavoratori sono meno controllati dallo Stato.

I dati fanno riferimento all’indagine elaborata dai rappresentanti della cooperativa La Alameda –gli unici latinoamericani-, che a marzo del 2009 hanno partecipato alla conferenza organizzata dal Centro de Recursos Laborales a Bangkok, insieme a sindacati e ONG della regione. Lì si è discusso delle conseguenze della crisi, la situazione del movimento operaio asiatico e le tattiche e strategie per affrontare la crisi.

Hanno partecipato delegazioni di 16 paesi asiatici (Malasia, Indonesia, Filippine, Cambogia, Vietnam, Corea del Nord, Hong Kong, Cina, India, Tailandia, Nepal, Laos, Sri Lanka, Taiwán, Pakistán e Giappone) e di Argentina, la cui rappresentanza ha raccontato l’esperienza delle empresas recuperadas dopo la crisi del 2001.

I delegati hanno riconosciuto che “dal 1995 si sta producendo una caduta del salario rispetto al Pil, e che i governi si sono occupati più delle regolamentazioni del mercato finanziario che del sistema lavorativo, dove cresce sempre più il numero di esclusi” ha sintetizzato Gustavo Vera, de La Alameda, partecipante all’incontro.

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