Casa come merce e localismo antieuropeista

21 / 2 / 2018

Riprendiamo un articolo di Jack B. Gatherer, pubblicato il 23 febbraio del 2016 su cittàconquistatrice.it, che analizza le relazioni tra i processi di gentrficazione, gli interessi di classe e le identità “localiste” reazionarie, nella Gran Bretagna che si apprestava allora a entrare nel vivo della campagna elettorale per la “Brexit”. A distanza di due anni dalla pubblicazione di questo articolo, i temi trattati ci sembrano quanto mai attuali, anche al di fuori del contesto britannico, perché aprono spazi di analisi su quanto incidano i rapporti di potere fondati sulle identità – in particolare etniche – nella riconfigurazione dello spazio urbano, in una fase in cui la razzializzazione della società è diventata un dispositivo di biopotere sempre più diffuso e articolato.

Di questi tempi, fra gli infiniti localismi che spuntano da tutte le parti, quello più vistoso pare essere diventato il localismo britannico; e non ci si riferisce qui alla legge con quel titolo approvata alcuni anni fa nel paese, che provava a recuperare pur in modo assai contraddittorio alcuni poteri decisionali delle amministrazioni cittadine contro quella centrale. Il riferimento è invece al più noto «Brexit», ovvero distacco definitivo dell’isola dal continente europeo, a cui pur in posizione un po’ defilata restava tuttavia connessa dal punto di vista socioeconomico, se non nella prospettiva federalista che in fondo anima il nucleo fondativo dell’Unione. Uno dei sintomi più inquietanti di questa strategia, che pare di segno esattamente opposto all’antico colonialismo culturale di era industriale e novecentesca, è il passaggio dal welfare da filosofia di vita e base della politica a una confusa, ideologica, reazionaria interpretazione di certe spinte, che possiamo identificare nell’uso altrettanto confuso, ideologico, reazionario della parola gentrification.

Esiste ormai una corposa letteratura, ahimè anche «scientifica» (nel senso che usa formalmente le note, le bibliografie, il metodo analisi della letteratura e studio di casi), tesa a convincerci con le buone o le cattive che la gentrification non sia quella cosa scientificamente e correttamente identificata a suo tempo dalla sociologia urbana, ma tutt’altro. Il termine, nasceva sostanzialmente dallo studio comparativo di quartieri di grandi città, a distinguere quelli che si trasformavano in un certo modo da quelli che si trasformavano in un altro, diciamo - semplificando al massimo - quelli che mantenevano la propria natura urbana e complessa e quelli che ne assumevano un’altra molto più semplice, meno resiliente, in definitiva meno vitale di forze proprie. Il processo, altrettanto noto, era la sostituzione della composizione mista originaria (frutto di stratificazioni storiche-generazionali) con una omogeneità di stampo suburbano piccolo borghese, più o meno accompagnata da altre trasformazioni fisiche o commerciali. Ma tutti i nuovi «studi» degli ultimi anni vorrebbero invece dimostrare che gentrification non vuol dire affatto quello, significherebbe invece ricchezza, riqualificazione, ordine, pulizia. In realtà, l’impressione è che, per così dire, il committente di quei discutibili studi sia esattamente la stessa piccola borghesia protagonista originaria dello scippo urbanistico.

Il caso di Londra pare al tempo stesso paradigmatico e del tutto particolare, e non solo perché il termine scientificamente accettato fu coniato negli anni ’60 proprio in quella città dalla sociologa Ruth Glass. È particolare la concentrazione di fattori che ne rendono evidente l’ideologia, il rischio di dispiegamento su larghissima scala, fino a delineare un’idea di società metropolitana odiosa e artificiosamente darwinista. La fase attuale comincia, manco a dirlo, con la deindustrializzazione e delocalizzazione novecentesca, e il riuso degli spazi un tempo occupati da impianti produttivi o portuali. Prima si vengono a formare piccole lobbies decisionali, incistate nel tessuto urbano scimmiottando i poteri speciali delle antiche development corporations concepite per le nuove città del secondo dopoguerra in aree da urbanizzare ex novo. Gli insediamenti prodotti mantengono la medesima logica dell’incistamento, fisico e sociale, configurandosi come isole di privilegio dentro il mare della città considerata luogo di degrado, rischio, da cancellare progressivamente. In pratica, all’antica logica strisciante della gentrification si sovrappone una vera e propria ripresa in grande stile degli antichi sventramenti ottocenteschi, ivi compreso il processo di espulsione dei ceti popolari, delle classi lavoratrici non più necessarie per la nuova monocoltura finanziaria.

Se un tempo le pur odiose brutali trasformazioni urbane (o suburbane, cancellando i distretti agricoli di prima e seconda fascia) avvenivano comunque nella logica del welfare e dei nuovi quartieri dormitorio di case popolari con liste di assegnazione pubbliche, oggi esiste un’altra tendenza che come una tenaglia sta iniziando a strizzare in direzione opposta e complementare. Si tratta della cancellazione di fatto della casa pubblica qualsivoglia, dell’idea di diritto all’abitazione, del concetto secondo cui debbano, in uno Stato moderno, essere garantiti alcuni diritti fra cui quello a un alloggio decoroso per tutti. Chi si è avvitato sulla storia collettiva urbana facendo sloggiare in punto da ruspa quanti gli avevano dissodato il campo, ha un solo concetto di casa: il metro cubo inteso come merce, scambio, alla stregua di qualsiasi azione, titolo, simbolo nella sua panoplia di riferimento. Inizia così il percorso per escludere prima le case sociali ed economiche (ovvero l’edilizia a partecipazione pubblica e per ceti non particolarmente abbienti) dai quartieri centrali e semicentrali, e poi levarla definitivamente di torno, sbraitando di una improbabile «nazione di proprietari», perseguita anche svendendo a volte agli ex inquilini le case pubbliche, che rientrano nel giro di poco tempo nel magico mercato a prezzi gonfiati, proseguendo nella espulsione di chi aveva creduto da stupido nel modello. Perché «abitare», come si capisce sempre troppo tardi, non è attività riassumibile da un ragioniere. E arriviamo così alla soglia del vero e proprio isolazionismo, che in fondo altro non è che il criterio della gated community di evasori e speculatori portato all’ennesima potenza. Che Londra e che paese ha in mente, l’antieuropeo Boris Johnson? Un luogo che espelle senza pietà tutti i non ricconi, cacciandoli in un limbo senza nome (la periferia, il continente, l’iper-uranio) accogliendo invece a braccia aperte i «solventi», quelli che pecunia non olet. Una bella immagine infernale, sotto la solita luccicante vernice delle balle mediatiche, di cui si capiscono meglio i particolari nella descrizione della «fine della casa popolare» di un esperto progressista britannico[1].



[1] B. Colenutt, End of the road for social housing? Red Pepper, febbraio 2016

 Tratto da: