Conflitto tra Israele e Palestina - Intervista a Michele Giorgio

20 / 10 / 2015

Proniamo un'intervista a Michele Giorgio, inviato de il Manifesto in Palestina, sulla situazione e la ripresa del conflitto delle ultime settimane tra Israele e Palestina.

Come si sta sviluppando la situazione tra Israele e Palestina alla luce soprattutto di quanto è accaduto nell'ultima settimana? C’è stato infatti un precipitare degli eventi seguita da una forte costruzione mediatica, perché in realtà appare sempre più evidente di come le violenze del governo di Israele nei confronti dei palestinesi non si sono mai fermate, è realmente così?

La situazione è molto complessa perché anche tra i palestinesi stessi non c'è un giudizio, come dire, omogeneo, su quello che sta accadendo. Ci sono molti palestinesi che parlano di una nuova Intifada, altri che dicono è un'escalation, è un'impennata di tensione, di scontro ecc.., altri ancora che non riescono a dare un’opinione.

Possiamo però  dire che sicuramente dall'inizio di ottobre, al di là dell'episodio scatenante che può essere stato questo attacco contro i due coloni in Cisgiordania o gli accoltellamenti nella città vecchia di Gerusalemme, è cominciata una nuova fase di serie di attacchi da parte palestinese, attacchi che sono stati fatti fino ad oggi in gran parte da giovanissimi, adolescenti che hanno cercato di accoltellare o hanno accoltellato soldati o civili israeliani e che sono stati, gran parte di essi, immediatamente uccisi sul posto dalle forze di sicurezza israeliane o da civili israeliani che erano nei paraggi.

Ci sono state anche altre modalità di attacco nelle ultime settimane, in alcuni casi anche con le armi come domenica 18 ottobre a Be'er Sheva.

Il tratto dominante di tutti è quello dell'azione individuale. Così come era già accaduto lo scorso anno quando c'era stata quella che gli israeliani chiamano Intifada dei coltelli, mentre i palestinesi la chiamano Intifada di Gerusalemme. Nella stragrande maggioranza sono state azioni individuali portate a compimento da giovani, ragazzi in prevalenza e anche alcune ragazze. Quello che appare a tutti in maniera anche molto visibile è che si tratta di azioni spontanee che non sembrano essere state organizzate da nessun partito. Dietro la maggior parte di queste azioni non ci sarebbe né il movimento islamico di Hamas, né Fatah o quella parte di Fatah che dissente dal presidente palestinese Abu Mazen e crede nella necessità di portare avanti una lotta anti-armata nei confronti di Israele.

L'altra caratteristica che abbiamo visto è che la partecipazione popolare a questa nuova Intifada è stata minima, perché eccetto alcune dimostrazioni che purtroppo si sono anche chiuse con la repressione durissima di Israele e dei soldati che hanno aperto il fuoco e hanno ucciso dei ragazzi molto giovani, dei tredicenni, degli adolescenti sia a Gaza che in Cisgiordania, non c'è, per il momento, una partecipazione di massa dei palestinesi, in termini di manifestazioni o di sollevazioni nei confronti di Israele. La "massa" invece subisce le conseguenze della repressione del governo israeliano, repressione in atto sopratutto a Gerusalemme nei quartiere palestinesi: sigillati, chiusi, come se fossero dei ghetti, delle gabbie. Palestinesi che vengono puniti collettivamente perché le autorità israeliane pensano che punendo i più adulti poi i palestinesi più giovani siano spinti ad interrompere questo tipo di azioni individuali.

Sullo sfondo di tutto questo c'è l'atteggiamento dei media, dell'informazione internazionale, italiana in particolare, che hanno raccontato tutta questa vicenda semplicemente come una serie di attentati palestinesi con Israele che cerca di difendersi e di tamponarli, dimenticando tutto il contesto.

Non si è parlato di Gerusalemme come di una città occupata, non si è parlato delle discriminazioni che subiscono i palestinesi, non si è parlato dei palestinesi che, come popolo, da circa cinquant’anni cerca di liberarsi dell'occupazione militare e che non c'è nessuna prospettiva che questa indipendenza palestinese, ammesso che la soluzione dei "due stati" sia ancora praticabile, possa in qualche modo essere raggiunta, visto la politica che questo governo, di estrema destra, porta avanti su un'agenda nazionalistica e con l’intenzione  di continuare a colonizzare Gerusalemme est e la Cisgiordania.

Puoi spiegarci meglio quale strategia Israele sta portando avanti per indebolire la resistenza palestinese e a cosa sta portando l’incarcerazione di quei leader di movimento palestinese laici?

Israele guarda molto al giudizio dei governi occidentali.

Per andare nel concreto possiamo dire che sicuramente Israele teme di più, da un punto di vista politico, un personaggio come Abu Mazen, presidente dell'Autorità nazionale palestinese, molto criticato anche al suo interno da una fetta consistente dell'opinione pubblica palestinese, rispetto a Hamas. Questo succede perché quando Hamas agisce contro Israele c'è immediatamente una coalizione di consenso, un consenso che torna a solidificarsi perché si guarda a Israele come impegnato in una lotta contro un'organizzazione integralista islamica che porta avanti o porterebbe avanti un'agenda estremista.

Quindi avere come nemico Hamas per Israele è molto più conveniente che avere come partner di negoziato Abu Mazen, perché Abu Mazen porta avanti una politica di negoziato con l’Occidente, al di là delle critiche che possono essere fatte alla sua politica sia all'interno che all'esterno dei territori palestinesi. Abu Mazen è, agli occhi del mondo, un leader moderato che cerca il dialogo, che è favorevole al negoziato con Israele. Questo è visto come una minaccia maggiore da parte del governo di destra israeliano, perché il mondo finirebbe per sostenere, insieme ad Abu Mazen, l’attuazione di compromesso tra le due parti che questo governo israeliano in realtà non vorrebbe.

Vengono portate avanti delle politiche che non sono favorevoli alla creazione di uno stato palestinese vero, sovrano, pienamente indipendente in Cisgiordania e Gaza con capitale Gerusalemme est. Il progetto, per la verità non solo di questo governo e di queste organizzazioni dei coloni, è evidentemente di lasciare ai palestinesi solo le aree autonome, che sono quelle che già esistono da più di vent’anni, come Nablus, Ramallah, Hebron, Jenin e poco altro. Tutto il resto deve rimanere sotto il controllo di Israele, in una maniera riconosciuta o anche non riconosciuta, senza che ci sia mai un'intesa, un accordo.

Tutta questa premessa per spiegare perché quando Marwan Barghuthi interviene, ed è infatti stato subito punito dalle autorità carcerarie per aver rilasciato l'intervista al Guardian (ripresa poi da tre testate, compreso il mio giornale Il Manifesto),  Israele in un certo senso trema.

Barghuthi è un leader molto determinato, un leader che sostiene con grande forza i diritti del suo popolo, della sua gente ma allo stesso tempo non ha mai nascosto di volere un compromesso anche territoriale con Israele, di cercare una soluzione politica.

Marwan Barghuthi è più pericoloso per Israele che il leader di Hamas Ismail Haniyeh, perché il leader di Hamas porta avanti un programma politico che non è riconosciuto da nessuno in Occidente, Marwan Barghuthi invece porta avanti una linea determinata però con degli elementi di negoziato, di compromesso, che riscuotono o riscuotevano consenso in Occidente.