Dalla Asics alla Benetton: la delocalizzazione produce morte

La storia della delocalizzazione è costellata da morti, disoccupazione, fallimenti, disperazione quali effetti della scelta imprenditoriale di scardinare le rivendicazioni operaie di salario e diritti che hanno accompagnato le stagioni di lotta degli anni sessanta e settanta.

di Bz
18 / 5 / 2013

Una fabbrica di scarpe è crollata in Cambogia nel distretto di Kong Pisey, provincia di Kampong Speu, a circa 40 chilometri ad ovest dalla capitale Phnom Penh intrappolando tra le macerie più di 100 operai e provocando diverse vittime: per ora i corpi recuperati sarebbero sei. La fabbrica, la Wing Star Shoes, è una delle fabbriche di scarpe sportive che lavorano come fornitrici della multinazionale Asics, che, non diversamente, da altri famosi marchi – Nike, Reebok, Adidas etc – hanno delocalizzato le loro filiere produttive nel Sud Est asiatico.

Una nuova strage sul lavoro, dunque, è avvenuta a 20 giorni dall’ecatombe di Dacca, dove, come abbiamo cercato di documentare, sono implicati direttamente molti marchi internazionali, tra cui la Benetton, Coin, Diesel, Calzedonia e altri marchi meno conosciuti del settore tessile-abbigliamento del Nordest: la cronaca giornalistica locale ci racconta di aziende che hanno delocalizzato in Bangladesh, scegliendo quel complesso manifatturiero, dietro suggerimento di un’opera missionaria il Pime, il Pontificio Istituto Missioni Estere.

«Avevamo già lavorato con questa azienda» racconta Francesca Berto, numero uno della Manifattura Corona «perché approvata da un’entità terza e indipendente. Si tratta dei missionari del Pime, il Pontificio Istituto Missioni Estere, da anni presente in Bangladesh come in molte altre parti povere del mondo. Fratello Massimo Cattaneo ci aveva segnalato questa ditta come una di quelle che rispondevano ai più alti standard sia in termini di condizioni lavorative che di trattamento salariale. Alcuni degli ex studenti della scuola del Pime, la Novara Technical School, lavoravano alla Phantom e i missionari si accertavano delle condizioni salariali e di lavoro e li seguivano costantemente». Ora fra le vittime ci sono anche cinque ragazze della scuola del Pime, ne danno notizia gli stessi missionari [vedi link].

Ora le aziende coinvolte si affannano a produrre accordi e protocolli di salvaguardia per i dipendenti che lavorano in queste fabbriche della filiera tessile dei grandi marchi internazionali per cautelarsi da possibili rivendicazioni di indennizzo da parte delle organizzazioni sindacali, della stessa OIL – Organizzazione Internazionale del Lavoro – e per lavarsi le mani grondanti di sangue.

Come abbiamo riportato sopra, nel caso delle garanzie del PIME, non è, certo, con un accordo, con una certificazione che si può risolvere la piaga delle morti sul lavoro in un sistema di produzione fondato sullo sfruttamento schiavistico, in barba a tutti gli ammiccamenti pubblicitari multiculturali e multietnici.

La storia della delocalizzazione è costellata da morti, disoccupazione, fallimenti, disperazione quali effetti della scelta imprenditoriale di scardinare le rivendicazioni operaie di salario e diritti che hanno accompagnato le stagioni di lotta degli anni sessanta e settanta.

Infatti il decentramento produttivo e poi la delocalizzazione sono state la risposta a quei cicli di lotta e la Benetton è stata l’azienda – nel Veneto e i Della Valle nelle Marche - che ha, scientificamente, pianificato queste scelte: il modello produttivo Benetton è stato oggetto di numerosi e dettagliati studi ed  indagini, che hanno esaminato l’indotto della casamadre, il lavoro a domicilio e i rapporti che s’instaurano tra le imprese all’interno di uno stesso settore, dimostrano come il decentramento produttivo sia presente soprattutto in quei settori dove è possibile una maggiore divisione e segmentazione del lavoro, e quindi nei casi in cui le economie dimensionali sono raggiungibili anche a ridotti livelli di capacità produttiva. Bisogna comunque far presente che negli anni sessanta era ancora presente il mito delle economie di scala e quindi il decentramento produttivo è stato un fenomeno abbastanza recente. I primi casi, infatti, possono essere fatti risalire all’inizio degli anni settanta, con l’Italia che riveste un ruolo pionieristico, quando ci si rende conto delle difficoltà di gestire efficacemente i grandi sistemi e le macrostrutture.

Questo fenomeno non è soltanto italiano e ben presto è messo in discussione il concetto del gigantismo, dell’integrazione verticale ad ogni costo, dei vantaggi della macrostruttura fino ad arrivare ad un nuovo slogan: “piccolo è bello”. Bello soprattutto per il portafoglio delle imprese del Nordest, dove ben presto il modello produttivo basato sul decentramento e delocalizzazione, in un combinato disposto, dal tessile si è allargato a macchia d’olio a tutti i settori, a partire dal calzaturiero e dall’occhialeria, producendo il massimo di frantumazione e dispersione – nei continenti – produttiva con il massimo di verticalizzazione gestionale. Molte delle morti sul lavoro dei piccoli artigiani italiani dell’indotto come quelle che avvengono ai quattro angoli del mondo sono il frutto avvelenato del miracolo del Nordest, della fine del ciclo “piccolo è bello”.

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