Dear White Feminist - le primarie americane e la polemica sul (genere di) voto de* millennials

16 / 2 / 2016

Qualche giorno prima del secondo grosso appuntamento delle primarie presidenziali, la tornata del 9 febbraio in New Hampshire, Gloria Steinman e Madeleine Albright hanno suscitato dibattito con due diversi appelli al giovane elettorato democratico femminile a supportare Hillary Clinton. E l’hanno fatto richiamando all’ordine una sorta di solidarietà di genere che vede nel simbolo di una presidente donna un passo importante della lotta antisessista di emancipazione e uguaglianza per la società americana. La Albright, prima donna nella storia del paese a servire come segretario di stato, ha paventato che “c’è un posto speciale in inferno per le donne che non supportano altre donne.” Steinman, icona femminista degli anni settanta, ha suggerito che le giovani elettrici dovrebbero ammettere di star dando la propria simpatia a Bernie Sanders perché è nelle fila del suo partito che i maschi si trovano: una volta ammesso, sarebbe auspicabile che le giovani elettrici ritornassero sui propri passi e dessero il loro supporto e il loro voto alla Clinton. Il creativo supporto di Albright e Steinman per la candidata democratica rientra in un più largo progetto che cerca, tra le personalità mediatiche e pubbliche americane, sponsor che a vario titolo riescano ad intercettare l’immaginario del giovane elettorato democratico per garantire una base forte di appoggio alla Clinton.

Nel 2008 la Clinton aveva perso le primarie contro Barak Obama, e ora si trova in una corsa molto serrata contro Bernie Sanders. Stanno riemergendo nel dibattito politico non solo dei complicati fantasmi riattivati dalla precedente elezione, che nell’immaginario del paese inscenava la contesa della presidenza tra un uomo statunitense nero e una donna statunitense bianca, ma anche delle retoriche complicate e fuorvianti. Trascurando l’intersezionalità delle lotte a vantaggio di alcune finestre identificative (in questo caso il genere), queste retoriche finiscono col distorcere i termini del dibattito politico, evidenziandone alcuni aspetti (la presenza della donna nella politica dei grossi numeri; la complicata presenza del non maschile in dinamiche di rappresentanza che si sviluppano in spazi politici, istituzionali e di potere tradizionalmente occupati da uomini) ed occludendone altri (quali politiche vengono proposte o difese in un determinato programma elettorale piuttosto che in un altro; di cosa si parla quando si parla di femminismo e di emancipazione femminile; quale tipo di discorso sull’emancipazione un certo candidato politico mette a profitto; e via dicendo).

Nel caso della Clinton, la preoccupazione retorica e simbolica di completare la parabola emancipatrice femminile americana con l’elezione di una presidente donna sembra circoscrivere i termini della discussione politica ad un problema - quasi essenzializzato - di presenza della “tipologia donna” nell’istituzione americana. E così, questa tipologia sociale viene svuotata di contenuti materiali e critici sia rispetto al programma della Clinton, che verso il tipo sociale che la Clinton ritiene di rappresentare e difendere all’interno della società americana, cioè rispetto alla sua stessa storia politica. 

La Clinton si fa portavoce di un femminismo liberista, bianco, retorico e di immagine, con dei più che evidenti sottotoni imperiali: coerente con il discorso sull’eccezionalismo americano e con una concezione universalistica della democrazia statunitense e delle sue applicazioni, tale femminismo ignora differenze circostanziali, diseguaglianze strutturali e le loro specificità - sottovaluta dunque come l’identificazione di genere (il fatto di identificarsi o essere identificati come donna, uomo, lesbica, omosessuale, transessuale, ....) si somma, nella realtà, a svariati meccanismi di controllo economici e sociali che le politiche interne ed estere a cui la Clinton ha aderito nel passato rafforzano anziché che combattere. Esempi rilevanti in merito sono le riforme passate durante la sua permanenza alla Casa Bianca come first lady: il rafforzamento della pena di morte e del sistema carcerario che ha trovato un’enorme espansione negli anni Novanta durante la presidenza di Clinton, e l’indebolimento dei sistemi di welfare secondo dei dispositivi che mettono in moto la divisione razziale americana e i pregiudizi che la innervano per indebolire non solo la distribuzione di aiuti, ma anche il quadro culturale e sociale all’interno del quale tali aiuti sono distribuiti. La Clinton, che aveva perso la corsa presidenziale con Obama anche a causa del nodo fondamentale del suo voto a favore della guerra in Iraq nel 2003, si è continuata a mantenere su posizioni interventiste in merito all’Afghanistan e all’Ucraina, e si fa portavoce del diritto di Israele all’autodifesa. Come segretario di stato, ha ripetutamente lavorato ai tavoli di pace tra Israele e Palestina senza assumere una linea dura contro militarizzazione dei territori palestinesi occupati - questo tema aveva invece rappresentato ragione di alleanze tra attivisti del movimento Black Lives Matter e attivisti palestinesi incontratisi, dopo i fatti di Fergusson, sul fronte comune dell’opposizione all’occupazione militare delle città, e alla militarizzazione delle forze di polizia.

Il 9 febbraio nel New Hampshire, nelle fila democratiche Sanders ha staccato la Clinton di 30 punti percentuali, prendendo il 60.4% di preferenze e 10 delegati, contro le 30.% della contendente che ha ricevuto il 30.8% delle preferenze con 9 delegati (i superdelegati hanno avuto un peso nel conteggio totale). Delle elettrici tra i 18 e i 29 anni,  l’82% ha dato il proprio appoggio a Sanders, e solo il 18% delle preferenze è andato alla Clinton. In questi giorni, diversi media americani suggeriscono che la generazione cresciuta durante la guerra in Iraq stia dimostrando attraverso questo voto la propria sfiducia alle politiche di guerra. Inoltre e in particolar modo, l’aumento del precariato giovanile del 16% sta rendendo la piattaforma di Sanders (più radicale in termini di riduzione ed eliminazione del debito scolastico e del costo degli studi, come pure rispetto alle tutele sanitarie universali) più interessante di quella della Clinton. Al di là delle questioni di rappresentanza poi, il fatto di discreditare la decisione o l’operato di attvist* o elettor* che scelgono di identificarsi con la piattaforma elettorale di Sanders, invocando scelte di pancia e simpatie fallocentriche, è significato ridicolizzare il peso delle posizioni politiche e strategiche che possono aver portato la base elettorale a questa scelta, nonché a obliterare volontariamente l’operato e i contesti di provenienza di attivist* impegnat* su fronti eterogenei, dal sindacalismo di base in supporto a lavoratrici e madri single, all’organizzazione attorno alla gestione delle migrazioni, dell’abolizionismo carcerario, al lavoro di educazione e sensibilizzazione con vittime di molestie, sulla questione della rape culture nella società americana, alle lotte contro la militarizzazione delle forze dell’ordine.

A seguito delle tirate d’orecchie di Steinman e Albright, diverse lettere aperte sono cominciate a circolare in rete - tutte per rivendicare la scelta politica non fatta (a supporto della Clinton), e rimandare al mittente l’invito ad interrogare il significato e i termini della propria prassi femminista.