Detenuti curdi in sciopero della fame nell’indifferenza dei media

Almeno 144 prigionieri sono in condizioni critiche, chiedono solo di potersi difendere nella loro lingua.

10 / 11 / 2012

L’ultima volta che sono passato per Istanbul, all’incirca un anno fa, sono andato a trovare uno dei cosiddetti “avvocati di Öcalan”. Uno di quelli ancora a piede libero, intendo. Si chiama, o si chiamava, Mazlum Dinç. Dico così perché non so più niente di lui. Quando gli ho chiesto di scambiarci le mail per tenerci in contatto mi ha sorriso e mi ha chiesto se davvero pensavo che lui, un “avvocato di Öcalan”, potesse avere una mail senza che il governo turco gliela chiudesse dopo un paio di giorni.

Mazlum aveva appena inoltrato l’ennesima formale richiesta di incontrare il suo cliente, tenuto segregato nell’isola prigione di Imrali. E la sua insistenza, mi spiegò, era già sufficiente per farlo finire in galera con l’accusa di essere un simpatizzante del Pkk. Lo stesso destino degli altri 36 avvocati di Öcalan che, prima di lui, sono finiti dietro le sbarre. Lui - e aveva il coraggio di scherzarci su - era il numero 37. Il suo cliente, Abdullah Öcalan, è stato arrestato il 15 febbraio 1999. Le ultime sue notizie risalgono al luglio del 2011. 

Quando uno dei suoi avvocati - ora in galera pure lui con l’accusa di aver fatto da tramite tra Öcalan e il Pkk - era riuscito ad incontrarlo per pochi minuti. Il leader curdo stava male. Imbottito di droghe e psicofarmaci, senza possibilità di parlare con nessuno (è l’unico prigioniero dell’isola e gli è vietato scambiare due parole con i carcerieri), senza neppure poter leggere un libro o un giornale, o scrivere non dico una lettera ai figli, ma neppure su un suo quaderno. Eccolo qua, il “terrorista” Öcalan. Già, perché, come mi ha spiegato l’amico Muzlum, scrivere il suo nome senza la definizione di “terrorista” a precederlo, basta e avanza per far finire in galera qualsiasi giornalista.

Altra categoria che, al pari di quella degli avvocati, ci mette niente a farsi trasferire di forza dalla scrivania alla cella, nel Paese di Erdogan. Erdogan. Quello che l’Europa addita come un fulgido esempio di traghettatore di democrazia nell’Islam. Non stupiamoci. Si diceva lo stesso di Mubarak e Ben Alì, e sappiamo che brutta fine hanno fatto. Fatto sta che in tutto questo scoppio di democrazia, avvocati, giornalisti e anche sindaci scomodi diventano presto detenuti. Detenuti altrettanto scomodi, però. Da due mesi, perlomeno 700 prigionieri politici curdi stanno portando avanti uno sciopero della fame sino ad ammazzarsi. Il tutto nel menefreghismo più cosmico dei media nostrani. Raccattando le pochissime notizie che si trovano in rete, non posso non ripensare l mio amico Muzlum e alla gentilezza con cui mi porgeva il tè aromatizzato mentre a voce bassa mi raccontava di come ogni mattina, andando al lavoro, salutasse la moglie e i figli col trasporto dell’ultimo addio. “Attendo di giorno in giorno la chiamata del procuratore. Basta una semplice e apparentemente innocua richiesta di presentarsi di persona per firmare un documento o rilasciare una dichiarazione. Poi ti trattengono con la scusa di accertamenti sino a che montano l’accusa che sei legato al Pkk per il solo fatto di che ti ostini a difendere il signor Öcalan. A questo punto la galera non te la toglie più nessuno”.

Quanti sono i prigionieri curdi in attesa di giudizio o detenuti senza giusto processo nelle carceri turche? Nessuno può dirlo con certezza. Il Governo turco non dà nessuna statistica per il semplice motivo che per lui i curdi non esistono. Si tratta solo di banditi, terroristi, delinquenti comuni. Neanche il Kurdistan esiste. La catena montuosa dalle cime perennemente innevate e i grandi altipiani che si aprono ad est del Paese sono abitati solo da “turchi di montagna” che si ostinano a chiamarsi diversi e a parlare una lingua che non esiste, neppure come dialetto.

Prima di fare tappa ad Istanbul e rientrare in Italia, ero stato a Diyarbakir per seguire qualche udienza del processo ai 155 sindaci accusati di essere... curdi. Il dibattimento è stato brevissimo. Il primo imputato ha preso la parola per rispondere ad una domanda e il giudice gliela ha immediatamente tolta e lo ha rispedito in cella con tutti i suoi compari. Aveva parlato in curdo. Il processo però è continuato lo stesso. L’unica voce era quella dell’accusa. Una voce turca. Poter difendersi nella propria lingua è, assieme alla cessazione dell’isolamento di Öcalan, la richiesta dei prigionieri curdi in sciopero della fame. Una richiesta che il governo di Erdogan non si sogna neppure di prendere in considerazione.

Secondo un lancio di agenzia Ansa del 5 novembre, almeno 144 dei 700 detenuti che hanno aderito allo sciopero sarebbero oramai in condizioni definite “critiche”. Per alcune associazioni umanitarie, i numeri sarebbero ancora più alti e molti prigionieri sarebbero alimentati a forza con vitamine o medicinali. Difficile saperne di più perché i giornali turchi hanno avuto l’espresso divieto di parlare di questa storia e, come ho spiegato, da quelle parti un giornalista finisce agli arresti per molto meno. Sulla nostra sponda di Mediterraneo invece, dove i direttori di giornale costruiscono balle galattiche per lanciare campagne diffamatorie e la chiamano libertà di opinione, non è altrettanto facile per un giornalista finire in galera ma dei curdi che vanno a morire di fame non scrivono niente lo stesso. La censura la può fare lo Stato ma la può fare anche il menefreghismo. In entrambi i casi, l’informazione da diritto è diventata vittima.