È strage in Germania, ed è neonazista. Chiuso il processo all’NSU.

24 / 7 / 2018

Si è concluso a Monaco di Baviera l’11 luglio il processo iniziato il 6 marzo 2013 contro Beate Zschäpe, André Eminger, Ralf Wohlleben, Holger Gerlach, e Carsten Sch, accusati di aver partecipato, favorito o coperto il gruppo terroristico neonazista NSU (Nationalsozialistischer Untergrund) attivo in Germania tra il 1997 e il 2011, colpevole di 10 omicidi, 3 attacchi bomba e 15 rapine in banche, uffici postali o supermercati. Pene detentive sono state emesse solo per i primi tre, rispettivamente condannati all’ergastolo, a 2 anni e 6 mesi e a 10 anni. In occasione della fine del processo migliaia di persone si sono date appuntamento per l’ultima (ad oggi) grande mobilitazione dietro lo slogan «Staat und Nazis Hand in Hand. Unsere Antwort: Wiederstand» (Stato e nazisti mano nella mano. La nostra risposta: resistenza».

NSU

Tempi estremamente dilatati quelli che hanno portato ai verdetti della scorsa settimana, come del resto lo sono stati quelli necessari agli investigatori tedeschi a scoprire una matrice comune nei 10 omicidi, a riconoscere l’odio razziale come movente e a verificare l’appartenenza del nucleo alle frange dell’estrema destra. Per ben undici anni infatti, dal 2000 al 2011, Uwe Mundlos, Uwe Böhnhardt e Beate Zschäpe hanno vissuto in latitanza, sotto falso nome, organizzando gli omicidi e pianificando gli attacchi-bomba.

Già noti alle forze dell’ordine dal 1997 in quanto membri attivi del gruppo neonazista THS (Thüringer Heimatschutz), i tre entrano in latitanza l’anno seguente, quando vengono sequestrati 1,4 kg di TNT destinato a ordigni rudimentali durante una retata nel loro appartamento. È soprattutto grazie all’aiuto di altri camerati che riescono a ottenere false identità e a entrare in clandestinità, anche se un ruolo importante – alla luce degli sviluppi che seguiranno – pare sia da ascrivere a Tino Brandt, informatore della THS dei servizi segreti tedeschi.

I tre, poco più che ventenni, fondano il “Movimento clandestino nazional-socialista” e danno inaugurano la stagione, durata un decennio, stragista. Delle dieci vittime, otto sono di origine turca o curda, uno di origini greche e una di natali tedeschi. Eccettuata Michèle Kiesewetter, poliziotta tedesca di 23 anni, tutti gli altri bersagli erano proprietari di piccole botteghe o attività. I loro nomi sono Enver Şimşek, Abdurrahim Özüdoğru, Süleyman Taşköprü, Habil Kılıç, Mehmet Turgut, İsmail Yaşar, Theodoros Boulgarides, Mehmet Kubaşık e Halit Yozgat.

I primi nove omicidi avvengono tutti nel medesimo modo: un’esecuzione fredda, un colpo alla testa sparato da una Ceska 83 con silenziatore. L’arma del delitto suggerisce già in fieri alle forze investigative una possibile correlazione tra i casi, ma nessuno (milieu delle vittime a parte) prende in considerazione il movente razzista[1], nonostante un rapporto commissionato all’FBI concluda che il ricercato sia «un individuo disciplinato e maturo, che uccide le proprie vittime perché sono di origini turche o perché sembrano esserlo […]. Il ricercato ha un’avversione personale profondamente radicata contro le persone di origini turche»[2]. Le ragioni degli assassinii vengono tributate a regolamenti di conti interni alla mafia turca, al PKK o a questioni di droga, e il caso bollato dalla stampa tedesca come «Dönermorde», «gli omicidi dei Döner kebab». Se non è razzismo socialmente accettato questo.

L’impossibilità di risalire agli esecutori materiali della strage, né tantomeno ai mandanti, viene imputata da polizia e giornali alla ritrosia di familiari e amici delle vittime: non essendo a conoscenza di alcun legame tra parenti uccisi e organizzazioni criminali, il loro silenzio viene interpretato come un segno di chiusura, di omertà, nonché di volontà di ostacolare l’operato delle forze dell’ordine. Viene detto che quelle famiglie vivono in una “società parallela”, il cui sistema di valori appare completamente distorto rispetto alle convenzioni occidentali.

Ugualmente, gli attentati esplosivi – che causano complessivamente il ferimento di oltre trenta persone – non sono riconosciuti come parte di un medesimo piano, né tantomeno come attacchi terroristici. Descritti come attacchi da parte a organizzazioni criminali, non vengono analizzati nelle loro prerogative razziste, nonostante luoghi, bersagli e circostanze lascino ampiamente ipotizzare il movente razziale. In effetti, le indagini non avrebbero condotto ad alcuna risposta, se il 4 novembre 2011 Uwe Mundlos e Uwe Böhnardt, dopo una rapina in banca a Eisenach, non si fossero suicidati. Un’ora dopo la terza complice, Beate Zschäpe, incendia il loro appartamento a Zwickau eliminando qualsiasi prova, e si dà alla fuga attraversando in auto mezza Germania. Durante il viaggio, distribuisce a diverse testate giornalistiche un DVD in cui l’NSU rivendica 10 omicidi e due ordigni. Un video terrificante, in cui i dettagli più crudeli e violenti delle dieci esecuzioni sono illustrati dalla Pantera Rosa. L’8 novembre, la Zschäpe si consegna alla polizia.

È solo allora che le indagini prendono un nuovo corso, e nuovi, allarmanti, elementi emergono. La consapevolezza di aver ospitato per oltre un decennio un gruppo terrorista neonazista apre nuovi scenari, si moltiplicano le manifestazioni, le dichiarazioni di solidarietà alle famiglie delle vittime. Che dal governo ottengono la generosissima offerta di risarcimento di 10.000 euro a familiare e solenni promesse di dar corso alla giustizia. A indagini concluse, nel 2013, viene quindi istituito un processo, formulate le accuse, nominati gli avvocati. E, finalmente, le notizie cominciano ad arrivare[3].

La diffusione del DVD con le rivendicazioni dell’NSU assume particolare rilevanza non solamente ai fini dell’identificazione degli autori materiali della carneficina: la polizia tedesca dichiara infatti di non aver mai sentito nominare il Nationalsozialistischer Untergrund prima dell’8 novembre 2011. Un gruppo terrorista di matrice neonazista opera in clandestinità per oltre un decennio su suolo tedesco senza che le autorità ne abbiano notizia. Curioso, considerando che nel 2002 il trio aveva inviato una sorta di comunicato stampa a decine di webzine e gruppi neonazisti in cui presentava la propria organizzazione allegando una somma di denaro – ricavato da una rapina in banca – per sostenere le attività di ciascun destinatario. In segno di riconoscenza, uno dei blog aveva pubblicato una nota di ringraziamento all’NSU. Ma evidentemente la notizia non era pervenuta.

Uno dei dettagli più oscuri è tuttavia il ruolo dei servizi segreti tedeschi. Nel 2006, dalle indagini sull’omicidio di Halit Yozgat a Kassel, emerge un particolare preoccupante. All’interno dell’internet café in cui Halit viene freddato è infatti presente, all’ora del delitto, Andreas Temme, infiltrato dei servizi. L’agente non segnala la propria presenza sulla scena del crimine, e nonostante gli orari del login e del logout del computer a cui lavora indichino la sua permanenza in loco fino a pochi istanti prima dell’esecuzione, quando viene finalmente chiamato a deporre dichiara di non aver visto o sentito nulla. Nonostante la sua estraneità ai fatti, Tamme conosce – prima che la notizia venga resa pubblica – la marca della pistola usata per l’assassinio. Ulteriori sospetti sorgono dal controllo dei tabulati telefonici di Tamme, che quel giorno, prima dell’omicidio, parla per 15 minuti con Benjamin G., altro infiltrato nella scena neonazista di Kassel. Sono tutti vani i tentativi della polizia di stato: la divisione sveva del BND insabbia la vicenda e copre l’agente. Non gode della stessa protezione Thomas Richter, militante di estrema destra in contatto con il gruppo Blood and Honour[4] e informatore del BfV (Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione) dal 1994 al 2003 e dal 2005 al 2012. Nel 2014, dopo aver compilato un dossier sull’NSU, viene improvvisamente trovato morto. Richter non è tuttavia l’unico informatore a passare notizie sull’NSU. Le indagini federali ne individuano altri sei, ma tutto il materiale raccolto viene distrutto di proposito l’11 novembre 2011, tre giorni dopo l’autodenuncia di Beate Zschäpe.

E tuttavia, tutte coincidenze.

Ora, dopo 5 anni, il processo si è infine concluso. Eppure il motto che ha accompagnato l’NSU Prozess è «Kein Schlussstricch», «Nessuna chiusura». Perché dopo 350 giorni di processo, gli interrogativi aperti sono tantissimi.

Perché proprio quelle vittime? Furono suggerite da qualcuno?

L’NSU era davvero composto solo da tre persone?

Quanto ampia era la rete di supporto al gruppo clandestino?

L’NSU aveva rapporti con formazioni neonaziste fuori dai confini tedeschi? E fuori dai confini europei?

Quali sono i rapporti tra l’NSU e i servizi segreti?

In che modo la polizia e il BND si servono degli informatori all’interno dei gruppi di estrema destra?

Perché è stato così facile credere ai Dönermorde, agli “omicidi dei Döner kebab”?

Come si configura in Germania il razzismo strutturale e istituzionale? Di quali meccanismi si serve?

Perché la sinistra ha sottovalutato così a lungo le potenzialità dei gruppi terroristici neonazisti?

Come ha potuto la società tedesca smettere di concepire l’esistenza di gruppi come l’NSU, considerando la storia del terrorismo neonazista dagli anni Cinquanta in poi e date le violenze di massa in stile pogrom contro i rifugiati cominciate negli anni Novanta?

Lo Stato è in grado di difendere le comunità alloctone da attacchi terroristici di matrice razzista?

Lo Stato intende difendere le comunità alloctone da attacchi terroristici di matrice razzista?

Per informazioni più dettagliate sull’NSU Prozess si possono consultare questi due siti. La maggior parte dei contenuti è in tedesco, ma alcuni documenti sono stati tradotti in inglese.

www.nsu-watch.info (sito curato dai legali dei parenti delle vittime)

www.nsuprozess.net


[1] Mehmet Daimagüler, uno degli avvocati che rappresenta le vittime degli attacchi terroristici, è autore di diversi volumi e articoli sulla diffusione del razzismo in Germania. Nel volume Empörung reicht nicht! Unser Staat hat versagt. Jetzt sind wir dran (“L’indignazione non è abbastanza! Il nostro Stato ha fallito, ora è il nostro turno”) pubblicato nel 2017, il legale parla di una “forma di razzismo socialmente accettato”.

[2] Deutscher Bunderstag (2013). Beschlussempfehlung und Bericht, Drucksache 17/146000, 22/08/2013, p. 578. Disponibile online: http://dipbt.bundestag.de/dip21/btd/17/146/1714600.pdf

[3] Un dato di rilievo riguarda la presenza in aula della stampa: dei 100 posti a disposizione per il pubblico, la metà è stata destinata alle testate giornalistiche. La nazionalità delle vittime ha fatto in modo, che dopo ricorso, molti degli accrediti venissero concessi, oltre che a giornali tedeschi, a riviste turche e greche. Per questo motivo la stampa estera è rimasta completamente tagliata fuori, dal che le scarsissime notizie in inglese e il silenzio tombale del giornalismo italiano, francese etc.

[4] Si tratta di un’organizzazione neonazista nata in Inghilterra che a metà degli anni Novanta aprì una propria “divisione” in Germania esportando anche la frangia armata denominata “Combat 18”. Fu questa formazione a procurare documenti, alloggi e cure mediche a Mundlos, Böhnhardt e Zschäpe fin dall’inizio della loro latitanza.