Francia - Legge El Khomri: mezzo milione di manifestanti in piazza.

Il “Jobs Act” francese inverte la gerarchia della norma nel conflitto capitale-lavoro e solleva una contestazione di massa che chiede il ritiro totale del disegno di legge. Previste, nel mese di Marzo, diverse mobilitazioni in vista della discussione del progetto di riforma in Consiglio dei ministri.

10 / 3 / 2016

Mezzo milione di persone sono scese in piazza in Francia contro la “loi travail” del ministro El Khomri, in occasione dello sciopero generale convocato il 9 Marzo. Studenti, lavoratori, disoccupati, precari e migranti hanno animato la grossa contestazione che richiede il ritiro, puro e integrale, del disegno di legge che perverrà al Consiglio dei ministri il 24 Marzo.
Dalle prime ore del mattino sono state tantissime le forme di sciopero, in tutta la Francia, dentro e fuori i luoghi del lavoro e della formazione. Bloccati numerosi licei, circa 125 le manifestazioni, 30mila persone in piazza a Nantes, uno sciopero delle ferrovie (già previsto) contro la riduzione salariale che ha interrotto il 35% dei trasporti, scontri a Lione e una manifestazione che ha coinvolto decine di migliaia di persone ha attraversato la capitale da République a Nation. A Parigi centinaia di studenti hanno preso parte alle assemblee generali convocate nei giorni precedenti nelle università di Paris VIII e Nanterre in vista della costruzione del corteo. Partecipatissima l’azione in mattinata dei sindacati CGT e FO al MEDEF (organizzazione dei dirigenti d’impresa, la Confindustria francese). In piazza anche alcuni “dissidenti” del Partito Socialista.

Una mobilitazione che ha espresso istanze trasversali al tessuto sociale francese, dando vita a un movimento di contestazione che si oppone radicalmente, senza spazi di mediazione, al progetto di legge di riforma del codice del lavoro. La discussione del disegno, già prevista per il 9 Marzo, è stata spostata al giorno 24. Il governo cerca di guadagnare tempo aprendo i negoziati che vedranno come primi interlocutori i sindacati riformisti, CFDT e le imprese. Una partita che sul piano politico interseca le elezioni presidenziali del 2017 all’ombra delle quali Hollande non può compiere passi falsi. Non lontano il ricordo del marzo 2006 quando il governo Chirac-Villepin fu costretto al ritiro del disegno di legge che introduceva il Cpe (Contratto di primo impiego).

Il progetto di legge si iscrive nel solco delle riforme del lavoro che, dopo la crisi del 2008, sono state adottate da vari governi europei, tra cui Spagna e Italia. Si può a buon diritto parlare, nel caso della legge El Khomri, di un’inversione della gerarchia della norma a favore di un aumento del potere contrattuale e della libertà di licenziamento e massimizzazione del tempo di lavoro da parte delle imprese. Emblematico il primo articolo del disegno di legge: Art. 1er. - Les libertés et droits fondamentaux de la personne sont garantis dans toute relation de travail. Des limitations ne peuvent leur être apportées que si elles sont justifiées par l’exercice d’autres libertés et droits fondamentaux ou par les nécessités du bon fonctionnement de l’entreprise et si elles sont proportionnées au but recherché. Esso annuncia, sul piano dottrinale, la subordinazione delle sorti del lavoratore alle “necessità del buon funzionamento dell’impresa”, riflettendo la generale flessibilizzazione, mantra del Jobs Act renziano, da cui discendono gli articoli seguenti. Passandone in rassegna i principali, emergono: tetti massimi agli indennizzi in caso di licenziamenti abusivi (15 mesi di salario), frammentazione del tempo di riposo previsto ogni 24 ore, possibilità di estensione delle ore di lavoro da 10 a 12 o di riduzione del salario rispetto ad ore di lavoro supplementari sulla base di accordi d’impresa. Salta quindi l’intero impianto normativo che regola il rapporto lavorativo all’interno della cornice temporale delle 35 ore. Qui si gioca gran parte della riforma, se consideriamo che essa determina una prevalenza dell’accordo d’impresa (tra imprese e sindacati) rispetto all’accordo di settore, statisticamente più conveniente ai lavoratori e in passato giuridicamente prevalente.

Sono questi alcuni dei provvedimenti più contestati da una piazza che ha riunito le molteplici figure del lavoro precario, in buona parte non sindacalizzato. Il ritardo dei sindacati che hanno aderito allo sciopero, l’apertura ai negoziati dei sindacati riformisti e la tenue opposizione all’interno del Partito Socialista sono chiari segnali di un’incapacità degli storici luoghi della rappresentanza a intercettare le istanze trasversali che muovono in Francia una contestazione che fa ben sperare. Il richiamo troppo facile, anche oltralpe, ad una sinistra che sia in grado di leggere le trasformazioni sociale  e di fare opposizione alle politiche neoliberiste del Partito Socialista continua a non tener conto del farsi avanti di soggettività politiche che hanno rinunciato alla delega in luogo della costruzione di spazi di democrazia e di diserzione immediati. E’ questa la cifra di uno sciopero attraversato da figure del lavoro che eccedono i classici profili sindacalizzati e che hanno così bloccato la macchina produttiva del paese. Uno sciopero sociale vero, che estende le sue pratiche a settori non identificabili nel classico quadro del lavoro subordinato. E’ questo lo spazio d’interrogazione collettiva aperto all’alba di nuovi rapporti di forza da costruire nei mesi a venire. 

Immagini del corteo di Parigi