Kobane, giorni di combattenti

30 / 3 / 2015

Alle porte di Kobane, sventola alta la bandiera turca del confine. È una delle porte della frontiera turca-siriana, di entrata e di fuga, più che di uscita, dei cittadini curdi e arabi siriani dalla città Kobane o Ain el arab, "Fonte degli arabi". Perfino il nome in arabo appare come il dispetto della toponomastica e della repressione dell'esistenza curda in Siria, da sempre. Il nome Kobane, invece, è una derivazione dalla parola "Company", ovvero la Railway Company che nel 1911-1912 fu costruita dagli Inglesi, marcando così quella frontiera fra Siria e Turchia, allora Impero Ottomano. E oggi è da quei binari che si passa per raggiungere Kobane, si entra e si esce in Siria, quando non si può passare per la frontiera legale. Come nessuno di noi e dei combattenti può fare.

Dopo oltre quattro mesi di battaglia e guerriglia urbana, le Unità di Difesa del Popolo (YPG) e Unità di Difesa delle Donne (YPJ) curde hanno scacciato via i combattenti del Daesh, l'ISIS, in nome di una rivoluzione e di una democrazia radicale che nei cantoni di Efrin, Cisre (o Jazirah) e per l'appunto Kobane si sta sperimentando. Ma non è finita.  La guerra è ancora sotto e dentro casa.

Faruk* si reca all'alba sul campo. Il campo di battaglia adesso non è più nella cittadina, ma nei villaggi e nelle zone circostanti, anche non appartenenti al cantone di Kobane, come Jarabulus, governatorato di  Aleppo, o Tel Abyad, governatorato di Raqqa, due cittadine al confine, in mano ancora all'Isis. 

"Dalle quattro del mattino alle cinque del pomeriggio". Dice Faruk, senza smettere di fumare.

"Ma poi la notte non dormo, aspetto l'alba per ricominciare. O la fine di tutto, per ricominciare".

Faruk insieme ai suoi compagni sta combattendo per liberare il nord della Siria dall'Isis, ma la sua storia da combattente non inizia né pochi mesi né pochi anni fa. Ne ha 44 ed ha già combattuto nel 1986 a fianco dei fedayyen palestinesi in Libano. Cos'è cambiato da allora? "Mia moglie e mia figlia sono a Istanbul". Ed è l'unico momento in cui gli scappa un sorriso. E palestinesi oggi, purtroppo, se li ritrova dall'altro lato della trincea, tra le fila dei combattenti del Daesh, che vanta combattenti di tutte le nazionalità e provenienze.

Afran*, invece, le mattine le passa a ronfare. Il suo lavoro è di notte, e al contrario del suo compagno, riesce poi a riposare. L'angelo del confine o Caronte. Afran, ogni sera, tra le dieci e mezzanotte, bussa alle porte di chi ha chiesto di voler essere accompagnato alla frontiera, proprio a pochi passi dal binario che traccia il confine. Ne lascia tre o otto, secondo la giornata, e ne carica  altrettanti, provenienti dalla Turchia. È lui a dare il benvenuto in Siria, o meglio: "Benvenuti in Kurdistan, in sicurezza".

La città è ancora lo spettro dell'orrore della battaglia e i cadeveri del Daesh si trovino a diversi angoli. Ed è proprio quella battaglia che viene raccontata, edificio per edificio, tombino per tombino, trincea e piazza, e piazze: ora diventate Piazza della Libertà e Piazza della Pace.

"Ci parlavano in fussha, l'arabo classico del Corano". I combattenti dai due lati, erano così vicini nella urban guerrilla di Kobane che, tra spari e missili, mortai e bombe della Coalizione, riuscivano talvolta a sentirsi e parlarsi.

"Istaslamo, entum Kuffar. Arrendetevi, siete dei miscredenti".

 Ed inevitabilmente, tra uno sparo e l'altro, arrivava la risposta di Ali*, altro giovanissimo combattente.

"Non possiamo arrenderci. Stiamo difendendo la nostra terra".

 Ed Ali e i suoi compagni lo ripetono anche fuori dalle trincee. "Hada thawra insaniyye. Questa è una rivoluzione umana. E per l'Umanità. Non stiamo combattendo solo per fare tornare i nostri concittadini a casa. Ma perché vogliamo che in Rojava e in Siria possiamo vivere tutti: curdi, arabi, turcomanni, assiri, aramei, circassi, ceceni... e tutte le religioni".

I racconti della battaglia si susseguono tra studi dentistici e ginecologici diventati riparo, boutique di vestiti distrutte dove restano i manichini abbigliati, la collina della fuga dell'Isis e l'orizzonte della vicina indifferente e complice, la Turchia. Scritte sui muri e quaderni di scuola tra le macerie, versi del Corano incitanti alla Jihad in bottiglie di plastica, qualche pianta che ha continuato a crescere sotto le bombe, alberi di aranci e sangue. Anche il sangue dei compagni.

 "Una volta per salvare un nostro ferito, abbiamo perso sette compagni, perché nel tentativo di portarlo via, arrivavano in momenti diversi gli spari". E la vita di un solo compagno e il suo corpo, ferito o morto, valgono più del pezzo di territorio e di quartiere su cui procedere.

Ma ora per procedere si aspetta la ricostruzione della città, quella che alcuni cittadini hanno già cominciato, quella che il Consiglio Legislativo, vuole mettere in piedi, sperando nell'apertura di quella porta, di quella linea segnata da un antico binario, ormai spezzata da chi vuole andare avanti.

Linea di confine, binario di chi va a combattere o a testimoniare, di chi scappa o torna a casa, di chi va avanti tornando indietro, a casa: ma indietro non si torna. Perché nella Kobane curda che è anche la siriana Ain el Arab, la stessa parola ha per coincidenza due significati opposti: Wara, in arabo è "indietro". In curdo è "Vieni, venite o dai". Ed è per questo che rimane intraducibile, come tutte le guerre. Wara, Wara. Indietro non si torna.

*Tutti i nomi propri sono stati cambiati, per ovvie ragioni.