Il Rojava è un’opportunità reale

Intervista a Martin Glasenapp, attivista di Medico International

9 / 8 / 2014

Nel nord della Siria i curdi lottano per l’autodeterminazione. Ma alla luce del conflitto armato con gruppi islamisti radicali come l’ISIS le cose non sono semplici.

Intervista da "Lower Class Magazine", pubblicata il 4 agosto 2014

Medico International sostiene la gente in loco con progetti umanitari. Abbiamo intervistato Martin Glasenapp, coordinatore per la Siria di Medico International, sulla situazione nel territorio.

«Medico International (da ora MI, ndt) da poco lavora ad una banca del sangue per Kobanî. Kobanî si trova nella parte curda della Siria, la Rojava, dove attualmente un conflitto armato tra le varie milizie sta provocando molte vittime.

Puoi descrivere brevemente la situazione in loco? Chi combatte contro chi, dove si posizionano i fronti di guerra? Come valuti i rapporti di forza? Quanto sono forti ISIS, FSA (Free Syrian Army ndt) e YPG (Yekîneyên Parastina Gel - People's Protection Units, braccio armato del Kurdish Supreme Committee)?»

I curdi in Siria rappresentano circa il 15% della popolazione. Molti di loro, che prima vivevano a Damasco, Homs e soprattutto ad Aleppo, a causa dei continui combattimenti sono ritornati nelle regioni siriane settentrionali, nella zona di autogoverno curda lungo il confine con la Turchia. Kobanî si trova quasi sul confine con la Turchia ed è la seconda più grande provincia (cantone letteralmente) nonché quella più centrale della zona autonoma curda. Gli jihadisti dell’ISIS sono già attivi da un anno nella zona, in particolare nella città di confine arabo-curda di Tall Abyad, da dove controllano anche il passaggio di frontiera ufficiale verso la Turchia. Da allora Kobanî è assediata.

Sei mesi fa, le milizie islamiche hanno tagliato l’alimentazione elettrica e di conseguenza anche la fornitura di acqua, fornita da sistemi di pompaggio elettrici. C’è una fornitura di emergenza grazie allo scavo di numerosi nuovi pozzi, ma se un’intera città cerca di soddisfare la domanda di energia elettrica solo tramite generatori alimentati a gasolio, questo provoca naturalmente enormi problemi quotidiani, che ancora non hanno nulla a che vedere con le ostilità dirette. Il fronte stesso si è in parte avvicinato fino a 15 chilometri dalla città. Ciò è dovuto principalmente alle armi pesanti con le quali l’ISIS è ritornato dall’Iraq. Così ora i primi carri armati e obici sono stati avvistati non lontano da Kobanî, armi che l’esercito degli Stati Uniti aveva ceduto all’esercito iracheno a Mosul e di cui l’ISIS è entrato in possesso. L’obiettivo dichiarato dell’ISIS è quello di conquistare Kobanî per proclamare anche in quella zona il califfato salafita e allo stesso tempo introdurre un cuneo irrevocabile nella zona curda. Se ciò dovesse accadere, non solo almeno 300.000 persone fuggiranno in poche ore in Turchia, ma anche l’enclave curda di Afrin difficilmente potrà sopravvivere.

Ma finora questa prospettiva appare lontana. Senza pathos si può dire che la popolazione del luogo difenderà fino all’ultimo la sua autogestione, la sua terra e soprattutto il suo stile di vita. Le persone sanno che tutti loro, soprattutto le donne, sotto l’ISIS non avrebbero un diritto reale a vivere secondo il proprio stile di vita, che la loro religione - siano Yezidi, cristiani o sciiti – sarà vietata e che i loro santuari e luoghi di culto verranno distrutti. Tutti in Siria sanno quello che è successo a Raqqa, dove l’ISIS governa da un anno, e nessuno vuole arrendersi.

Eppure nelle ultime settimane oltre dieci villaggi sono caduti nelle mani degli jihadisti. Lo scenario è sempre lo stesso: non appena compaiono i combattenti barbuti, la popolazione fugge. E questo tanto più dopo un episodio di qualche mese fa, quando i miliziani dell’ISIS hanno assaltato un villaggio arabo tra Aleppo e Kobanî massacrandone tutti gli abitanti, accusati di essere “infedeli” sciiti. Ma la popolazione sciita era fuggita già mesi prima e nelle case abbandonate si erano insediati profughi sunniti di Aleppo. L’episodio ha scatenato ulteriore insicurezza tra i villaggi arabo-sunniti della regione. Kobanî stessa non si può ormai più raggiungere dalle normali strade siriane. Tutti i collegamenti principali verso ovest, est e sud sono controllati dagli jihadisti. Verso nord la Turchia blocca la frontiera e numerose sono le voci che sostengono come la Turchia appoggi, direttamente o indirettamente, gli jihadisti. A fine maggio ad esempio centinaia di studenti diretti agli esami all’università di Aleppo sono stati bloccati ai checkpoint dagli jihadisti. Tutti quelli che risultavano residenti a Kobanî sono stati trattenuti e poi sequestrati. Da settimane è attiva una campagna di solidarietà appoggiata da diversi gruppi della società civile, non solo dal PYD, che chiede il rilascio dei rapiti.

A fronte di questo costante pericolo di morte l’amministrazione curda di Kobanî ha indetto una sorta di mobilitazione volontaria ed effettivamente molti giovani, uomini e donne, si reclutano nelle unità di autodifesa femminili YPJ e miste YPG. Molti giovani curdi vengono anche dalla Turchia. In una recente azione notturna centinaia di dimostranti hanno divelto la recinzione di confine con la Turchia per mettere fine al blocco di Kobanî. Per loro la Rojava è una sorta di richiamo a un futuro curdo che si augurano anche in Turchia. Ma alle unità armate partecipano anche quelli che solitamente non appoggiano la politica del PYD curdo. La gente distingue fra la politica partitica, certo controversa, e le unità armate YPG della regione. La gente sa che solo se queste esistono è garantito un confronto interno con la politica del PYD.

Ma non esistono soltanto unità curde; in appoggio all’autodifesa curda si sono aggregati in un comando coordinato anche gruppi regionali dell’FSA, ”esercito libero siriano”, e piccole milizie cristiane. Si tratta di un fatto importante da citare, visto che proprio nel movimento di sinistra in solidarietà alla Rojava spesso si dimentica che non sono solo i curdi le vittime del radicalismo religioso dell’ISIS, ma che nell’ultimo anno gli jihadisti hanno ucciso anche moltissimi combattenti dell’FSA e oppositori siriani della prima ora. Le perdite dell’YPG sembrano in ogni caso destinate ad essere più consistenti. Le cifre ufficiali parlano di 150 morti solo nell’ultimo mese e tramite twitter si vedono sempre più foto di vittime e dei loro funerali. Il numero delle perdite sul fronte jihadista pare sia di gran lunga maggiore. Questo non stupisce gli osservatori della regione. Sostengono spesso come proprio i giovani combattenti dell’ISIS non abbiano alcuna esperienza e vengano mandati a morire a sangue freddo dai loro comandanti. Mentre i caduti curdi dell’YPG sono ricordati con nomi e foto e sepolti nei villaggi di provenienza con grande partecipazione pubblica, gli jihadisti non raccolgono neppure i cadaveri. Un’identificazione riesce di solito solo se si trova subito il passaporto. A Kobanî ma anche altrove esiste un comitato che si occupa di recuperare i corpi, dar loro degna sepoltura e conservarne i documenti nel caso si facciano sentire parenti dall’estero.

Qual è la situazione sanitaria nella regione di Rojava?

La situazione è pessima, anche se relativamente migliore rispetto alle regioni e città contese nella Siria centrale, come Aleppo, a sud di Damasco o a Daraa lungo il confine giordano, dove il regime lancia sui quartieri residenziali oppositori le famigerate “barrel bombs” (fusti di grandi dimensioni riempiti di esplosivo) o rade al suolo interi villaggi con i missili scud. Nonostante i combattimenti si stiano intensificando, questo non accade ancora nei territori curdi, anche se l’approvvigionamento di medicinali è quasi al collasso. Da una parte, la cosa è dovuta all’alto numero di rifugiati, fra i due e i tre milioni, che sono arrivati nei tre cantoni curdi, dall’altra tuttavia la responsabilità di questa emergenza sanitaria è da attribuire alle infrastrutture insufficienti e al crollo della produzione siriana di medicinali.

I territori curdi di Afrîn, Kobanî (Ain al-Arab) e Cizîre sono tutti a nord o a nordest della Siria. Vero è che a Cizîre esiste un’agricoltura piuttosto redditizia e abbondanti giacimenti di petrolio ma i territori curdi sono tradizionalmente poveri e l’assistenza sanitaria diffusa abbastanza bene nella Siria anteguerra ha sempre trascurato le zone curde. Quando nell’estate 2012 il regime ha ceduto la regione fino alla città di Qamisli, non sono stati solo poliziotti, soldati, agenti dei servizi e impiegati ad andarsene immediatamente, ma con loro se ne sono andati anche medici e personale infermieristico. Nel breve vuoto di potere molti ospedali sono stati saccheggiati da milizie dell’opposizione e le attrezzature mediche sono finite sul mercato nero in Turchia. Io stesso a Serê Kaniyê (Ras al-Ayn) ho visto uno di questi ospedali, quasi completamente svuotato. In realtà si trattava di un moderno policlinico in cui c’era tutto, dalla chirurgia a neonatologia, ma ormai non era rimasta nessuna attrezzatura.

Anche per questo nella Rojava non sono più in funzione punti per la dialisi, ai diabetici manca l’insulina e i numerosi blackout impediscono di mantenere a temperatura costante i medicinali, interventi complicati falliscono per colpa di carenze tecniche, i malati di tumore non si possono più curare. Mancando la cura medica, tornano a manifestarsi malattie infettive come la lesmaniosi che si diffonde grazie alle zanzare nei mesi più caldi e asciutti. Negli accampamenti dei rifugiati l’approvvigionamento di acqua è difficile per cui aumentano diarrea e malattie della pelle. Non è così grave come a Yarmouk, quartiere palestinese di Damasco, dove ora ci sono i primi casi di tifo visto che l’esercito siriano assedia il campo limitando l’accesso di viveri. Ma più rifugiati arrivano, più la situazione si fa complicata. I medicinali di base per curare malattie comuni o mancano del tutto oppure vengono venduti a caro prezzo dai contrabbandieri. In effetti la Rojava, grazie alla sua vicinanza alla frontiera turca, avrebbe qualche possibilità di far fronte a questa scarsità, ma la Turchia non ha ancora concesso la libertà di commercio transfrontaliero e permette il transito di convogli umanitari solo dopo procedure estremamente complesse, sottomesse di volta in volta alla discrezionalità del governatore in carica. Sul versante siriano la cosa è resa ancora più difficile dal fatto che i tre cantoni che formano la Rojava non hanno più un collegamento senza interruzioni. I convogli di aiuti non possono essere trasportati da un luogo all’altro perché molti villaggi arabi sono controllati dalle milizie dell’ISIS che confiscano subito questi convogli o rapiscono gli autisti. Il che significa che ogni cantone deve arrangiarsi. Solo a Cizîre (Dschazira), grazie al lungo confine con la Turchia e al confine con l’Iraq, la situazione degli approvvigionamenti è migliore.

Il vostro progetto di una banca del sangue è avviato. Puoi dirci qualcosa su come è nato e come è stato realizzato?

Va innanzitutto detto che senza la società civile curda in Turchia già ora non ci sarebbe più una Rojava in Siria. Si tratta veramente di una gigantesca solidarietà quella mostrata dal movimento curdo in Turchia ma anche in Europa. Sono sia donazioni di merci e denaro ma anche interi camion di alimenti di base, articoli per l’igiene, giocattoli e ovviamente anche medicinali. Il tutto è organizzato dalle municipalità rette dal BDP (Peace and Democracy Party) con una centrale a Diyarbakir (Amed). Negli ultimi decenni Medico International ha collaborato più volte con attivisti curdi dei diritti umani in Turchia, portando avanti progetti comuni. Per questo era importante per noi coordinare il nostro sostegno a Rojava con la società civile curda in Turchia. Qui c’è gente che sa muoversi, che è in costante contatto con le strutture curde in Siria, che sa quando e quale valico di frontiera è aperto e quale gendarme bisogna far bere un pochino in modo che poi firmi le carte necessarie. Se nei territori curdi ci si ferma alla frontiera si vede subito come a sinistra e a destra dei binari della vecchia ferrovia di Bagdad, lungo cui venne arbitrariamente tracciato il confine imperiale fra Siria e Turchia, in realtà il Kurdistan sia uno solo. Nonostante la decennale separazione, le persone hanno un legame molto stretto da questa all’altra parte del confine. Molti hanno parenti da entrambi i lati, si parla la stessa lingua e non sono molto diverse le storie delle persecuzioni subite.

Dopo che a marzo Medico International è riuscita a far arrivare a Kobanî un primo carico di medicinali, abbiamo ricevuto ora la richiesta del comitato medico locale di una banca del sangue, una richiesta urgente, altrimenti i pazienti letteralmente si stanno decimando. Anche a Kobanî c’è un policlinico incompleto che il regime non ha finito di costruire. Qui mancano le attrezzature, ma ci sono i medici. Finora a Kobanî non si riusciva a conservare il sangue, si possono fare solo trasfusioni. La cosa è estremamente pericolosa sotto il profilo infettivo. Casi di leucemia e pazienti con malattie del sangue non si possono curare. C’è solo il fabbisogno quotidiano per una regione con circa mezzo milione di residenti, di cui molti sono rifugiati da altre regioni della Siria settentrionale. A questo si aggiunge il crescente numero di feriti di guerra, che ogni giorno arrivano dai villaggi al margine del distretto. Si tratta di civili, ma ovviamente anche di quelli che tentano di proteggere la zona dall’attacco dell’ISIS. Aumentano le ferite da arma da fuoco e la migliore disponibilità di armi degli jihadisti fa crescere anche i bombardamenti di granate di villaggi lontani dal fronte.

Collabori da tempo con il movimento curdo in Siria. A leggere i loro comunicati, sembra una cosa fenomenale quello che riescono a fare, con consigli popolari, guerriglia femminile, ecc. Quale è la situazione attuale nella Rojava, come procede questo processo di costruzione in condizioni di guerra?

Certo i comunicati suonano sempre pomposi. Del resto, chi è che scrive male di se stesso, per di più in guerra e sotto minaccia? Ma l’amministrazione indipendente curda riesce anche ad ammettere i propri errori e questo nella guerra siriana non è cosa da poco. Di recente è stata in Kurdistan una delegazione di Human Rights Watch, per verificare le notizie di abusi da parte della polizia curda. Il rapporto merita di essere letto, anche perché non ci può certo imputare a HRW un atteggiamento filo curdo o filo PYD. In realtà HRW è molto critica e diffidente nei confronti dell’esperimento curdo e della sua impronta chiaramente di sinistra. La delegazione di HRW ha sottolineato positivamente come sia riuscita a visitare tutte le stazioni di polizia e le prigioni e abbia potuto parlare con molti detenuti. Ha documentato casi di maltrattamenti e di persecuzioni di attivisti oppositori del PYD, ma ha anche detto chiaramente che da parte delle forze di sicurezza curde non è in atto alcun massacro né sistematiche violazioni dei diritti umani. Non molto tempo fa l’amministrazione regionale della Rojava ha commentato in maniera encomiabile il rapporto.

Ha ringraziato Human Rights Watch per la visita e si è espressamente scusata di quanto accaduto, che attribuisce alla situazione bellica ma anche alla decennale cultura della violenza e della tortura sotto il vecchio regime siriano. Effettivamente si tratta di un punto fondamentale, non tanto per minimizzare l’accaduto, quanto piuttosto perché la sfida decisiva per la riuscita di una libera Rojava starà proprio nella sua capacità di democrazia interna. In altre parole: i curdi e il PYD come partito più forte, unica forza in grado di controllare le armi, riusciranno a fare in modo che i problemi sociali si possano risolvere politicamente e pluralmente con il dialogo, o alla fine è solo la soluzione autoritaria a dominare dall’alto? Obbedisci e abbassa la testa, questa era la parola d’ordine sotto il vecchio regime, tutti la conoscono e tutti ne hanno patito. Stabilire una diversa cultura politica della soluzione dei conflitti non è facile, specialmente in un periodo di minaccia militare da parte di fanatici religiosi. Eppure, lo scenario politico della Rojava comprende molto più che non solo il PYD e ci sono altre realtà curde, assire, arabe e di altri che premono per una rappresentanza politica. Che tra queste vi siano anche posizioni piuttosto nazionaliste e conservatrici, è normale. In parte questo è dovuto all’influenza del KDP iracheno di Barzani su gruppi dell’opposizione curda. Eppure i consigli locali e le strutture di base non sono una fantasia ideologica, ma passi molto reali per fondare una nuova politica e quindi anche un nuovo stile politico. E questo è già un successo di per sé. Ecco che nelle assemblee prendono la parola per la prima volta soggetti che prima non erano mai stati interpellati sui loro bisogni o sui loro desideri. Si crea così una sorta di coscienza sulla questione dei beni comuni che devono essere a disposizione di tutti.

A questo si aggiunge la non trascurabile rappresentanza femminile in praticamente tutti i settori della società. Hanno effettivamente una voce forte e quando l’anno scorso sono stato a Qamisli (Cizîre) non si poteva non accorgersene. Che sia nella polizia, nell’YPG, ma anche nell’amministrazione o nei servizi sanitari: ovunque incontri giovani donne estremamente motivate che ci tengono non solo a partecipare alla discussione, ma soprattutto a prendere decisioni. Vedi situazioni in cui una minuta 25enne ferma ad un checkpoint un pulmino di operai e li rimprovera perché hanno frenato troppo tardi e hanno fatto un commento stupido. Sono stati rafforzati anche i diritti formali delle donne. È stata vietata la poligamia, le donne possono divorziare e hanno diritti effettivi. Vero è che anche la vecchia Siria secolare di Assad aveva una presenza di donne nella vita pubblica delle grandi città decisamente maggiore rispetto ad altri paesi arabi, ma nella Rojava attuale è chiara l’influenza del movimento curdo di Turchia, in cui da sempre, a differenza che nel tradizionale Iraq settentrionale, le donne combattono in montagna e quindi ora diventano senza problemi anche sindache e politiche.

Un altro aspetto decisamente importante è il riconoscimento delle diverse religioni. La Rojava è una società estremamente multi confessionale. Ci sono non solo curdi sunniti ma anche gruppi sciiti, yezidi, aramaico-cristiani e ortodossi. Rispettarli tutti e tutelarli di questi tempi, quando la rivoluzione siriana si è imbarbarita per colpa dell’aggressiva confessionalizzazione da parte sia del regime sia dello jihadismo, è effettivamente un progetto di sinistra del tutto esemplare. E qui il progetto politico della Rojava offre una effettiva garanzia di libertà.

Ci sono ovviamente problemi irrisolti nell’amministrazione e nell’implementazione di soluzioni che poggino su un consenso plurale. L’infrastruttura pubblica di una città non funziona come un’assemblea politica. C’è un grande entusiasmo e una disponibilità ideale, ma allo stesso tempo anche una carenza di competenze e conoscenze su come funziona la burocrazia cittadina. Finora non ci sono mai stati curdi in ruoli di responsabilità ai vertici amministrativi. Giudici, procuratori, insegnanti, funzionari, ingegneri e addetti delle compagnie petrolifere erano tutti al soldo del partito baath. Quasi tutti se ne sono andati e quelli che adesso tentano di rimpiazzarli sono molto motivati politicamente ma in parte del tutto inesperti e a volte anche sovraccarichi. Eppure la Rojava è una reale opportunità e i curdi faranno di tutto per poterla sfruttare.

Tutto sembra prospettare per la regione un lungo e difficile periodo di conflitti. Per i curdi però c’è anche l’opportunità di rafforzare le loro posizioni in Iraq e in Siria. Quale pensi sia la prospettiva in quelle zone? Stato curdo, autonomia regionale, lunga guerra civile?

Il PYD e il progetto politico della Rojava hanno già da tempo respinto del tutto la possibilità di uno stato curdo. La dichiarazione potrà stupire la sinistra, visto che si tratta di una visione molto a lungo termine. Il PYD, in sintonia con il movimento curdo di Turchia, ha dichiarato che la democrazia curda è una questione di diritti e non di confini. Tutto il resto non solo non sarebbe realizzabile, ma non avrebbe in sé alcuna effettiva garanzia di libertà. Infatti chi potrebbe garantire che un futuro stato curdo effettivamente assicuri di per sé a tutti i suoi cittadini i diritti democratici? Si tratta di una domanda arguta e forse anche di un punto di contatto per qualcuno dei nostri movimenti di sinistra che, sulla base dei propri pregiudizi, non vede di buon occhio il movimento curdo. Per cui: la Rojava, se sopravviverà politicamente, resterà parte della Siria e potrebbe addirittura diventare un esempio per spingere al decentramento e quindi alla democratizzazione del vecchio stato centrale autoritario.

La situazione in Iraq è invece ancora diversa. Lì l’amministrazione regionale curda è già di fatto uno stato nello stato. Il KDP di Barzani minaccia da tempo la secessione, ma passerà molto tempo prima che la attui. La situazione è comunque aperta. Se gli Stati Uniti tramite i loro corrotti protetti a Bagdad in pratica “autorizzano” in Iraq un califfato sunnita dell’ISIS, le cui milizie attaccano i villaggi dei curdi yezidi a Shingal, a metà strada fra Mosul e il confine siriano, costringendo migliaia di persone alla fuga, allora alla fine potrebbe anche accadere che il Kurdistan iracheno abbandoni in fretta l’autonomia, più in fretta di quanto non piaccia agli Stati Uniti e alla Turchia. In ogni caso l’amministrazione regionale curda della famiglia Barzani cercherà di avere sempre più poteri e competenze e cercherà di costruirsi una posizione nel contesto della dissoluzione dello stato iracheno.

La Siria resterà una enorme tragedia. Il regime è consolidato militarmente, Assad si è fatto rieleggere e grazie all’ascesa dell’ISIS e del terrorismo ha ottenuto una nuova perfida legittimazione. Ora sembra avverarsi quello che sin dall’inizio Assad aveva usato come arma propagandistica per diffamare i rivoluzionari siriani: o me, e voi mi conoscete, o l’islamista barbuto, che mozza le teste. L’ISIS ha combattutto da tempo in prima linea contro i gruppi FSA e il regime ha bombardato l’FSA, senza toccare le roccaforti degli jihadisti. Adesso le cose sembrano leggermente cambiate. L’FSA è stato colpito in diversi luoghi, molti dei guerriglieri si sono arresi o sono passati con i gruppi religiosi radicali. Nel frattempo gli attivisti civili hanno più paura degli jihadisti che del regime. Uno ha detto di recente: non è che Assad abbia sconfitto la rivoluzione, è stato l’ISIS a poterci in qualche modo battere. E questo è veramente una considerazione molto amara. La guerra in Siria quindi continuerà. Forse ancora per anni. Tutte le forze regionali e internazionali a quanto pare riescono ad andare avanti così senza problemi. Tranne i siriani, che come prima muoiono ogni giorno. Ma una Siria unita non c’è più da tanto tempo. C’è la Siria sulla costa, in cui il vecchio stato sopravvive incolume, c’è la Siria dei quartieri ribelli ai margini dei centri urbani di Homs, Hama e Damasco, in cui il regime comincia a riconquistare il definitivo controllo. E poi c’è Aleppo, città ancora divisa che forse sarà riconquistata; ci sono numerosi villaggi e regioni a sud lungo il confine giordano e ad est verso l’Iraq, in cui il regime è assente da anni e in cui si è ormai consolidata una società di emergenza e di profughi, sottoposta di continuo a bombardamenti aerei. Non ovunque regnano tribunali islamici della sharia, ma ovunque c’è una grande depressione per via di una mostruosa violenza che ha trascinato nel baratro un’intera società. Eppure ci sono comitati locali e attivisti civili che tentano la strada della solidarietà e del mutuo aiuto. Documentano le violazioni dei diritti umani da parte dei numerosi gruppi armati, pubblicano piccoli giornali, prestano aiuto nell’emergenza e si cimentano nell’agricoltura alternativa e nell’autogoverno municipale. Dall’inizio della rivoluzione non hanno mai avuto la stessa opportunità di sviluppo che invece ha avuto la Rojava grazie al ritiro del regime siriano. Assad non ha mai tollerato a Homs o a Damasco la presenza di un centro culturale o di media dell’opposizione, i protagonisti venivano subito arrestati e le strutture chiuse.

Ovviamente la militarizzazione della rivoluzione siriana è stata forse l’errore più grande, ma come si fa a rimproverare qualcuno che a una manifestazione non si è fatto volontariamente sparare senza reagire?

Nessuno a sinistra dovrebbe dimenticarlo, se a ragione vogliono essere solidali con la Rojava. Ogni luogo, ogni momento, ha la sua particolarità. Senza le rivolte a Darʿā, Homs e Damasco, senza la rabbia delle prime manifestazioni e il clima di rivolta generale che si diffondeva nelle città della Siria centrale, il regime non sarebbe mai stato costretto a mettersi a nudo. La solidarietà di sinistra con la Rojava dovrebbe quindi espressamente comprendere anche il rispetto per lo storico coraggio di tutti quelli che ovunque in Siria hanno rivendicato i messaggi centrali delle primavere arabe: pane, libertà e dignità.

**Traduzione cura di Paola Rosà e Valentina Merlo