Libano - Incontro con l'associazione Amel

27 / 5 / 2014

Il 29 ottobre la delegazione ha visitato l’ufficio dell’organizzazione Amel, che dal 1979 si occupa di risposta alle emergenze, sostegno ai rifugiati, difesa delle lavoratrici domestiche immigrate, sviluppo rurale, empowerment delle donne, protezione dell’infanzia, salute fisica e mentale, educazione. L’obiettivo è sostenere le comunità vulnerabili a prescindere dalle affiliazioni politiche e dalle confessioni o etnie di appartenenza e combattere ogni discriminazione. Per questo l’associazione porta avanti il proprio lavoro umanitario in modo imparziale e non riceve fondi politicizzati. Dopo la presentazione delle attività, degli obiettivi e dello spirito dell’organizzazione, la discussione si è concentrata soprattutto sul programma che Amel conduce in difesa delle lavoratrici domestiche immigrate.

Da anni in Libano si consuma una strage silenziosa. Ogni settimana una lavoratrice domestica immigrata si toglie la vita. Una morte nell’ombra per mettere fine a una vita soffocata dentro le quattro mura di una casa diventata una prigione dove tutti i diritti sono sospesi. Non si vedono, eppure sono tantissime le donne immigrate che finiscono a lavorare nelle case dei benestanti libanesi: 200mila sono entrate legalmente; altre 75mila sono illegali. Rappresentavano il sei per cento della popolazione totale, prima che l’esodo dei profughi in fuga dal conflitto siriano sbilanciasse l’equilibrio demografico del paese. Provengono dall’Etiopia, dalle Filippine, dal Nepal, dallo Sri Lanka, dal Bangladesh e dall’Africa subsahariana e, oltre alla pulizia della casa, si occupano della cura di anziani e bambini, rispondendo alle necessità assistenziali delle famiglie libanesi lasciate scoperte dallo Stato. Per molti, però, è come se non esistessero.

“Le lavoratrici domestiche immigrate che vengono nei nostri centri raccontano di sentirsi discriminate dentro casa e fuori. Molti le considerano come persone di serie B”, denuncia Zeina Mohanna, coordinatrice del progetto per la difesa delle lavatrici immigrate dell’associazione. È proprio per riaffermare la loro presenza e le loro rivendicazioni che il 4 maggio migliaia di lavoratrici immigrate sono sfilate per le strade di Beirut, assieme agli attivisti e alle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. La manifestazione si è inserita nell’ambito di una tre giorni di eventi organizzata dal Consorzio dei lavoratori domestici immigrati per chiedere al governo di garantire loro una protezione legale nel paese.

Sebbene in Libano le condizioni di vita siano difficili per i migranti in tutti i settori, soprattutto negli ultimi anni segnati dalla recessione economica e da una disoccupazione che ha toccato il 20 per cento, le lavoratrici domestiche sono le più vulnerabili. La loro esclusione dalla Legge Nazionale del Lavoro le priva di tutti i diritti e le tutele sanciti dalle norme vigenti, come la possibilità di avere un salario minimo, di organizzarsi in un sindacato, di stabilire un orario di lavoro fisso, di ricevere il congedo di malattia. In un sistema così deregolamentato diventa ancora più difficile avanzare rivendicazioni e denunciare gli abusi e le violenze subite.

Per le lavoratrici le insidie cominciano ancora prima di arrivare nel paese. Il sistema di reclutamento nei paesi di origine, noto come “kafala” o programma di sponsor, lega le donne a un unico datore di lavoro. È infatti un’agenzia che mette in contatto le due parti e si fa pagare da entrambe per giungere alla firma di un contratto, i cui termini spesso non sono esplicitati. Le donne pagano fino a mille dollari e sono spesso attirate con false promesse di un salario elevato, di un orario di lavoro ridotto e di condizioni di vita dignitose. L’agenzia, però, fa solo da tramite e una volta arrivate nel paese le donne restano vincolate al loro datore di lavoro libanese. Hanno un anno di tempo per rinnovare il contratto e se non lo fanno diventano illegali. Ma dopo aver pagato fino a duemila dollari per il reclutamento, spesso il datore di lavoro considera le lavoratrici domestiche come una proprietà. Private del passaporto e rinchiuse in casa, ignorate dalla legislazione del paese in cui si trovano e senza conoscere il proprio status, le donne diventano ombre ridotte al silenzio, invisibili all’esterno. Chi è sorpresa senza permesso di soggiorno è portata in carcere in attesa del rimpatrio.

Le associazioni che si occupano delle lavoratrici domestiche immigrate hanno denunciato molti casi di violenza fisica e sessuale, verbale e morale, di trattamenti degradanti e di diverse violazioni dei loro diritti, come il divieto di muoversi di casa, di avere giornate libere, di parlare con i familiari e di ricevere il salario. I dati raccolti dalla rivista online Jadaliyya (http://www.jadaliyya.com/content_images/file/MDW_Gebrayel_Menchik_MWTF_AltCity_infographics.pdf) riferiscono che il 55 per cento delle lavoratrici domestiche immigrate lavora più di 12 ore al giorno; il 99 per cento non ha libertà di movimento e il 7 per cento ha subito violenze sessuali. “Il nostro impegno è finalizzato a fare in modo che, anche se stanno in casa, le due parti conoscano i loro diritti e doveri. Uno dei problemi principali che abbiamo riscontrato è la barriera linguistica, per cui spesso le violazioni avvengono perché le due parti non riescono a comunicare”, spiega Zeina Mohanna, “un altro è lo shock culturale. Il datore di lavoro deve sapere che la lavoratrice ha una cultura diversa e deve facilitare la sua integrazione nella società”.

Per liberare le lavoratrici domestiche dalla loro condizione, la prima cosa da fare è scardinare il sistema degli sponsor e modificare la legislazione libanese: “Abbiamo presentato una proposta di legge per la protezione delle lavoratrici domestiche immigrate al ministero della giustizia e del lavoro, nell’ambito di un progetto che coinvolge, oltre al Libano, anche l’Egitto e la Giordania, per rispondere agli standard internazionali in materia di diritti dei lavoratori”, prosegue Mohanna. La bozza per ora è rimasta sulla carta, in attesa che le tessere della politica libanese siano rimescolate dall’elezione del nuovo presidente della repubblica, che sostituirà Michel Suleiman, il cui mandato scade il 25 maggio.

La vulnerabilità delle lavoratrici domestiche immigrate è accentuata dall’impatto della crisi siriana sul paese. Il flusso di un milione e mezzo di profughi riversatosi in Libano, dove vivono quattro milioni di persone, oltre ad alterare il precario equilibrio confessionale del paese, ha travolto il mercato del lavoro. “In teoria i profughi non possono lavorare, ma in pratica molti accettano lavori in nero, aprendo la porta a ogni tipo di violazione dei diritti umani”, denuncia Virginie Lefèvre, coordinatrice dei programmi di Amel. Molti siriani sono disposti a lavorare per un salario più basso rispetto ai libanesi e agli altri lavoratori immigrati, cosa che ha scatenato una guerra tra poveri per i posti di lavoro e un generale abbassamento delle condizioni di occupazione.

Negli ultimi anni il lavoro di Amel si è concentrato molto sull’emergenza dei profughi in arrivo dalla Siria. Come ha spiegato Virginie Lefèvre, “I profughi siriani sono soprattutto donne e bambini, sono persone vulnerabili e hanno bisogni specifici”. Il primo obiettivo dell’organizzazione è quindi quello di migliorare le loro condizioni di vita di base. In accordo con lo spirito di non discriminazione che guida l’attività dell’associazione, in modo da attenuare le tensioni tra le diverse comunità, i servizi offerti ai siriani sono garantiti anche a tutti i libanesi che ne hanno bisogno, ai profughi palestinesi e siro-palestinesi e ai libanesi che vivevano da decenni in Siria e ora sono rientrati a causa del conflitto, ma non hanno più legami con il paese di origine.

Il primo settore su cui si concentra il lavoro di Amel con i profughi siriani è quello della salute. Grazie a sei cliniche mobili, gli operatori distribuiscono medicinali, ma organizzano anche sessioni di sensibilizzazione con i bambini e con i genitori, puntando molto sulla salute preventiva. Per quanto riguarda l’istruzione, invece, Amel cerca di rimediare ai problemi principali incontrati dai bambini siriani nel sistema scolastico libanese, vale a dire la mancanza di posto nelle scuole e le differenze nei programmi di studio tra i due paesi. “In Libano alcune materia, come la matematica e la chimica, sono insegnate in inglese o in francese, mentre in Siria il programma era svolto tutto in arabo”, ha spiegato Virginie Lefèvre, “il livello linguistico dei piccoli siriani non è alto come quello dei loro coetanei libanesi e quindi faticano a seguire le lezioni. Inoltre molti bambini hanno perso anni di scuola a causa del conflitto e quindi sono rimasti indietro”.

 Amel offre classi di recupero gli alunni siriani iscritti nelle scuole libanesi e lezioni per i bambini che non sono riusciti a entrare, in modo da preparali per l’anno successivo. E, cosa ancora più importante, l’organizzazione offre sostegno psicologico e sociale ai bambini siriani grazie a un programma di insegnamento attraverso il gioco. Molti bambini, infatti, hanno problemi psicologici a causa dei traumi che hanno subito delle difficoltà che continuano a vivere, sia per condizioni in cui si trovano in Libano, sia perché vedono i loro genitori in difficoltà e senza lavoro. Per questo Amel lavora anche con i giovani e con le donne, per garantire una formazione professionale ai profughi siriani, a quelli palestinesi e ai libanesi. I partecipanti possono frequentare corsi professionali per parrucchieri, truccatori, tecnici del computer, grafici, segretari e in seguito svolgere uno stage per compiere i primi passi nel mondo del lavoro.