L’indipendenza del Popolo. Alcune riflessioni sulla Catalogna e sull’Europa

15 / 11 / 2017

Il clamore dell’indipendenza della Catalogna sembra essersi acquietato. Da quando sono stati imprigionati alcuni membri del Govern, della Mesa del Parlament e altri hanno cercato rifugio in Belgio, tra cui lo stesso President Carles Puigdemont. L’opinione pubblica internazionale ha di nuovo fatto uso della sua proverbiale dimenticanza spingendo nel dimenticatoio una delle vicende che più hanno macchiato quest’anno in Europa; le immagini delle manganellate ai cittadini e alle cittadine di fronte ai seggi elettorali, l’imprigionamento della dirigenza politica di un ente regionale, il terrorismo economico-finanziario come ricatto per obbligare alla permanenza nella Spagna e rinunciare al dialogo, tutto ciò è ormai notizia passata. Proprio come accaduto con la Grecia - una questione molto diversa, sia ben chiaro - nel 2015. 

Senza rassegnarci all’oblio strategico cui ci costringono i tempi presenti della politica, forse possiamo approfittare di questa momentanea pausa per riflettere con più calma sul significato politico dell’indipendentismo catalano. Semplicemente, il tempo e la visione complessiva che raccoglie i diversi episodi legati alla vicenda catalana permettono un’analisi che racchiuda il più possibile le sfumature e le contraddizioni insite in un fenomeno tanto trasversale, quanto ambiguo (almeno sotto certi punti di vista). Magari porre l’attenzione su questi punti ci salva dal rischio di abbaglio teorico a cui si espongo le riduzioni semplicistiche di destra ("sono tutti borghesi che vogliono pagare meno tasse e tenersi gli introiti per sé contro i poveri del Sud" o "se un movimento va contro lo Stato, è un movimento borghese!") e di sinistra ("in Catalogna si sta facendo la rivoluzione e delegittimando la gabbia neoliberale dell’Europa" seguito da un "bisogna fare come i catalani"), oppure all’afasia di quasi tutta la sinistra istituzionale del continente. Credo che questo sia un nodo piuttosto dolente, dal momento che la scena dell’indipendentismo ha fatto apparire l’attore Podemos sotto un’altra luce, dandogli, peraltro, un ruolo inadeguato ad un copione estraneo al linguaggio dell’unità nazionale e della strategia dell’egemonia gramsciana. Una parte che poco si addice allo stare dentro questi processi che, per quanto ambigui e certamente non privi di ripide salite, potrebbero prefigurare ed essere spunto per un nuovo assetto dell’Europa e potrebbe ripensarne la governance. Ma su questo "vizietto dello Stato-nazione" torneremo nelle conclusioni. Per adesso ci sia sufficiente sapere che, eccetto Corbyn e Mélanchon, nessuno è riuscito a cogliere le opportunità a cui apre un processo di indipendenza. 

Il momento populista

Veniamo al dunque dell’indipendentismo. Come è noto, la rivendicazione di uno Stato catalano autonomo non nasce certo con il governo di Puigdemont. La storia del progetto risale più o meno alla famosa guerra di successione delle corone che vendette al trono di Spagna la Catalogna. Se è vero che per un secolo l’indipendentismo è stato latente, dall’altra parte già nel XIX secolo, grazie al rinascimento catalano, l’idea di uno Stato catalano torna in auge con forza. Il momento nel quale esplode, a seguito di una lunga gestazione durante le due Repubbliche spagnole agli inizi del Novecento, è la guerra civile: la Catalogna è roccaforte della difesa della Repubblica, dei suoi ideali e dell’eredità delle riforme socialiste. È in questa occasione che la tensione tra monarchia e repubblica e lo scontro militare tra le due opzioni, con la prima appoggiata dai fascisti della Falangeh, dai cattolici e dai soldati di Franco, che l’idea di indipendenza costruisce i suoi tratti peculiari. Questa eredità è poi stata raccolta, tra le altre di estrazione di sinistra rivoluzionarie, da Jordi Pujol nel periodo post-transizione democratica, associando all’indipendenza la sua ideologia liberale; a questi succede Artur Mas agli inizi del nuovo secolo, più esattamente nell’arco temporale che ha investito la crisi finanziaria e mondiale e ha visto l’emergere dei movimenti sociali anti-austerity. Proprio nel suddetto frangente, inizia a prendere piede una nuova idea di indipendenza sostenuta dai movimenti in quanto considerata una strategia per la liberazione dai gioghi dei pareggi di bilancio e una via per abbattere le disuguaglianze economiche.

Il breve specchietto storico ci fa ben capire quanto questo spirito sia ancora vivo tra coloro che hanno occupato le strade e le piazze, nonché dai partiti indipendentisti stessi, nelle ultime settimane. Gli slogan e i cartelli che richiamavano la lotta degli avi catalani, il loro martirio per difendere la repubblica e la sopraffazione della monarchia spagnola, sono stati spesso usati in chiave anti-nazionalista. Il primo quid dell’indipendentismo catalano starebbe nella sua forma repubblicana di contro al trono, simbolo a ragione di un retaggio medievale carico di violenza e di connivenza con il franchismo, visti gli esiti della guerra civile. È importante soffermarsi su questo aspetto perché credo dia conto del movimento indipendentista delle scorse settimane come di un fenomeno populista. 

Piuttosto che fondarsi sull’immagine del leader, la costellazione indipendentista ha però giocato sull’idea repubblicana di uno Stato autonomo. Certo, senza le persone in carne ed ossa, una postura di Puigdemont (la sua figura spettacolarizzata la sera del primo di ottobre con tanto di concerto, palco e fuochi d’artificio) e di altri membri del Govern non si sarebbe stato alcun movimento. Eppure, l’indipendentismo ha alimentato la sua forza pratica dalla tradizione di cui è gravido e dalla sua traslazione nel presente immediato. Il passato - in parte molto mitizzato - ha poi scatenato una reazione esplosiva con il presente a causa del colpo di mano del governo di Madrid, che sicuramente si è imposto in linea di continuità con quanto attuato nei secoli dai governi centrali spagnoli contro i territori locali. La sfiducia e la delegittimazione di Rajoy e della Corona hanno costituito il blocco indipendentista grazie all’antitesi apertasi con queste istituzioni. 

Il passato e il presente dell’idea repubblicana dell’indipendenza stabiliscono certo dei campi di possibilità che non sono infiniti, ossia non possono unificare qualsiasi istanza politica. L’antifascismo, il rifiuto del razzismo etnico (che non esula da altre forme di razzismo), l’eliminazione della monarchia, l’europeismo inteso come non chiusura a tutto tondo dei propri confini sono sempre stati ben chiari, al punto da produrre delle espulsioni dal corteo dei gruppuscoli minoritari e insignificanti dei (pochissimi) fascisti catalanisti. Da rimarcare, almeno dalla voce mainstream della narrazione indipendentista (altra cosa sono le parole delle persone che partecipano alla mobilitazione), il concetto aperto dell’essere catalani: è tale chiunque vive, parla e lavora in Catalogna al di là dei suoi geni. 

Ciononostante, tenendo fermi questi limiti, all’interno del campo universale repubblicano possono convergere differenti spinte, anche contraddittorie tra loro. Non è certo una novità che l’indipendentismo sia trasversale e abbia stimolato classi, settori e allineamenti politici eterogenei. Tra questi troviamo una tendenza di destra risalente alla borghesia catalana in definitiva rottura con gli apparati di potere di Madrid (PDeCAT), una reazione poujadista delle classi medie che vogliono difendere la propria "corporazione" redistribuendo gli introiti della pressione fiscale solo ai cittadini catalani, un disprezzo per la solidarietà nei confronti delle altre regioni spagnole dall’alto del propria ricchezza economica; una ideologia di sinistra (Esquèrra Rèpublicana) e movimentista (CUP), la seconda delle quali vede nell’indipendenza la possibilità di rifondare uno Stato su basi socialiste grazie al processo costituente aperto e l’occasione di una cesura dalla Costituzione del ‘78. Questa prospettiva di basa sul fatto che, per quanto opera della transizione democratica, la carta spagnola continua a contenere articoli provenienti dal regime totalitario (tra cui lo stesso 155 di interruzione dell’autonomia regionale, la sovrapposizione tra potere politico e giudiziario, ecc...), fu scritta da soli 12 persone votate solo tra i partiti dichiarati legali dal regime e in un clima di violenza fascista  per le strade che ha lasciato delle persone morte ammazzate. 

Come possono stare assieme le plurime direzioni politiche che abitano l’indipendenza? Appunto, grazie a quanto detto prima. Il collante dell’idea in sé di indipendenza, incarnata dalle gesta eroiche del Govern tenace nonostante le ingiunzioni del nemico-Stato, tiene assieme tutte le istanze a dispetto della loro strutturale differenza. Scomodando Ernesto Laclau, potremmo dire che le catene equivalenziali si intricano tra loro di fronte al nemico comune e nel contesto di una crisi, come del resto l’ha causato l’intransigenza di Madrid nei confronti della legalità del referendum. 

Le Piazze e l’autonomia del Politico

Ci sono diversi indizi evidenti che ci indicano questa strada analitica. Ad esempio, la visibile mancanza di un dibattito sui contenuti dell’indipendenza, sulla sostanza del progetto in termini di diritti, welfare e struttura della decisionalità. Sempre rimandando al dopo dell’assemblea costituente, durante le settimane di più intensa mobilitazione non si è discusso dei rapporti di forza tra classi in Catalogna, della condizione dei migranti europei e extra-europei, di precarietà, di sviluppo energetico e di eguaglianza di genere. O meglio, le voci che parlavano di tutto non hanno alzato troppo la voce in virtù dell’indipendentismo; e, comunque, tutte le ragioni più radicali e espansive hanno fatto fatica ad emergere nel complesso del dibattito pubblico che si è generato.

Del resto, non è così che si forma un popolo? L’omogeneità, l’appartenenza collettiva ad una comunità non sulla base di valori condivisi o dell’eguaglianza e libertà materiale di tutti/e, ma sulla libertà da Madrid. "Som un sol Poble" è il lemma più sentito e girato tra i manifestanti ogniqualvolta si doveva rispondere alla repressione poliziesca e legalitaria di Rajoy. 

Il momento populista dell’indipendentismo mostra così evidenti contraddizioni. Come ben risaputo, sotto il manto dell’universalità si nascondono delle relazioni di potere che riguardano soggetti e posizioni altre rispetto a quello che rappresenta il nemico. La rottura e l’antagonismo basso-alto (comunità locale VS Stato) non implicano automaticamente la liberazione orizzontale, la distanza dal dominio di razza, genere e di classe presente dentro la società catalana. L’oppressione su tali assi esercitata dai promotori di destra del procès non è difficile da scoprire: il PDeCAT, cioè la vecchia Convergència, è il fautore dei tagli al sociale (sanità e istruzione in testa) della Catalogna e degli sgomberi forzati delle piazze del 15M barcellonese, dell’importo poliziesco contro i cortei e per lo sgombero delle case, e in generale della lotta ai poveri. L’assenza della discussione sui contenuti del "nou pais" ha di fatto impedito una spaccatura in seno al blocco indipendentista tra interessi divergenti. Anche prendendo per buona l’opzione del doppio tempo, cioè che prima si ottiene l’indipendenza contro l’oppressore non autoctono e dopo si organizza la costruzione socialista del Paese, senza costruzione dal basso e trasformazione soggettiva della moltitudine non è possibile sperare di avere l’egemonia nella fase due, al momento di scrivere la nuova costituzione. Quali rapporti di forza interni sono stati invertiti nella pacificazione del conflitto per imporre i propri interessi sopra quelli dei dominanti di sempre? 

L’assenza di contro-potere e di soggettivazione si è potuta notare ugualmente dal lato delle pratiche di piazza. Ogni presenza di piazza e le modalità di partecipazione (caçerolada, corteo, comizio) ha ripetuto lo stesso schema che puntava sull’aggregazione di massa e la forza dei numeri, sul "sol Poble" che dà completa fiducia agli esecutori dell’indipendenza del Govern. L’eccedenza di piazza non era concepita oppure, quando poteva avere luogo grazie all’iniziativa giovanile e universitaria, era bloccata sul nascere dalle stesse organizzazioni politiche. 

Per tutte queste ragioni, possiamo dire di aver assistito ad un movimento populista strettamente legato alla sfera della rappresentanza, al linguaggio istituzionale e giuridico del Politico. Difatti, la compressione del movimento dentro le forme decise dal Govern o dagli enti della società civile catalana (ANC e Omnium) e l’ossessione della non-violenza pronunciata da ampi settori promotori della mobilitazione, hanno contribuito a non rendere autonomo il movimento per l’indipendenza. È l’idea di indipendenza confezionata dal Govern a dover chiamare nelle piazze, non altro. Il motivo dietro al vincolo populista tra movimento e governo sta nello schiacciamento della strategia sulla diplomazia internazionale. Mostrare la "civiltà" dei catalani avrebbe dovuto imbonire i tetri burocrati europei, mentre le manifestazioni non violente avrebbero permesso la conduzione della lotta nel quadro della risoluzione tra istituzioni. Una risoluzione che Rajoy ha però immediatamente scartato mostrandosi sordo a qualsiasi ipotesi di negoziazione, perfino non rinunciando all’applicazione del 155 quando Puidgemont ha deciso di convocare le elezioni anticipate. 

Di qui l’altro problema del populismo che ha toccato il movimento indipendentista, almeno in questa contingenza. Pensando alla vittoria soltanto in termini di accordo e di contrappesi tra le forze politiche istituzionali (gli appelli ai socialisti, l’intercessione di Bruxelles), si è sottovalutata il potere sovrano di cui continuano a godere gli storici Stati nazionali. Stiamo parlando del monopolio della forza che conservano, della riserva di potere che anche solo virtualmente continuano a mantenere con la costante minaccia della repressione manu militari; aggiungiamoci al seguito le affilate armi delle sentenze dei giudici e della legge in generale. Una consapevolezza, questa, che non è mancata ai gruppi fascisti e falangisti, risorti dall’oltretomba della storia sulla spinta dell’autoritarismo di Rajoy e della vecchia/nuova retorica sulla spagnolità unita sotto la nazione. Ma parliamo anche del ruolo strategico della forma-Stato per la governance europea e globale per il suo funzionamento da terminale del comando e per il suo essere pilastro di ogni nuova configurazione. Nella fattispecie in Europa la Spagna di Madrid è una pedina troppo importante per la nuova concezione di Europa a due velocità, facendo parte del ‘nucleo duro’ assieme a Germania, Francia e Italia. 

L’estromissione del conflitto di piazza, eccetto in alcuni rari casi prima della settimana scorsa come per i blocchi dello sciopero del 3 ottobre, ha dovuto fare i conti con lo schiacciamento ultimo della rivendicazione di indipendenza da parte di Madrid e di Bruxelles. In assenza di contro-poteri eccedenti e efficaci sul piano della piazza e delle pratiche, di una ingovernabilità di fatto e di una risposta adeguatasi alla repressione statale, una volta conclusi nel fallimento le trattative istituzionali diventa irraggiungibile la vittoria della battaglia. Effettivamente, la chiamata alle manifestazioni numericamente rilevanti ma praticamente ripetitive è stata sfidata dalle forze ultra-nazionaliste spagnole e cosiddette costituzionali, al cui appello alla mobilitazione in appoggio del governo madrileno hanno risposto (contando la venuta a Barcellona da tutte le parti della Spagna) centinaia di migliaia di persone. 

Non voglio dare l’impressione di star feticizzando il conflitto e gli sconti di piazza, perché bisogna tenere conto della preparazione e della capacità di un movimento che non è scontata, essendo un processo, e della forma delle pratiche radicali che può assumere differenti maschere. Il problema è quando si decide dall’alto e a priori che il movimento debba essere "non violento": un movimento è ciò che fa, le etichette gli si addicono poco in quanto sceglie nella circostanza quale pratica attuare (da quella più pacifica all’uso della forza). 

C’è da dire che con l’8 di novembre, ultimo sciopero generale successivo all’ennesima ondata repressiva e alla convocazione delle elezioni per il 21 dicembre, per tutto il giorno i comitati di difesa del referendum hanno bloccato le autostrade e arterie principali di molte città della Catalogna, molto spesso dando vita a blocchi, picchetti selvaggi e occupazione delle stazioni dei treni. In questo frangente di sconfitta del Govern, dunque, sembra che l’iniziativa di movimento abbia ripreso la sua autonomia dal Politoco e sia decisa a battere altre vie. 

Per un nuovo indipendentismo radicale

Questa non vuole essere un’accusa al movimento catalano mossa da una posizione distante e altezzosa. Sono alcuni elementi che sono stati possibili da notare proprio stando all’interno della mobilitazione catalana, dalle assemblee ai blocchi degli scioperi fino alle manifestazioni di massa. In nessun modo, poi, quello che è stato notato è da additare come colpa alle organizzazioni di movimento in generale, che hanno alimentato, seppur con un megafono che ha fatto molta fatica a farsi sentire, le mobilitazioni cercando di caratterizzarne gli orientamenti. E, se mai ci fosse ancora qualche dubbio, la critica al momento populista dell’indipendentismo non vuole scartarlo in assoluto dal novero delle ideologie politiche o screditarne i lati interessanti. In virtù di questo, è palese che, al di là delle differenze e delle contraddizioni, il fatto che i membri di un governo legittimamente eletto siano tutti incarcerati o sotto misure preventive per aver avviato un processo previsto dal programma elettorale, così come i due presidenti delle più importanti associazioni catalaniste, è inaccettabile senza se e senza ma. Ben vengano quindi le manifestazioni moltitudinarie per l’autodeterminazione e la liberazione di coloro che sono a tutti gli effetti dei prigionieri politici, l’ultima delle quali ha visto la partecipazione di quasi un milione di persone questo sabato. 

L’indipendenza di un territorio o un insieme di questo può portare in grembo un progetto espansivo per la libertà e l’uguaglianza da una parte, per una nuova pratica della decisione e delle istituzioni dall’altra. In effetti, sia sull’uno che sull’altro punto sono contenuti nella proposta politica della CUP; in più, aggiungeremmo il respiro europeo che potrebbe avere il tema dell’indipendenza a partire da una sua certa declinazione. 

In primo luogo, parliamo di una nuova comunità di cittadinanza. Immaginiamo l’indipendenza di un territorio come un obiettivo che può andare nella direzione di nuovi diritti  se interrompe la tradizione del privilegio dell’autoctonia per avere accesso alla cittadinanza e se distrugge il legame indissolubile lavorista, quello per cui si è cittadini solo perché considerati lavoratori precari che devono meritarsi i diritti con anni di sfruttamento. Senza contare la sovranità energetica e l’abbandono delle tecniche di sfruttamento del territorio e di erosione del clima che potrebbe avere una nuova comunità politica, allo stesso modo delle politiche di promozione materiale dell’uguaglianza di genere e degli orientamenti sessuali. Un progetto così concepito potrebbe davvero ambire ad essere rivoluzionario non solo perché radicale nelle sue ambizioni: sarebbe in tutto e per tutto un processo aperto che non "si fa" ma "ti fa", trasforma con sé coloro che vi si immergono superando le contraddizioni del momento populista. Inoltre, potrebbe essere animato da quella fetta di composizione sociale catalana migrante o non-bianca, perché ne sarebbe parte integrante riconoscendo nello Stato attuale lo spazio della sua subalternità e nella lotta per un’altra comunità l’orizzonte della propria liberazione. In caso non vengano toccati questi rapporti di forza, perché questa composizione dovrebbe lottare per cambiare semplicemente la lingua dell’oppressore? 

Quanto detto sopra corrisponde ad idee circa alla possibilità del divenire-progetto dell’indipendentismo. Un progetto che, in secondo luogo, potrebbe ripensare le modalità della presa di decisione democratica e collettiva. Perché l’indipendenza di un territorio deve darsi necessariamente con la riproposizione della forma-Stato più in piccolo? Una confederazione delle istituzioni di prossimità, unite tra loro dalla solidarietà e dalla libertà di movimento, e di assemblee a partecipazione diretta da parte dei cittadini, l’imposizione del vincolo di mandato per i delegati  e il mandato imperativo, sfuggirebbero alla macchina dello Stato attuale fatta di sovranismo che si impone dall’alto, pacificazione a forza di legge e di polizia, sistematiche conduzioni di classe e neoliberali dei suoi apparati. Ma andiamo ancora più in là: una confederazione di territori indipendenti nella dimensione europea sarebbe un modo per non rinunciare alla libertà di movimento e all’insieme minando le basi dell’attuale Unione Europea priva di organi democraticamente eletti e schiava dei mercati finanziari.

Sarebbe interessante provare a sviluppare questi punti - assieme ad altri - qui semplicemente abbozzati, anche per fare dell’indipendentismo un vero campo di battaglia e non lasciarlo solo ai discorsi di destra di chiusura e economica e etnica. Per quanto riguarda l’indipendenza catalana, invece, non ci sarebbe altro di guadagnato, visto che attorno alla sua legittima lotta si concentrerebbe una convergenza europea che la sosterrebbe con vigore. 

Ovvio, quanto andiamo scrivendo è molto semplice a parole e molto complicato da farsi. Basti pensare che l’argomento europeo dietro l’indipendenza non è esistito in queste settimane. In effetti, la richiesta del movimento è la costituzione di un nuovo Stato-nazione riconosciuto da questa Europa. 

Alla faccia di chi sostiene che in Catalogna l’indipendenza va contro i principi dello Stato, quindi sarebbe sostenuta solo dalla borghesia, notoriamente anti-Stato (sic!), basti questo per vedere come entra in contraddizione. Sulla semplificazione in cattiva fede del procès nei termini di un’edizione più sofisticata del leghismo veneto-lombardo non c’è molto da perdere tempo, già abbiamo parlato delle anime che compongono il momento populista e dell’assenza, almeno istituzionale, di un discorso razzista e di chiusura dei confini. Questa postura, condivisa dai fan dell’autonomia del Politico da sinistra che non riescono a lasciarsi alle spalle la Rivoluzione francese, è fatta propria dalla sedicente sinistra -sinistra istituzionale. Sarà per la sua incapacità e per la sua insufficienza, oppure per la consapevolezza di non avere la forza necessaria per pesare politicamente in alcun modo, ogni volta che si trova di fronte alla eventuale frammentazione dello Stato-nazione e alla decentralizzazione della decisione, va in cortocircuito. La paura di perdere parte del suo consenso con un bacino elettorale in meno ricalca il suo solito comportamento, ovvero la campagna per le elezioni sopra l’internità a qualsiasi movimento per portarne a termine l’obiettivo. 

Facendo i giusti distinguo tra Podemos e il resto delle sinistre, anche il partito viola nato dalle mobilitazioni di piazza è caduto nel vizio dello Stato-nazione. Al netto della sua opposizione al PP e della condannare della repressione sulla Catalogna, l’unica proposta sulla riscrittura della Costituzione in chiave plurinazionale è stata rimessa sul piatto tardivamente e soprattutto non considera che senza una rottura sociale e politica non è possibile fin quando la carta stessa vieta secessioni e il primo partito del Paese rimane il PP. L’equidistanza dei suoi "no" sia al 155 che alla Dichiarazione unilaterale di indipendenza catalana tratta allo stesso modo le due opzioni e rinuncia in partenza a giocare nel campo di battaglia dell’indipendentismo, rifiutandosi di contaminarlo con la loro stessa proposta. 

D’altro canto, la visione dei comunes (Barcelona e Catalunya en Comù) mette l’attenzione sulle città e sul municipalismo nella costruzione della nuova repubblica, prendendoli come motore imprescindibile del processo di mobilitazione che, per sua natura, deve contare sull’appoggio dei movimenti locali e sulla loro messa in rete. Sebbene sostengano la necessità di oltrepassare i confini della Catalogna per ridefinire strategicamente gli assetti del potere e spostare verso il basso la decisionalità, parallelamente rimangono legati al quadro costituzionale di unità nazionale del ‘78, senza volerlo mettere in contraddizione e, dunque, rendere effettiva l’indipendenza. Proprio su questa linea si è consumata la tensione tra Podemos-comunes e Albano-Dante Fachin, ex segretario generale della sezione catalana di Podem. Il continuo richiamo ai socialisti - con cui, peraltro, da pochi giorni si è deciso di non governare più la città - perché si smarchino dal PP (una decisone che hanno dimostrato di non voler prendere) e venga rispettata la carta costituzionale abbandona la volontà di rompere con le norme vigenti e spera nel referéndum pactado, una eventualità poco probabile per la prossima legislatura. Indubbiamente la proposta poggia su delle statistiche che vedono la maggior parte dei catalani a favore di un referendum concordato, ma pecca di realismo e di intervento politico, poiché viene lasciata indietro qualsiasi volontà di voler intervenire nei movimenti per diffondere e far vivere tra le persone l’idea di una nuova struttura istituzionale basata su indipendenze e confederazioni.

La politica è l’arte del possibile. Riconoscerne una breccia nell’indipendentismo può permetterci di guardare oltre il già esistente e di prefigurare il nuovo in seno all’attualità. I vecchi schemi e orpelli teorici, così come battere il solo tempo delle opportunità elettorali, ci impediscono di rendere l’indipendentismo un discorso e una pratica radicale e di spogliarlo di tutti i suoi aspetti più ambigui. Nello stato d’eccezione permanente imposto in Europa da ogni Stato-nazione, per cui si alza il livello di tolleranza della repressione e si manda in deroga lo Stato di diritto, l’indipendentismo e la creazione di nuove istituzioni possono costituire un nuovo orizzonte, rispondendo all’esigenza che da ogni angolo del continente richiede spostamento verso il basso della decisione e autonomia dagli apparati di potere.  La strada è irta e scoscesa, bisogna far fronte alla realtà e non farci prendere dai facili entusiasmi. Ma se non ci poniamoall’altezza delle sfide del presente, abbiamo già perso in partenza.