Lo spauracchio dell'indipendenza scozzese

21 / 9 / 2014

Come un discorso non nazionalista sull'indipendenza scozzese abbia messo in crisi un intero sistema economico basato sui diktat dell'austerità e dell'abbassamento del costo del lavoro. Il No scozzese è un respiro di sollievo per le élites neoliberali. Ma cosa si nasconde dietro i Sì? 

“E’ tempo per il nostro Regno Unito di stare assieme e di andare avanti”. Così commenta, gioioso, il Primo Ministro inglese David Cameron appena usciti i risultati ufficiali  del referendum di questo venerdì che ha tenuto col fiato sospeso l’Europa dei mercati e non solo. La vittoria dei no ha fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti i potenti dell’Unione, che si sono fin all’ultimo aggrappati a quel 55% che ha dichiarato di voler restare sotto la Corona inglese.

Nei giorni immediatamente precedenti la votazione sull’indipendenza della Scozia dalla Gran Bretagna, un attacco mediatico proveniente dai politici neo-liberali e dalle lobbies finanziarie ha tentato di delegittimare i sostenitori del Sì, adducendo tra le principali motivazioni la catastrofe economica che ne sarebbe derivata sia per Westminister che per Edimburgo stessa, e l’impossibilità di poter integrare il nuovo Paese all’interno delle comunità internazionali quali l’Unione europea e la Nato. Perché c’è stata tutta questa attenzione sulla dinamica del referendum? Dal Presidente degli USA Obama fino alla Cancelliera Merkel e a Barroso, per non parlare degli economisti (dal New York Times fino al nostrano Sole 24 Ore) che hanno speso fiumi d’inchiostro per esorcizzare la questione dell’indipendenza.

La principale argomentazione contro l’indipendenza ha ruotato attorno all’unità monetaria che avrebbe mantenuto la Scozia con Londra pur non avendo una gestione unica della valuta; un fatto che metterebbe in crisi la medesima indipendenza scozzese, visto che la Banca d’Inghilterra non sarebbe stata influenzata dal nuovo governo. Inoltre, l’Europa si chiedeva quale futuro ci sarebbe stato per la tenuta dell’economia continentale nel momento in cui il terzo Paese più stabile si fosse disgregato: come fare a calcolare i debiti sovrani, per esempio? Quale proporzione sarebbe dovuta restare alla Corona inglese, e quale al governo indipendente? La Scozia sarebbe poi rientrata nelle linee guida dell’austerità e dell’abbassamento del costo del lavoro, in modo da mantenere un equilibrio stabile europeo senza metterne in discussione gli assetti? Certo, c’è da dire che la Scozia indipendente faceva paura anche per la concentrazione di risorse (quali il petrolio) e per la presenza delle armi nucleari, due fattori che sarebbero divenuti indisponibili alla presa di Westminister e alla Nato.

Il timore del contagio indipendentista, dalla Catalogna fino al Veneto, è visto dalle oligarchie europee come la possibilità non solo di distruggere macroeconomie, ma anche come vera e propria disposizione a interferire con l’Unione Europea in una direzione antagonista e contraria. E’ necessario chiarire questo punto: la questione dell’indipendenza della Scozia non va vista nella fuoriuscita dall’Unione Europea, nella sua frammentazione e nella ripresa della sovranità nazionale, quanto piuttosto nel suo essere un potenziale sovversivo tutto interno all’Unione e alle sue relazioni di potere. L’impossibilità di uscire dall’Unione, tra il bisogno dell’abbattimento dei vincoli alla libertà di commercio, la mobilità della forza-lavoro e la sfiducia dei mercati che affosserebbe la Scozia, non ha potuto schiacciare il movimento indipendentista sulla riappropriazione della sovranità all’insegna dello Stato-nazione. Questo è anche una delle ragioni per le quali, al contrario di altre situazioni per così dire analoghe rispetto alla rivendicazione dell’autonomia dei territori, in Scozia si è dato un fertile contesto per rendere un nodo indissolubile l’indipendentismo e l’estensione dei diritti, la distribuzione della ricchezza e il controllo delle risorse contro ogni tipo di saccheggio a scopo di profitto.

Cat Boyd, di cui abbiamo già riportato un’intervista, ha infatti sempre rimarcato, all’interno della Radical Independence Campaign, la concomitanza dell’indipendenza e del distacco dalle politiche neo-liberali di Westminister, che opera un rapporto di forza agito attraverso il meccanismo costituzionale che riporta il diktat europeo dell’austerity. L’occasione dell’indipendenza, ormai persa, avrebbe potuto ricollocare il ruolo dei sindacati dei lavoratori, allontanandoli dalla filiazione con la direzione nazionale che ha sposato la svolta laburista fatta a suo tempo da Blair. La questione non è  mai stata per loro di “ vincere il referendum, ma di vincere significative riforme sociali per la classe lavoratrice”. In questo senso non possiamo omogeneizzare il movimento indipendentista: come dicono gli attivisti della RIC, la volontà dello Scottish National Party – partito del premier Salmond - era un “sì-per-non-cambiare-politica”, ossia senza ripensare radicalmente le forme di rappresentanza, il potere delle forze sindacali vicine ai lavoratori, i diritti sociali. L’indipendenza per se stessa, la retorica legata alla “scozzietà” o ad un mitico revanscismo storico, oltre a non avere effetti concreti di cambiamento materiale delle condizioni di vita, si espone a minacce di chiusura identitaria; un’attitudine che la RIC ha sempre respinto, volendo creare quel che definisce un “indipendentismo internazionalista”. Insomma, l’indipendenza avrebbe potuto aprire uno spazio di agibilità politica contro la gabbia del neoliberismo europeo e britannico, proprio incrinando quello spazio geopolitico del Regno Unito che è una colonna portante dell’economia globale. E’ da questo punti di vista che i mercati finanziari e i politici europei hanno dovuto alzare gli spauracchi, domandandosi: cosa succederebbe se ci fosse un’ondata di nuovi territori indipendenti e di istituzioni politiche non allineate con la concertazione-imposizione europea dell’austerità?

Sembra infatti che la composizione sociale legata alla precarietà giovanile, alle classi operaie e ai disoccupati abbia sostanziato quel 44% del Sì. Andando contro le direttive del proprio partito, un buon 37% dei simpatizzanti dei Laburisti ha votato per l’indipendenza. Se la concentrazione dei voti per restare nel Regno si è avuta a Edimburgo, snodo della ricchezza dell’intera regione, non possiamo vedere una differenziazione di classe nell’espressione del voto? La middle-class, in linea generale, sembra essersi schierata a favore dell’unità perché timorosa di impoverirsi, della perdita di quegli appigli economici che ancora possiede e che la secessione avrebbe messo in crisi. Di conseguenza, dietro al voto del Sì possiamo vedere nascosto dalla velina mediatica dell’informazione europea, quello che non viene detto: non tanto una massa di orgogliosi delle proprie radici nazionaliste, quanto una rivendicazione per migliori condizioni di vita e un’altra modalità decisionale sui territori proveniente da quella fascia sociale povera e sfruttata.

L’ eventualità dell’indipendenza, tuttavia, si è chiusa con la vittoria dei No, forse intimoriti dagli esorcismi lanciati dall’asse Londra-Bruxelles-Francoforte, e secondo Cameron non se ne riparlerà che tra “una generazione, un periodo di una vita intera”. Quello di cui non sembra accorgersi, però, è che una forza costituente, a seguito dell’ampia partecipazione al referendum in generale e del protagonismo soggettivo di molti attivisti indipendentisti radicali, continuerà a germogliare nel cuore del Regno Unito e di tutti coloro che reclamano libertà e diritti nell’Europa delle élites neoliberali.