Marocco - Nel primo anniversario del Hirak, lancio di una petizione internazionale per la liberazione dei prigionieri politici

Un articolo di Soraya El Kahlaoui

29 / 10 / 2017

Pubblichiamo la traduzione di questo articolo di Soraya El Kahlaoui, sociologa e coordinatrice del Comitato di solidarietà ai prigionieri politici del Hirak, con sede a Casablanca. L’articolo lancia la petizione internazionale per la liberazione dei detenuti del Hirak, già firmata da personalità come Noam Chomsky, Ken Loach e Arundhati Roy. In Italia hanno firmato, tra gli altri, Erri De Luca, Moni Ovadia, Gianfranco Manfredi, Paolo Ferrero e Gianfranco Bettin. Tra i primi firmatari anche l’Associazione Ya Basta! Êdî Bese!.

È possibile firmare l’appello a questo link.

L’elenco provvisorio dei firmatari è disponibile qui.

L’articolo tradotto è comparso originalmente su Middle East Eye.

È passato un anno dal decesso di Mouhcine Fikri, schiacciato in un autocompattatore mentre tentava di recuperare la merce confiscatagli dalle autorità. Questa morte aveva scatenato un’ampia ondata di contestazione nel Rif, regione settentrionale del Marocco. Da allora, le migliaia di marocchini che si sono mobilitati per rivendicare giustizia sociale e sviluppo economico hanno dovuto far fronte a una repressione brutale. Oggi, mentre il Hirak celebra un anno di movimento, più di 300 detenuti politici sono ancora in prigione e i leader del movimento – come Nasser Zefzafi – sono sotto processo per attacco alla sicurezza dello stato. Le accuse sono gravi e gli imputati rischiano pene che vanno dai vent’anni di carcere alla pena di morte.

In questo contesto, e nel momento in cui i prigionieri politici del Hirak hanno appena sospeso uno sciopero della fame durato più di un mese, il Comitato di solidarietà ai prigionieri politici del Hirak, con sede a Casablanca, lancia un appello per la solidarietà internazionale e per la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici del Hirak. L’appello è già stato firmato da grandi figure intellettuali e politiche come Noam Chomsky, Ken Loach e Arundhati Roy. L’iniziativa vuole rompere il silenzio sulle detenzioni politiche in Marocco e mettere le autorità marocchine di fronte alle loro responsabilità.

Troppo spesso presentato come un modello di stabilità e di transizione democratica nella regione, il regime marocchino ha invece mostrato un volto assai fosco – e a dire il vero inquietante – nella gestione delle rivendicazioni sociali della popolazione del Rif. È dunque per rendere omaggio a questa annata di mobilitazione popolare che vorrei soffermarmi sull’immaginario di liberazione di coloro che hanno osato alzare la voce per denunciare la corruzione che corrode il paese da decenni.

Oggi, è giunto il momento di osare dire che il Hirak non minaccia la stabilità del paese ma che al contrario, costituisce un bagliore di luce che lo stato marocchino deve scorgere affinché si realizzino i profondi cambiamenti sociali che i cittadini marocchini attendono da decenni. Alcuni ribatteranno che lo stato marocchino, a partire dal 2011, ha avviato una transizione democratica e che prima ancora, dai primi anni 2000, si è fatto carico della famosa “questione sociale”. Il re Mohammed VI non era stato appunto per questo ribattezzato “il re dei poveri”?

Come sempre, gli uomini politici diranno che bisogna avere pazienza. In fin dei conti, come tutti sanno, Roma non è stata costruita in un giorno. Ma la pazienza è una richiesta che troppo facilmente esce dalle loro bocche. Anche se è innalzata a virtù suprema, la si domanda solamente alle classi popolari, mentre i politici hanno il diritto di perderla. Possono perdere la pazienza con l’insistenza del popolo, con quei “disturbi dell’ordine pubblico” che sono le manifestazioni… I politici non esitano a giustificare gli arresti di massa che colpiscono tutti quei cittadini che si permettono di perturbare la pacifica pazienza alla quale il popolo è condannato.

Il re stesso usa spesso il suo diritto di perdere la pazienza. Soltanto un paio di giorni fa, dopo che un rapporto della Corte dei conti ha rivelato enormi ritardi nel programma di sviluppo della città di Al Hoceima, il re ha rimosso tre ministri, un segretario di stato e alcuni alti funzionari. Questa decisione è stata descritta come un “sisma politico” dalla stampa locale e di fatto dimostra una cosa. In politica, i momenti di esasperazione portano legittimamente a delle rotture. Si pone dunque una domanda. Se è legittimo che il re rimuova dei funzionari statali per la loro incompetenza, perché sarebbe illegittimo che i cittadini creino dei momenti di rottura occupando le strade per denunciare questa stessa incompetenza, oggi ufficialmente riconosciuta?

Parliamo francamente. Ogni cittadino ha diritto di voto ma nessun cittadino gode del potere di rimuovere un funzionario. Allora che cosa bisogna fare quando l’incompetenza dei responsabili in carica diventa una minaccia per la vita quotidiana dei cittadini? Che cosa bisogna fare quando tale incompetenza li lascia senza possibilità di continuare gli studi universitari perché non c’è una università, o di curarsi perché mancano le infrastrutture sanitarie, o di lavorare perché l’economia non si sviluppa? 

Si potrebbe dunque domandarsi che cosa farebbero questi politici – dalla pazienza limitata – se si fossero trovati al posto di Nasser Zefzafi. Che cosa farebbero se abitassero nella regione del Marocco più colpita dal cancro a causa degli esperimenti con le armi chimiche usate all’epoca della colonizzazione spagnola? Che cosa farebbero se la loro madre, colpita dal cancro, non avesse la possibilità di curarsi, perché alcuni alti funzionari hanno casualmente dimenticato di dare all’ospedale i mezzi necessari? Si può insomma chiedersi che cosa avrebbero fatto questi politici se si fossero trovati al posto di Nasser Zefzafi, quando ogni giorno doveva affrontare lo sguardo sofferente della propria madre. E visto il fallimento di questi signori, difficilmente mascherato – bisogna dirlo – dal tono che gli dà il loro vestito così sapientemente incravattato, non si può che dubitare del fatto che avrebbero avuto il coraggio di Nasser Zefzafi, o di Mohammed Jelloul, Nabil Ahmjik, Rabi Ablaq e tutti gli altri militanti del Hirak. È difficile immaginarli capaci di mettere in pericolo la loro libertà in nome del bene comune, in nome di un diritto allo sviluppo equo per tutti. Per decenni, nessuno di loro, pur protetto da file di titoli onorifici, ha osato denunciare la corruzione interna ai propri circoli. Nessuno di loro ha osato mettere in discussione il modello di sviluppo del paese, che va a discapito delle popolazioni più vulnerabili.

La privatizzazione della sanità e dell’educazione, gli abitanti delle terre collettive sgomberati in nome della rigenerazione territoriale, i piccoli agricoltori gettati in pasto ai profitti delle grandi società di agri-business la cui produzione è destinata all’export… E tutti i progetti di sviluppo esauriscono ciecamente le risorse naturali. Le modalità di produzione agricola, l’estrazione mineraria, lo sfruttamento del fosfato, i progetti di energia solare succhiano le nappe freatiche del Marocco. Oggi, alcune popolazioni del sud del paese soffrono una grave carenza di acqua. Ma quando gli abitanti si ribellano per reclamare il proprio diritto all’acqua, le autorità hanno un’unica risposta: la repressione. Recentemente una trentina di abitanti di Zagora sono stati arrestati in occasione di una “manifestazione della sete”, cinicamente annaffiata con cannoni ad acqua. 

Imprigionare in massa tutti i militanti dei movimenti degli emarginati è una vecchia abitudine di stato. Già nel 2014, dure pene di prigione tra i due e i quattro anni sono state inflitte a numerosi abitanti del villaggio di Imider, in lotta contro la società Managem il cui estrattivismo impoverisce profondamente i suoli di una delle regioni più indigenti del Marocco.

È dunque vero, nel 2011 il Marocco ha ufficialmente avviato una transizione democratica. Ma il discorso ufficiale è ben lungi dal riflettere la dura realtà nella quale vive la maggioranza dei cittadini marocchini, emarginati economicamente e socialmente. Il Hirak ha fatto risplendere con forza il cammino di tutti gli emarginati, osando gridare a gran voce le rivendicazioni di coloro che abitualmente non trovano ascolto. È proprio per questo che sono tentata di dire che sì, il Marocco è davvero in transizione democratica. Ma questa transizione democratica non verrà dalla riforma costituzionale del 2011, sarà strappata – con determinazione e coraggio – da tutte le lotte popolari che attraversano il paese. Il Hirak è oggi la fiamma che dà unione a tutte queste voci! È la possibilità più significativa di instaurare una democrazia sociale in Marocco. Ma la difesa della democrazia ha un costo. Essa ha come condizione necessaria la difesa, senza condizioni, dei prigionieri politici! 

La loro liberazione è una causa che riguarda tutti, perché è una causa di democrazia.