Merhaba

Volti e storie di Mehser

15 / 12 / 2014

Merhaba è il saluto curdo che ci si scambia incontrandosi e nella settimana che abbiamo trascorso tra il villaggio di Mehser e la città di Suruç di persone ne abbiamo incontrate molte, incrociando le loro esperienze e ascoltando le loro storie. 

Sono storie di combattenti, volontari e rifugiati, di persone che hanno perso tutto e altre invece che sono lì perché altri hanno perso tutto, per portare un aiuto materiale o solo per far sentire loro la vicinanza di tutto il popolo curdo. E' difficile dar voce a tutte queste storie attraverso un breve articolo ma ci proviamo, selezionandone alcune che sono esemplificative e che siamo sicuri non sono voci di singoli ma sono invece racconti di un popolo.

Madya è una donna appariscente, capelli rossi e divisa militare curda addolcita da uno scialle colorato, che parla un inglese perfetto. Le chiediamo di raccontarci la sua storia personale e di come mai sia arrivata qui, nel villaggio di Mehser. Ci spiega che proviene da una minoranza nella minoranza, infatti è tatara ma con discendenza curda. E' nata a Salonicco ma fino al 2012 non ha mai vissuto in Kurdistan a causa dei problemi che la sua famiglia ha avuto per farle ottenere la cittadinanza a causa della spinosa questione dei profughi sospesi tra Grecia e Turchia. Ha vissuto invece in Nuova Zelanda, laureandosi e specializzandosi nel settore dell'educazione. “Sono cresciuta con la volontà di trovare un luogo dove vivere serenamente, lontana da guerre e violenze” dice Madya “ma nel 2012, in seguito all'uccisione di 34 ragazzi curdi tra i 15 e i 19 anni da parte dell'aviazione turca a Uludere, nella provincia di Şirnak, ho sentito il bisogno di tornare a casa e battermi contro l'oppressione del governo turco contro i curdi.” Anche il suo compagno ha una storia alquanto originale. Vassilis, di famiglia turca e musulmana, fu catturato durante il servizio militare dal PKK e rimase prigioniero nelle montagne per due anni e tre mesi. Resosi conto delle ingiustizie e dei crimini commessi dall'esercito, ha deciso di rinnegare la sua identità turco-islamica, cambiandosi nome e prendendo le difese di chi quelle ingiustizie le subiva. Quando chiediamo loro cosa pensano di quello che sta succedendo al confine turco-siriano alzano le spalle: “lo sapete anche voi cosa sta succedendo, Erdoĝan fa il gioco dell'Isis, ecco perché nel nostro blog lo raffiguriamo sempre con la barba lunga e con una mannaia in mano, in fondo per noi non ha nulla di diverso da Al-Baghadi!”

Il villaggio di Mehser è il luogo di arrivo di altre staffette oltre la nostra, ogni mattina la spianata di terra davanti all'unica moschea del villaggio, è il luogo di incontro tra delegazioni provenienti da tutto il Kurdistan e gli abitanti stessi. Durante la nostra permanenza abbiamo visto avvicendarsi delegazioni da Muş, Sirnak, Bingöl, Siirt, Dersim e Hakkari, che una volta arrivate si sono, fin da subito, prodigate nel far sentire il loro sostegno verso la popolazione locale e verso i compagni assediati a Kobane. Canzoni di resistenza e balli tradizionali curdi non si sono mai risparmiati. Tra le varie testimonianze, scegliamo di proporvene una con tre studentesse di Bingöl: “noi siamo qui non solo per le donne di Kobane, ma per tutte le donne del mondo che devono lottare e resistere”. E continuano poi: “tutte le donne donne del mondo dovrebbero venire qui perché c'è un esempio molto importante di come si può portare avanti la resistenza. Chi lotta in città deve sapere che non è solo. Viva la resistenza a Kobane!”

Ci sono poi gli anziani, che chiamiamo così noi per i loro visi rugosi ma invidiamo per la loro energia e la loro carica. Si muovono sempre in gruppo, non rinunciano mai ad una stretta di mano e ad offrire un çay o una manciata di frutta secca. Sono parte del gruppo fondatore del PKK, erano studenti quando subirono la repressione del regime militare negli anni Ottanta ma non hanno dubitato della giustezza della loro causa. Un pomeriggio, ci hanno letteralmente caricato su un camioncino per accompagnarci in un villaggio vicino, dove si trova l'abitazione dell'eroe curdo locale Musa Haçi, promotore di rivolte contro lo stato ottomano prima, turco poi. “La casa è stata distrutta più volte dalle autorità” ci spiegano “vogliamo costruirvi un museo su Musa Haçi per far conoscere a tutti la sua storia e la storia delle ingiustizie subite da queste genti”. All'interno del villaggio parliamo anche con un anziano dagli occhi di ghiaccio che ci indica tre costruzioni coniche in fango e paglia: “queste case furono costruite dagli Assiri circa tremila anni fa e furono distrutte dagli ottomani cento-cinquant'anni fa, i miei antenati le hanno ricostruite e io ci vivo ancora dentro”. Ci spiegano poi che i curdi, storicamente, non abitavano Kobane, vi si trasferirono solo un centinaio di anni fa, quando il governo ottomano decise di costruire la ferrovia per Baghdad.  Si trattava per lo più pastori che vi si insediarono, edificando la città. “I confini poi ci divisero dai nostri fratelli e dalle nostre famiglie. Oggi torniamo qui, come rifugiati, nella terra dei nostri nonni”.

Tra una scritta per Kobane su un muro e una fatta con i sassi con il soprannome affettuoso con cui viene chiamato Öcalan, Apo, ci viene offerto, oltre all'immancabile çay, di fermarci per la notte in una tenda dove risiedono alcuni combattenti dello Ypg: “Così siamo sicuri che siete al sicuro!” 

Probabilmente loro non sanno che noi non ci siamo mai sentiti al sicuro e circondati di calore umano come in questi giorni, in mezzo alla gente di Mehser.

Marco e Paola, Centri Sociali del Nord-Est

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