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Considerazioni sulla manifestazione che ha attraversato pochi giorni fa le strade di Città del Messico

10 / 11 / 2014

Il 5 novembre un corteo oceanico di studenti, medi e universitari, ha invaso le strade del centro di Città del Messico per reclamare a gran voce la riconsegna in vita dei 43 studenti scomparsi la sera dello scorso 26 settembre ad Ayotzinapa (Guerrero). 

Quella sera gli studenti si erano ritrovati nel centro della cittadina per raccogliere fondi per poter partecipare alla manifestazione nella ricorrenza del massacro di Tlatelolco (Città del Messico) del ’68, dove vennero barbaramente uccisi più di 300 studenti. Ad Ayotzinapa, per l’ennesima volta nella storia del Messico, la polizia, affiancata ora da gruppi di narcotrafficanti, è tornata a sparare sulla folla uccidendo a freddo 3 studenti e ferendone altri 25, di cui uno dichiarato in stato di morte celebrale. Nel caos di quella notte altri 43 studenti sono stati sequestrati per poi sparire nel nulla, e ancora oggi non se ne ha nessuna notizia.

Qualche giorno fa l’arresto di alcuni poliziotti per la morte dei tre studenti ha frenato la pressione mediatica e il governo ha creduto di mettere così a tacere tutta l’opinione pubblica. Ma gli scomparsi restano scomparsi e nel frattempo sono state ritrovate diverse fosse comuni dove potrebbero essere stati occultati anche i corpi degli studenti, che sarebbero morti dopo essere passati per le mani di polizia e narcotrafficanti.

Ancora una volta torna ad imporsi sulla scena latinoamericana una pratica con una lunga tradizione alle spalle, una tradizione orrenda, la desaparición.

Alla fine degli anni ’60 all’interno del Plan Condor si inaugurano in Sudamerica nuove strategie per annientare l’opposizione politica alle dittature sostenute dagli USA: desaparición é una parola che verrà utilizzata di lì in avanti come un telo per occultare corpi martoriati, morti oscene e crimini di ogni genere.

Anche in Messico questa pratica ha trovato, e continua a trovare, molteplici campi di applicazione: anche qui utilizzata per eliminare oppositori politici, ma anche per occultare i femminicidi, per zittire le rivendicazioni del diritto alla terra e all’autodeterminazione delle popolazioni indigene, per fare fuori chi si oppone alle regole del narcotraffico e per terrorizzare una voce che, soprattutto negli ultimi anni, ha preso forza contro la corruzione del governo, quella degli studenti. Solo negli ultimi due anni sono state trovate più di 260 fosse comuni sparse per il paese. La desaparición è uno strumento di repressione che ha effetti non solo su chi viene direttamente inghiottito in quel buco nero da cui non farà più ritorno, ma anche su chi resta, a cui viene imposta una tortura a vita, alimentata da un dubbio che, solo in pochissimi casi e solo molti anni dopo la scomparsa, è stato possibile sciogliere ma in ogni caso senza che alle colpe corrispondessero sentenze adeguate.

La desaparición è una pratica conveniente per lo Stato, a costo zero potremmo dire, poiché in assenza di un corpo, non è nemmeno necessario prendersi il disturbo di inscenare processi-farsa come succede invece in paesi “democratici” come il nostro. Quando questa parola esce dalla bocca di uno Stato muri di gomma iniziano ad alzarsi contro chi invano chiede notizie di un amico o un familiare scomparso. E più passa il tempo e più si affievolisce la possibilità di raggiungere la verità e la speranza che venga fatta giustizia.

Per questo non si fermano le mobilitazioni in tutto il paese, per questo pochi giorni fa in migliaia gli studenti sono scesi in piazza: perché in quei 43 scomparsi c’è tutto il Messico che si ribella ad uno Stato fascista ormai controllato dal narcotraffico, e nella voce che pretende la loro ricomparsa in vita c’è il Messico che lotta e non si arrende all’idea che basti una parola per nascondere fatti e responsabilità, per terrorizzare e far dimenticare, per dissolvere la differenza tra uno studente vivo e uno studente morto ammazzato.

Camilla Fratini, Csoa La Strada

24 Horas en Ayotzinapa