Metallo «protetto»

27 / 3 / 2018

Lo scorso 23 marzo sono entrati in vigore negli Stati Uniti i nuovi dazi, che prevedono tassazioni sulle importazioni di acciaio e alluminio rispettivamente del 25 e del 10 per cento. Il decreto era stato firmato da Donald Trump l’8 marzo. Una decisione che sconvolge davvero gli assetti economici globali? Andrea Fumagalli ha commentato per noi la decisione del presidente statunitense. (leggi anche: America first. Trump e il liberprotezionismo di Antonio Pio Lancellotti)

Stiamo attraversando una fase segnata da una tensione commerciale tra varie aree del globo. Tensione iniziata non soltanto con l’avvento di Trump alla Casa Bianca, ma che ha avuto i prodromi già alcuni anni fa, quando sono partite le sanzioni commerciali europee nei confronti della Russia di Putin, in seguito all’affare Ucraina e all’annessione della Crimea.

Questo è stato il primo momento in cui si è sviluppata una tensione all’interno di quella che, fino all’epoca, poteva essere considerata una convergenza verso forme di globalizzazione più o meno senza ostacoli.

L’elezione di Trump alla presidenza statunitense ha aumentato in maniera rilevante queste tendenze, attraverso un’ideologizzazione del ritorno a politiche protezioniste, all’interno del quadro neo-sovranista e neo-nazionalista. Un quadro nel quale troviamo, peraltro, anche la stessa Russia e la Gran Bretagna, in seguito al processo di Brexit, che vede una certa difficoltà ad attuarsi nei rapporti con l’Unione Europea, soprattutto in ambito commerciale.

Come dobbiamo leggere questa tendenza in atto? Da un lato emerge in maniera chiara un dato prettamente politico che, come già detto, si iscrive in un forte ritorno di elementi nazional-sovranisti in ambito globale. Trump ha vinto le elezioni proprio facendo riferimento alla necessità di un ritorno dell’economia statunitense all’interno di confinazioni ben precise per salvaguardare, a suo dire, la struttura produttiva interna e quindi gli interessi di una certa fascia di lavoratori bianchi. Questa fascia è stata tra quelle che hanno subito maggiormente i contraccolpi della crisi economico-finanziaria che, come è noto, negli Stati Uniti ha portato ad un forte depauperamento della classe media, all’interno della quale è storicamente inserito il lavoro operaio bianco.

Da questo punto di vista, la firma che Trump ha fatto rispetto all’introduzione di dazi per il commercio dell’acciaio e dell’alluminio - sia nei confronti dell’export europeo, ancora in via di contrattazione e probabile ridimensionamento, sia di quello cinese, per colpire il Paese che negli ultimi anni è diventato il maggiore esportatore di acciaio – viene vista come una mossa per salvaguardare questa fascia di elettorato particolarmente fedele al tycoon.

Una mossa che rischia di rivelarsi una bufala. Innanzitutto perché il numero di occupati che potrebbero essere interessati da un miglioramento legato all’incremento della produzione di acciaio è estremamente ridotto rispetto alla forza lavoro statunitense nel suo complesso. In secondo luogo perché è abbastanza facile che provvedimenti di questo tipo possano essere impugnati in sede di WTO. Trump è assolutamente cosciente di quest’ultima cosa che, però, avverrebbe non prima di circa 12/15 mesi. Nel frattempo potrebbe sfruttare gli effetti dell’immissione dei dazi per ridurre o rendere più care le esportazioni di questi beni, necessari alla produzione innanzitutto manifatturiera. Questo settore negli Stati Uniti incide per valori che si attestano al di sotto del 15% della produzione nazionale, una quota decisamente risibile. Gli esiti di queste misure protezionistiche saranno piuttosto scarsi e potranno avere addirittura un effetto boomerang, soprattutto se si concretizzassero le contromisure annunciate da Giappone, Corea e Unione Europea rispetto all’export di prodotti statunitensi.

Sembra evidente che le ragioni economiche della mossa di Trump non siano sostenibili. Per comprendere la decisione, bisognerebbe allora indagare maggiormente le ragioni politiche e geopolitiche. In quest’ultimo ambito possiamo azzardare un’ipotesi: nonostante sembra esserci una forte frattura tra Stati Uniti e Gran Bretagna da un lato e Russia dall’altro, emersa in questi ultimi giorni prima con il caso Skripal poi con l’espulsione di diplomatici russi prima dalla Gran Bretagna e in seguito da altri Paesi, l’impressione è che queste tre aree siano particolarmente unite da una visione simile. Si tratta di una visione protezionistica, all’interno della quale ci sono interessi economici sia convergenti che divergenti, per quel che riguarda la riallocazione e ridefinizione dei flussi commerciali internazionali. C’è inoltre un comune interesse monetario-finanziario - soprattutto in funzione anti-Cina - che lascia immaginare un possibile asse USA-Russia-Gran Bretagna, nato proprio per contrastare il colosso asiatico che rappresenta la vera novità dell’economia mondiale nel nuovo millennio, sul piano produttivo, tecnologico e finanziario. Non è un caso che i dati diffusi dall’OCSE circa due settimane fa vedono la Cina come il Paese che maggiormente ha investito, negli ultimi anni, nell’intelligenza artificiale e nella tecnologia della biorobotica, rappresentando un concorrente molto pericoloso nel settore che maggiormente si è espanso nell’ultimo decennio.

Le difficoltà che potrebbe incontrare Facebook dopo il Cambridge Analytica, così come le difficoltà di altre corporation tecnologiche statunitensi, potrebbero essere sfruttate dalla Cina, che ha una quantità di manodopera e di clientela di gran lunga maggiori rispetto a quelle di altre potenze. C’è quindi una necessità, da parte degli Stati Uniti, di ristabilire delle gerarchie che ormai non sono più tra Nord e Sud del mondo, oppure tra Ovest ed Est, ma si stanno riformulando completamente proprio in base al vertiginoso aumento di tassi di sviluppo e tecnologizzazione che sta investendo alcune aree del globo.

Per concludere, ci troviamo di fronte ad un classico aumento della competizione intra-capitalistica, che rappresenta un refrain della storia.