Migranti, nel cuore del Messico la Carovana delle Madri che non si arrendono

Il racconto della XIII Carovana di Madri Centroamericane, che denuncia le condizioni infernali dei migranti in Messico

23 / 12 / 2017

Da sempre il Messico è crocevia di movimenti migratori che dai Paesi centro-americani si muovono verso gli Stati Uniti. Molto spesso, per vie delle politiche restrittive statunitensi sull’immigrazione, i migranti da “transitanti” si sono trasformati in “stanziali”. L’ascesa alla Casa Bianca di Trump ha aumentato notevolmente questo fenomeno. I migranti in Messico, la cui condizione è sempre stata a tratti disumana, stanno subiscono per primi l’impatto della nuova legge sulla sicurezza interna, introdotta da in materia di sicurezza introdotte da Peña Nieto in vista delle prossime presidenziali. Caterina Morbiato, giornalista freelance e Antropologa specializzata in tematiche di migrazione e violenza che vive Città del Messico, ha scritto per Lavocedinewyork un articolo di racconto della XIII Carovana di Madri Centroamericane, che denuncia le condizioni infernali dei migranti in Messico. L'iniziativa si è conclusa il 18 dicembre, durante la Giornata Internazionale dei Migranti: per diciotto giorni la Carovana ha attraversato il Paese sudamericano, uno dei più pericolosi al mondo per chi si muove senza documenti. Tappa dopo tappa le partecipanti non hanno smesso di denunciare uno dei drammi più grandi degli ultimi tempi: la sparizione forzata di migliaia di donne e uomini in terra azteca.

Il bus si ferma e un gruppo di una quarantina di persone si riversa sul marciapiede della centralissima Avenida Juárez, nel cuore di Città del Messico. Sono quasi tutte signore di mezza età: hanno cappellini beige calcati in testa e un cartoncino plastificato inserito in un cordoncino rosso gli pende dal collo. Nel mezzo della baraonda prenatalizia, alcuni soggetti più giovani chiamano a raccolta la piccola ciurma, controllano con cura che sia al completo e la guidano al di là della strada verso gli ampi sentieri della Alameda Centrale, i giardini pubblici più antichi della città.

Il gruppo potrebbe confondersi con una delle tante comitive di turisti che vengono a passeggiare per questa zona della città, ricca di monumenti, gastronomia e musei. O potrebbe trattarsi di peregrini, accorsi il 13 dicembre per rendere omaggio alla Madonna di Guadalupe, che hanno deciso di concedersi qualche giorno in più nella capitale. Eppure le gigantografie che tappano per intero le vetrate del bus fanno capire che così non é: in esse sono ritratte diverse donne con cartelli in cui si leggono frasi come “nessun essere umano é illegale”. Le signore dai cappellini beige, che ora passeggiano a piccoli gruppi tenendosi a braccetto per non perdersi tra la calca, fanno infatti parte di una comitiva particolare: la Carovana di Madri Centroamericane.

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Un’immagine della Carovana, da Città del Messico (Foto: Félix Meléndez)

Giunta ormai alla sua tredicesima edizione, la Carovana di Madri Centroamericane è un’iniziativa nata dagli sforzi congiunti del Movimento Migrante Mesoamericano, una ong messicana che si occupa della difesa dei diritti delle persone migranti, e di diversi comitati centroamericani di familiari di migranti scomparsi, desaparecidos, nel lungo cammino verso gli Stati Uniti. Le integranti della Carovana – quasi esclusivamente donne, anche se negli ultimi tempi hanno iniziato a sommarsi sempre più uomini – vengono dall’Honduras, dal Guatemala, dal Nicaragua e dal Salvador e, anche se l’iniziativa continua a definirsi come “di madri”, non tutte sono alla ricerca del proprio figlio o figlia: c’é chi cerca una sorella, chi il padre, chi la compagna o il compagno.

Di città in città, sulla rotta che con tutta probabilità é stata percorsa dai loro familiari tempo addietro, le partecipanti della Caravana sfilano accompagnate dalla fotografia della persona che stanno cercando. Ne ripetono stoicamente il nome, raccontano la sua storia, chiedono ai passanti se il viso ritratto gli sia per caso noto. Ora però, in queste ultime ore che passeranno nella capitale messicana, le fotografie sono state riposte con cura dentro il bus. É tempo di distrarsi un poco, lasciarsi ammaliare dal caos di odori e suoni delle arterie centrali della megalopoli messicana, comprare dei regali per chi le aspetta a casa.

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Una donna parla al megafono, durante la Carovana in Città del Messico (Foto Félix Meléndez)

Benvenuti all’inferno

Negli ultimi anni il Messico si é trasformato in uno dei territori più letali da attraversare per chi migra senza documenti. Sono ormai note le immagini de La Bestia, il treno merci sui cui vagoni i migranti viaggiano abbarbicati con il rischio di cadere e venir risucchiati dalla forza motrice delle vetture o di essere assaltati da gruppi del crimine organizzato. Il pericolo però non si limita al viaggio sul treno: discriminazioni, estorsioni, assalti, violenze sessuali, traffico di persone, omicidi, sequestri in cambio di qualche migliaio di dollari, sono all’ordine del giorno lungo tutto il paese.

Per i migranti il territorio messicano é sinonimo di terrore, un’attraversata che puó costare cara. Con lo scatenarsi della guerra al narcotraffico, la conseguente spartizione violenta del territorio tra i diversi cartelli messicani e la loro progressiva “atomizzazione”, i migranti centroamericani si sono presto convertiti in una nuova potenziale fonte di arricchimento: una sorta di “risorsa del territorio” da mettere a frutto.  Nel 2009 la Commissione Nazionale dei Diritti Umani messicana denunciava in un report speciale che ben 20mila migranti erano sequestrati ogni anno in terra azteca. Quasi un decennio più tardi, il fenomeno non sembra essersi risolto: secondo la fondazione Insight Crime il sequestro di migranti continua a seguire un trend “positivo”, anche a causa del maggior numero di persone che migrano dai paesi centroamericani in condizioni estremamente vulnerabili.

Negli ultimi tempi, inoltre, il governo messicano ha implementato politiche sempre più dure in materia di migrazione come il Programma Frontiera Sud: una serie di provvedimenti volti a militarizzare in maniera capillare la zona meridionale del paese. Come dimostrato da diverse associazioni di diritti umani più che generare una effettiva diminuzione dell’affluenza di migranti, le nuove misure hanno costretto chi migra ad addentrarsi lungo cammini più isolati, esponendosi così a una larga serie di rischi come il sequestro.

Secondo le stime del Movimiento Migrante Mesoamericano sarebbero circa 100mila i desaparecidos migranti: un dato fluttuante che rispecchia solo in parte l’effettiva dimensione del fenomeno; l’assenza di cifre ufficiali e l’anonimato sotto cui moltissima gente migra senza lasciar registrati i propri dati rendono infatti difficile contabilizzare quella che é considerata ormai come una vera e propria crisi umanitaria.

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4000 mila kilometri di speranza

Quest’anno la Carovana di Madri Centroamericane, che ha scelto come suo slogan “4000 mila chilometri di ricerca, resistenza e speranza”, é iniziata il 1 dicembre a Tapachula, torrida cittadina del sudovest messicano a un passo dal confine con il Guatemala. Da qui ha attraversato diversi stati della repubblica, come Chiapas, Veracruz, Queretaro, San Luis Potosí, Jalisco, Puebla. Nello stato di Veracruz,  le madres si sono riunite con il Collettivo Solecito, un gruppo di donne messicane che si dedica a tempo pieno alla ricerca di persone vittime di sparizione forzata. A maggio 2016, le attiviste del Collettivo Solecito sono riuscite a localizzare nei pressi di Colinas di Santa Fe (Veracruz), quella per ora é considerata la fossa clandestina più grande mai ritrovata in Messico con più di 250 corpi riesumati. Durante l’incontro con le donne di Solecito, le centroamericane hanno lasciato le proprie prove del DNA che verranno confrontate con quelle dei corpi ritrovati a Colinas di Santa Fe.

«Il Messico è troppo grande perché una persona possa intraprendere le ricerche da sola. Per questo é quando la ricerca si fa in gruppo, come un’attività collettiva, che ci rendiamo conto che é possibile dare visibilità al tema e denunciare gli abusi che si commettono contro le persone migranti -spiega la guatemalteca Catalina López, specialista in salute mentale comunitaria e rappresentante dell’organizzazione ECAP (Estudios Comunitarios de Acción Psicosocial) che per il terzo anno consecutivo offre accompagnamento psicologico alle partecipanti della Carovana-. É importante valorizzare le organizzazioni locali che ci sostengono in questo processo, come il Movimento Migrante Mesoamericano, ci fa capire che i comitati centroamericani non sono isolati».

Originaria di San Antonio Aguascalientes, dipartimento di Sacatepéquez, Catalina ha alle spalle un lungo lavoro con diverse comunità indigene guatemalteche. Insieme all’equipe di ECAP si occupa di rafforzare gli strumenti psicologici, organizzativi e sociali delle integranti dei comitati di familiari, accompagnandole lungo tutto il processo: dalla denuncia della persona scomparsa, alla sua ricerca, fino al suo possible ritrovamento.

Come Catalina, anche altre delle coordinatrici dei comitati hanno una formazione di psicologhe e terapeute: la Carovana infatti é un vero e proprio tour de force emotivo, oltre che fisico. In Messico si viene per denunciare gli abusi commessi contro la popolazione migrante, per dare visibilità a una problematica che continua a generare dolore, per esigere che le autorità competenti producano politiche efficaci. Si viene però anche con la speranza di poter rintracciare la persona che manca, di poter raccogliere informazioni per ricostruire il suo cammino e incontrare qualcuno che -in una carcere, un postribolo, una casa del migrante, o anche semplicemente nella piazza di un paesino- possa riconoscerne il volto ritratto nella foto.

Per questo i momenti di maggiore carico emotivo si danno quando gli incontri più anelati si fanno realtà. Quest’anno i ricongiungimenti tra familiari sono stati ben sette. Uno degli incontri si é dato nella cittá di Guadalajara, nello stato di Jalisco, dove Doris López e suo figlio Carlos Roberto Mejía López, honduregni, si sono ritrovati dopo dieci anni di distanza e silenzio. Il giovane, oggi ventisettenne, aveva deciso di partire alla ricerca di migliori condizioni di vita. Un assalto sofferto lungo il cammino l’aveva lasciato privo dei mezzi per mettersi in comunicazione con la famiglia rimasta ad aspettare nel paesino di Rio Chiquito, nel nordovest honduregno.

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Paesi che esportano migranti

Come Carlos Roberto, sono migliaia i giovani centroamericani che ogni giorno decidono di lasciarsi alle spalle le proprie case per cercare di rifarsi una vita altrove. In paesi come il Salvador, l’Honduras e il Guatemala, negli ultimi anni le condizioni sociali si sono fatte sempre più precarie, soprattutto per la popolazione giovane ed emarginata. Ma, se da un lato la violenza legata al controllo esercitato dalle gangs -Mara Salvatrucha e Barrio 18 in testa- é diventata molto più quotidiana e difficile da debellare, d’altro lato esiste un tipo di violenza meno cruda, meno carnale, che però mantiene una relazione di causa diretta con la violenza dei gruppi criminali: la disuguaglianza sociale cronica, l’assenza di prospettive lavorative e di un miglioramento reale delle condizioni socioeconomiche. Pur di sottrarsi a un mondo che continua a riservargli solo briciole, migliaia di giovani sono disposti ad affrontare un viaggio che potrebbe costargli la vita.

«Tra i paesi centroamericani l’Honduras ha il più alto indice di emigrazione: dal colpo di stato del 2009 molta gente ha lasciato il paese per paura della repressione. Negli ultimi anni il tasso di omicidi é aumentato, i femminicidi stanno raggiungendo cifre mensili preoccupanti. É un paese in cui la vita non vale più nulla: ti ammazzano per un telefono, per un insulto».

Iveth de los Ángeles Pineda Ávila, é la giovane psicologa che coordina Cofamipro, il Comitato di Familiari di Migranti Scomparsi di El Progreso, Honduras. Racconta della crisi in cui é piombato recentemente il paese mentre la comitiva si affaccia sul Zocalo, l’imponente piazza maggiore di Città del Messico. Una pista di ghiaccio é stata montata in occasione delle festività e frotte di pattinatori, più o meno provetti, si danno da fare sotto i 20 gradi che ancora si mantengono all’imbrunire. Tra gli schiamazzi, le parole di Iveth scivolano via una dopo l’altra: la sua preoccupazione é palpabile. A 2000 km di distanza, nel suo paese natale, la situazione si é fatta tesa dopo le elezioni presidenziali dello scorso 25 di novembre. Le proteste scoppiate in seguito a quello che é stato denunciato come un broglio elettorale -la rielezione dell’ex presidente Juan Orlando Hernández-  sono state soffocate con mano dura dalle forze armate; dal 30 novembre ad oggi sarebbero già 20 i morti e decine le persone ferite durante le operazioni di repressione.

«Quello che mi preoccupa di più è che ora molta gente si troverà costretta a migrare, soprattutto i più giovani -spiega Iveth-. La situazione che si sta vivendo ora in Honduras non si risolverà a breve. Sono sicura che se non ci organizziamo tante famiglie decideranno di andarsene perché rimarranno senza lavoro».

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Una conferenza stampa in Città del Messico, durante la Carovana (Foto di Félix Meléndez)

Insieme alle componenti di Cofamipro, Iveth ha lasciato il paese pochi giorni dopo le elezioni e queste settimane di viaggio le ha passate con un nodo allo stomaco cercando di seguire quel che stava succedendo in patria e allo stesso tempo dedicandosi all’organizzazione della Carovana. Per Iveth essere coordinatrice di Cofamipro più che un lavoro è un impegno sociale: significa lottare per il benessere collettivo, sperare in un paese migliore.

«Appartenere a un comitato che lavora su tematiche migratorie non significa solamente partecipare alla Carovana, vuol dire interessarsi a una problematica che colpisce il paese in maniera grave. Quando queste donne entrano a fare parte dei comitati si rendono conto delle condizioni di vita di altre famiglie, della povertá diffusa, di quella che é la situazione reale del paese».

Tra i comitati di familiari centroamericani Cofamipro può essere considerata come una sorta di organizzazione madre, quella che ha dato il via a una rete di solidarietà regionale ogni anno più ampia. Fu grazie a un programma radio chiamato “Sin Fronteras”, senza frontiere, che varie abitanti del paesino di El Progreso iniziarono a rendere pubblico e collettivo il loro dramma di madri di figli desaparecidos. Alle prime denunce se ne sommarono altre ed altre ancora fino alla fondazione del comitato che, ad oggi, é riuscito a localizzare più di 200 persone migranti.

«Quello che ne traggono non é di certo un beneficio economico, guadagnano in esperienza e conoscenze: imparano ad essere delle leader, a liberarsi, a rendersi conto degli strumenti che hanno -spiega Iveth, di molti anni più giovane rispetto alle tante donne che sono venute in rappresentanza di Cofamipro-. Ci sono molte donne che hanno un potenziale altissimo in quanto a leadership ma che rimangono in ombra per paura di essere discriminate per il fatto di essere donne o per il loro impegno in temi di rilevanza sociale».