Non un passo indietro

Nel Kurdistan Bakur, territorio sud-est della Turchia, si nasce e si muore sotto coprifuoco. Erdogan sta scatenando una vera e propria guerra contro la popolazione curda e contro gli oppositori al suo governo

29 / 12 / 2015

Immagini di guerra, immagini di distruzione, immagini di miseria quelle che hanno contornato l'ultimo mese del 2015, non arrivano da così lontano eppure diventa sempre più difficile intervenire se quello scempio e quell'indecenza non verrà fermata. Quello che sta succedendo nel Kurdistan Bakur, nel sud-est della Turchia, è qualcosa al di fuori di qualsiasi logica. Sono giorni concitati, nei quali si susseguono notizie e piccoli spaccati di una guerra tout-court che lo Stato turco ha lanciato, ormai senza più nascondersi, contro i curdi nelle maggiori città dell'Anatolia orientale: Diyarbakir, Silopi, Sirnak, Cizre, Nusaybin, Yuksekova, Hakkari, Kiziltepe.

Nel comunicato ufficiale del Ministero della Difesa turco, che accompagna questa nuova serie di operazioni, si parla di diecimila militari e altre svariate centinaia di componenti delle forze speciali inviati nel Kurdistan Bakur, comandati da sei generali, che coadiuvati da elicotteri da guerra e carri armati stanno compiendo operazioni di guerra contro militanti del Pkk e contro le città che questi ultimi stanno difendendo. Sempre nei comunicati diffusi dalle Forze Armate turche si parla di operazioni di routine, di normali operazioni anti-terrorismo, di arresto di persone ritenute pericolose per la sicurezza nazionale. Ma quello che i comunicati ufficiali dimenticano consapevolmente di menzionare è cosa comportano queste operazioni di “routine” alla popolazione civile che vive in Kurdistan. Inoltre, senza nessuna ammissione di colpa, gli alti comandi turchi non comunicano il numero delle vittime civili che questo “disegno di guerra” lascia sul terreno: sono più di duemila i morti da luglio, morti sotto regime di coprifuoco, morti innocenti di una guerra inutile.

D'altra parte è inutile ora come ora fare un bollettino di guerra quotidiano, un necrologio pubblico di chi perde la vita perchè ogni morte, nella sua unicità, è dolorosissima. Un caso, di una vita persa, vale la pena menzionare per capire ancora meglio cosa succede in Kurdistan: Melan Inci è nata quattro mesi fa a Cizre durante il primo e più lungo dei coprifuochi che hanno aperto la “stagione” di questa orrenda pratica; è morta invece pochi giorni fa in seguito alle ferite riportate dopo un'esplosione che ha colpito l'abitazione della sua famiglia, sempre sotto regime di coprifuoco. Nascere e morire sotto coprifuoco. Questo è il Kurdistan turco nel 2015.

In questa situazione è imbarazzante il silenzio dei governi europei a riguardo. Nessuno osa alzare la voce né tantomeno far notare al governo turco, e ad Erdogan in persona, che il suo operato in Kurdistan è qualcosa al di fuori di ogni logica. Evidentemente gli accordi bilaterali Ue-Turchia servono anche a questo, a zittire il dissenso interno e contemporaneamente a fornire una solida spalla istituzionale per portare a compimento questo tipo di politiche iper-aggressive. Durante il G-20 di Antalya i leader mondiali hanno fatto la gara per stringere la mano ad Erdogan e per stare al suo fianco nelle foto ufficiali, ma quanti di loro sono riusciti a lavarsi il sangue da quella mano? Le parole d'ordine in questi casi sono stabilità e ordine, e non importa quale sia il prezzo per mantenere questo assetto.

Un altro dato da non trascurare in questa campagna militare contro le città curde sono i costi. Ormai è innegabile che il governo turco non ceda nemmeno di un centimetro dalle sue posizioni autocratiche e allo stesso tempo è disposto a sacrificare migliaia di vite sia di chi si vuole opprimere, sia di militari e poliziotti che agiscono sotto il comando di uno stato che ad oggi sembra esistere sempre meno. Parlando invece di costi politici, quanto sta giovando questa campagna militare?

Erdogan ha mantenuto la promessa e già all'indomani della vittoria elettorale del 1 novembre ha ridisegnato la sua personale strategia contro tutti coloro che non lo appoggiano incondizionatamente; risulta ora difficile capire se il flusso del suo consenso è ancora in crescita o si sta pian piano sgretolando, lo è perchè chi poteva denunciarlo, criticarlo o scriverlo è stato arrestato o subisce quotidianamente pesanti intimidazioni. Parliamo di un paese, la Turchia, che potrebbe essere forse prossimo ad entrare nell'Unione Europea, che continua a stringere accordi commerciali e politici con quest'ultima e non solo, ma allo stesso tempo non smette di essere il miglior alleato dello Stato Islamico, mentre all'interno dei suoi confini riproduce i soliti e netti schemi di un regime autoritario, dissoluto e quantomeno democratico. Ultimo esempio? Le pochissime notizie che circolano rispetto alle quattro esplosioni ad Haydarpasa, quartiere di Istanbul nei pressi del porto, ne parlano i social networks, le agenzie di stampa invece sono rimaste dormienti e sembra sempre più strano che lo abbiano fatto per scelta di redazione.

Rimaniamo i soliti, pochi, a denunciare i crimini che la governance turca compie in Kurdistan. Se è vero che l'attenzione mediatica verso quanto succede in Turchia è ormai solamente sulle spalle dei media indipendenti, è anche vero che bisogna collettivamente pensare di agire in maniera differente: continuiamo a denunciare quanto accade nel sud-est della Turchia, ma prendiamo atto che la recente campagna di boicottaggio lanciata da questo sito può e deve essere uno strumento con cui collettivamente mettiamo pressione al governo turco.

In uno degli ultimi discorsi prima di partire per una visita di Stato in Arabia Saudita, il Presidente Erdogan ha minacciato di seppellire le “organizzazioni terroristiche” e i suoi sostenitori nelle trincee e sotto le barricate che essi stessi hanno scavato e innalzato. Noi, con quelle persone che dietro quelle barricate difendono la loro vita, ci siamo, ci staremo sempre e continueremo ad esserne la voce.