Lotte dal basso nella grande distribuzione americana

One Big Union!

Incontro con Erik Forman della Starbucks Workers Union

13 / 10 / 2012

Per inaugurare il nuovo Punto San Precario a Bergamo, il csa Pacì Paciana ha ospitato giovedì sera un incontro con Erik Forman, ex lavoratore di Starbucks, famosa catena di caffetterie statunitense, tra i fondatori della Starbucks Workers Union (Swu), una sigla sindacale nata attraverso una serie di vittorie successive a mobilitazioni autorganizzate dai lavoratori della catena. La Swu è affiliata alla storica sigla sindacale degli Industrial Workers of the World, i famosi “wobblies” che nel primo quarto del secolo scorso diedero vita alla più importante esperienza di sindacalismo rivoluzionario della storia occidentale.

Forman ha ventisette anni e vive a Minneapolis, la città del più grande centro commerciale degli Usa, il Mall of America, e la sua vicenda personale testimonia della possibilità di ridare dignità e senso all’essere lavoratori nel ventunesimo secolo: racconta infatti di essere diventato un attivista sindacale prima di tutto perché aveva un lavoro, e quindi perché quel lavoro lo odiava. Fu l’incoraggiamento di alcuni lavoratori già affiliati agli Iww a fargli prima di tutto prendere coscienza del fatto di potersi definire un lavoratore con dei diritti: fino a quel  momento Erik era un ragazzo qualunque, impiegato nel punto vendita di una catena commerciale, convinto che quella fosse solo una parentesi nella sua vita di giovane studente, e che quindi quel lavoro ripetitivo, malpagato e insicuro – dove puoi essere licenziato per non aver sorriso abbastanza a un cliente o non averlo ringraziato due volte come prescritto – fosse un modo per guadagnare qualche dollaro, ma non un “vero lavoro”.

La platea di lavoratori a cui un sindacato come la Swu si rivolge, è costituita dagli impiegati nelle grandi catene commerciali di distribuzione e di servizi alimentari, ovvero circa quaranta milioni di persone – più di un quarto della popolazione attiva degli Usa – che lavorano in catene quali McDonald’s, Starbucks, Jimmy John's, oppure in grossi contenitori commerciali come Walmart. 

Per la maggioranza dei lavoratori in questi settori i salari medi sono i più bassi d'America: non raggiungono quasi mai i dieci dollari l’ora che negli Stati Uniti, dove l’affitto medio per un monolocale in un centro urbano si aggira intorno ai mille dollari, significa non poter vivere. 

Ma oltre ai salari altri due aspetti vanno tenuti  in considerazione: innanzitutto buona parte di questi lavoratori non ha copertura sanitaria – che anche dopo la riforma di Obama resta perlopiù a carico del solo lavoratore; in secondo luogo per la maggioranza dei lavoratori l’orario di lavoro varia in base alle esigenze di mercato e alla discrezionalità dei propri superiori, che quindi sono in grado di utilizzare aumenti o riduzioni di orario settimana per settimana, anche per gestire questioni disciplinari oltre che economiche.

Forman sottolinea come l’idea di lavoro precario e la condizione di precarietà lavorativa non esistano nel quadro della storia statunitense che, fin dai tempi della Guerra civile, si è caratterizzata per la falsa retorica del patto tra lavoratori liberi di scegliere di non lavorare per un determinato padrone e datori di lavoro liberi di licenziare per qualsivoglia motivo i dipendenti. La precarietà quindi negli Stati Uniti è già da tempo ciò che in Europa sta diventando solo da qualche anno: la normalità e la forma più diffusa di condizione lavorativa.

Ciò si riflette nel numero di quanti scelgono di tutelarsi con l’iscrizione ad un sindacato: solo l’1,8% del lavoratori del settore alimentare è sindacalizzato, e appena il 7% di tutti i lavoratori del settore privato aderisce a un sindacato, una percentuale che alla fine degli anni Settanta si aggirava oltre al 30%. Più che nell’atomizzazione dei lavoratori, la ragione di ciò sta nella scarsa volontà politica delle macchine burocratiche sindacali, ma anche e soprattutto nella loro incapacità strutturale: sono abituati a muoversi dentro i confini del diritto del lavoro che, per quanto riguarda settori come quello dei servizi, sono deregolamentati, forse irrimediabilmente, per tutelare esclusivamente gli interessi dei padroni. In altre parole, anche volendolo non riuscirebbero a portare a casa risultati degni di nota.

Ma forse è proprio in questa impossibilità di modificare la condizione lavorativa a partire dal miglioramento o dalla difesa di norme contrattuali che realtà come la Swu sono cresciute come nuove ipotesi di tutela dei lavoratori. Dal racconto di Erik Forman pare infatti emergere come alcuni significativi successi – aumenti salariali, indennità di malattia, miglioramento delle condizioni igieniche e di sicurezza in diversi punti vendita della catena – siano nati dall'intelligente combinazione di vertenze nate per iniziativa di singoli individui o su un unico posto di lavoro, inserite però nella cornice del solidarity unionism, sindacalismo solidale come intreccio ragionato di forme classiche di sciopero, tattiche di subvertising, e soprattutto grande capacità di ascolto dei bisogni e delle esigenze della singola persona che spesso è totalmente digiuna di esperienza politica.

Da questo è sorta la domanda fondamentale che ha accompagnato l’incontro: come raggiungere e coinvolgere chi non ha nemmeno piena consapevolezza della propria condizione di lavoratore o lavoratrice? Come rivolgersi a chi questa condizione la vive in solitudine nella fabbrica esplosa sul territorio, senza nemmeno immaginare di poter unirsi ai suoi simili e cambiare le cose?

Se una ricetta da riprodurre schematicamente non poteva arrivare dall’altra parte dell’Atlantico, di certo sono state molto utili le indicazioni emerse dai racconti di Erik Forman – qui a fianco trovate una selezione di mp3 dell’intervento con l’ottima traduzione consecutiva di Michele Dal Lago. Non a caso hanno trovato un pubblico attento tra le mura del Pacì, un pubblico giovane e ancora più consapevole di qualche anno fa del fatto che ormai un modello di sfruttamento del lavoro che in troppi giuravano non sarebbe mai approdato in Italia, è già ora la realtà quotidiana per centinaia di migliaia di persone. 

Andrea Olivieri

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