Reportage

Riapre Rafah ma per la gente di Gaza è sempre un inferno

Un reportage di Michele Giorgio da Il Manifesto del 26 novembre 2014

27 / 11 / 2014

Striscia di Gaza. Il terminal tornato operativo ieri rimarrà aperto anche oggi. A casa però potrà fare ritorno solo una parte delle migliaia di palestinesi bloccati da un mese in Egitto dopo le misure punitive decise dal regime di al Sisi. La pioggia intanto aggrava la condizione degli sfollati che hanno avuto l'abitazione distrutta dai bombardamenti israeliani.

Avevo pro­gram­mato di viag­giare con mio figlio per due set­ti­mane, per dimen­ti­care l’ultima guerra a Gaza. Ora stiamo affron­tando una realtà altret­tanto dif­fi­cile. Dal 5 novem­bre siamo bloc­cati in una stanza d’albergo al Cairo…Mi manca mia figlia Zeina». É que­sto il rac­conto che qual­che giorno fa Abu Abdal­lah Tafesh, un abi­tante di Gaza, ha fatto a una gior­na­li­sta di al Moni­tor. Una sto­ria amara simile a quella che potreb­bero dirci i 3.500 pale­sti­nesi, secondo stime pru­denti, 6.000 secondo altri dati, bloc­cati al Cairo, a El Arish e in altre loca­lità da circa un mese, da quando gli egi­ziani hanno ordi­nato la chiu­sura del valico di Rafah in rispo­sta a un atten­tato (33 sol­dati uccisi) com­piuto il 24 otto­bre nel Sinai da Ansar Beit al Maq­des, una for­ma­zione jiha­di­sta affi­liata allo Stato Isla­mico (Isis). Atten­tato che, sostiene il regime del pre­si­dente Abdul Fat­tah al Sisi, sarebbe stato con­ce­pito nella Stri­scia di Gaza. Una ver­sione poco con­vin­cente che pro­ba­bil­mente serve, sus­surra qual­cuno, alle auto­rità del Cairo per masche­rare il fal­li­mento di oltre un anno di ope­ra­zioni mili­tari che hanno sol­tanto scal­fito i jiha­di­sti. Al Sisi e il resto dell’establishment egi­ziano, dal giorno del golpe anti-islamista del 2013, sono impe­gnati in una dura cam­pa­gna con­tro i Fra­telli musul­mani e il loro brac­cio pale­sti­nese, Hamas. Al punto che il pre­si­dente in una inter­vi­sta al Cor­riere ha di fatto pro­po­sto l’occupazione mili­tare egi­ziana di Gaza descri­ven­dola come un con­tri­buto alla sta­bi­lità del ter­ri­to­rio pale­sti­nese e alla sicu­rezza di Israele.

In que­sto mese l’esercito egi­ziano ha cam­biato il volto dei 13 km di fron­tiera con Gaza, creando una zona cusci­netto larga un chi­lo­me­tro, demo­lendo almeno 1.500 abi­ta­zioni e tra­sfe­rendo da un giorno all’altro decine di migliaia di civili a El Arish e altre loca­lità (pro­met­tendo risar­ci­menti irri­sori). I mili­tari hanno anche rife­rito di aver chiuso altre decine di tun­nel sot­ter­ra­nei tra la Stri­scia e l’Egitto. A ciò ha aggiunto la chiu­sura pro­lun­gata del valico di Rafah, l’unica porta sul mondo a dispo­si­zione dei pale­sti­nesi di Gaza. Il ter­mi­nal ieri ha final­mente ria­perto, per qual­che ora, e oggi resterà ope­ra­tivo dalle 9 alle 16, però solo in uscita dall’Egitto. E’ una buona noti­zia ma nes­suno sa quanti pale­sti­nesi potranno pas­sare. E nes­suno è in grado di pre­ve­dere quando il valico tor­nerà ad essere aperto in futuro. Abu Abdul­lah Tafesh e il figlio forse non saranno in grado di rien­trare a Gaza dove l’uomo, un inse­gnante di edu­ca­zione fisica, è atteso dalla fami­glia e dai suoi stu­denti. Pro­ba­bil­mente saranno costretti a tor­nare davanti all’ambasciata pale­sti­nese al Cairo a chie­dere aiuto per pagare l’albergo. L’ambasciatore Jamal al-Shobaki ripete che gli abi­tanti di Gaza sono le vit­time degli atten­tati ter­ro­ri­stici nel Sinai, pro­prio come i sol­dati che sono stati uccisi. Parole che non por­tano alcun con­forto a chi è bloc­cato da set­ti­mane, in par­ti­co­lare agli 800 pale­sti­nesi costretti ad aspet­tare all’estero, spesso in con­di­zioni pre­ca­rie negli aero­porti, quando l’Egitto fis­serà una nuova data per l’apertura del valico di Rafah. Il regime di al Sisi con­sente l’arrivo allo scalo del Cairo ai pale­sti­nesi diretti a Gaza solo se il ter­mi­nal di con­fine è aperto. Da un anno l’Egitto preme affin­chè la guar­dia pre­si­den­ziale dell’Anp di Abu Mazen prenda il con­trollo del ver­sante pale­sti­nese di Rafah, in sosti­tu­zione della poli­zia di Hamas.

Il dramma di tanti civili pale­sti­nesi ai quali viene impe­dito, con una deci­sione poli­tica, di tor­nare a casa, fini­sce per appa­rire mar­gi­nale di fronte alla con­di­zione spa­ven­tosa delle decime di migliaia di pale­sti­nesi ai quali i bom­bar­da­menti israe­liani della scorsa estate hanno distrutto l’abitazione. Piove tanto su Israele e Ter­ri­tori occu­pati. E la piog­gia cade copiosa anche su Gaza tra­sfor­mando in laghi Shu­jayea, Beit Hanun, Kuzaa e le altre loca­lità ridotte in mace­rie. Molte fami­glie, con il tempo asciutto, ave­vano mon­tato tende accanto alla casa distrutta o si erano adat­tate a vivere negli edi­fici dan­neg­giati ma ancora in piedi. La piog­gia però fil­tra ovun­que, allaga, non lascia altra pos­si­bi­lità che quella di tor­nare in quelle scuole dove gli sfol­lati, senza altra pos­si­bi­lità di siste­ma­zione, sono ospi­tati da mesi. La rico­stru­zione di Gaza, dopo le fan­fare del 12 otto­bre alla con­fe­renza dei Dona­tori (pro­messi 5,4 miliardi di dol­lari), rimane una parola scritta su fogli di carta. Israele due giorni fa ha con­sen­tito l’ingresso a Gaza di un con­vo­glio di 28 auto­carri cari­chi di cemento e mate­riali per l’edilizia, appena il secondo in tre mesi. A que­sto ritmo una nuova casa gli sfol­lati potranno averla tra una doz­zina di anni.